Si fa sera. La legna è già pronta nel prato, il fuoco viene acceso. Una cornamusa inizia a lanciare il suo grido nell’aria mentre intorno al falò si radunano uomini e donne vestiti con stoffe a quadri colorati. Bracae e tuniche, cinture di cuoio, spade al fianco, fibulae e braccialetti con spirali e triskel, torques al collo. Sono reduci da una giornata nel villaggio.

O più spesso da un combattimento. Tutti hanno tazze e bicchieri che presto si riempiranno di idromele. E, dopo aver consumato il cinghiale arrostito, si apriranno le danze. Si conclude così un giorno come tanti nelle infinite feste celtiche che, negli ultimi anni, si vanno moltiplicando sul territorio che un tempo fu la Gallia Cisalpina. La nuova “celtomania”, esplosa nella seconda metà degli Anni ’90, continua a imperversare malgrado le profezie che la volevano una moda passeggera. Ma ciò che caratterizza questo strano e complesso terzo revival celtico in Italia, e non solo in quella settentrionale…il primo arrivò con il romanticismo nell’800, il secondo con i fermenti politico-culturali degli anni ’70… è la presenza di un’inestricabile eterogeneità di elementi che a volte si combinano tra loro, dando luogo ad anacronismi e conflitti spesso irrisi o denunciati con forza da “storici puristi”, filologi o intellettuali.

Celtofonia e interceltismo

Per capire meglio ciò di cui stiamo parlando, partiamo dall’origine. Spesso, soprattutto nei Paesi interessati, vige la perfetta equivalenza tra “Paesi celti” e “Paesi celtofoni”. Oggi, secondo questa impostazione, è celtico solo ciò che è caratteristico di una comunità celtofona. Cioè le sei nazioni in cui si parla ancora una delle sei lingue celtiche sopravvissute, con alterne vicende: Irlanda, Scozia, Galles, Cornovaglia, Isola di Man e Bretagna, quest’ultima l’unica nazione celtofona continentale. L’interceltismo, vale a dire la tendenza alla collaborazione fraterna tra le sei comunità celtofone, nasce come un fenomeno di rivendicazione culturale e politica intorno a organismi come il Celtic Congress, fondato nel 1917, o in tempi più recenti la Celtic League, costituita nel 1961.
Le aperture più importanti dal punto di vista culturale arrivano dalla Bretagna, dal Festival Interceltique Lorient (Fil). Nato nel 1971 sulle ceneri della Festa delle Cornamuse di Brest e trasferito nell’importante città marittima del Morbihan, il Fil accoglie ben presto una nuova nazione celtica non celtofona, la Galizia, politicamente appartenente alla Spagna e situata a nord-ovest della Penisola Iberica; e più tardi, nel 1985, le Asturie, anch’esse appartenenti al regno di Madrid.
Attraverso queste aperture, peraltro non ancora del tutto comprese e accettate dai celtisti “conservatori”, si rende così possibile ipotizzare un primo superamento della celtofonia quale discriminante per l’appartenenza alla famiglia delle comunità, o nazioni, di origine celtica.

Celti sì, ma del giorno d’oggi

A emergere subito da questa storica tendenza, che ha estrema visibilità proprio attraverso la grande vetrina mondiale del Fil, è l’interesse nettamente prevalente delle comunità celtiche per il proprio presente e il proprio futuro, più che per il proprio passato. La storia della civilizzazione e delle tribù celtiche antiche è vissuta da bretoni, irlandesi, scozzesi, galiziani come un dato storico acquisito e da moltissimo tempo messo agli atti, e occupa nelle manifestazioni culturali un posto del tutto marginale. Quando addirittura non è totalmente assente. Ciò che a loro importa è trasmettere la propria cultura identitaria alle nuove generazioni, partendo dal rinnovamento in chiave moderna delle tradizioni ancor oggi rintracciabili sul territorio. E non dalla riproposizione di quelle, ricostruite o presunte, di duemila anni fa.
Non solo. Prima di tutto, questi popoli e i loro appartenenti definiscono se stessi come irlandesi, bretoni, scozzesi, gallesi. E soltanto dopo e in quanto tali sono anche celti. Quella del celtismo, o meglio dell’interceltismo, più che una vasta categoria utilizzata per definire un’identità propria, è un mezzo per intrecciare o mantenere legami con gli altri popoli che condividono la stessa origine.

Un gran pentolone che ribolle

Da queste semplici considerazioni, verificabili da chiunque anche dopo un breve soggiorno in quei Paesi, emerge che il fenomeno celtico attuale in Italia presenta caratteristiche ben diverse e talora antitetiche. Quasi sempre, quando da noi si parla di celti, il pensiero corre per prima cosa all’antichità preromana. Non è un caso che, dopo il grande silenzio degli ultimi anni ’80, l’interesse del grande pubblico per i celti sia stato risvegliato dalla grandiosa e irripetibile mostra archeologica di Palazzo Grassi a Venezia, nel ’91, visitata da ben 800 mila persone.
Nel gran calderone dei mille celtismi d’Italia oggi bolle di tutto. Come d’altra parte è logico che accada una volta squarciato il velo di una storiografia ufficiale cieca e zoppa, ancora troppo incentrata sul culto dogmatico della civiltà greco-romana. Oggi, dalle session di musica irlandese nei pub di Milano, si passa alla ricerca di fate e folletti nei boschi alpini. Dal mito dell’Irlanda, al fascino per la magia della terra bretone. Da un indefinito e anarchico anelito alla libertà, alle rivendicazioni politiche di tipo indipendentista, ma anche a certe generiche istanze del variegato mondo “no global”. Ciò che spesso è carente, o manca del tutto salvo poche e circostanziate eccezioni, è quella particolare e precisa coscienza di sé come individui e come popoli “di oggi”, dotati di un proprio profondo bagaglio storico, linguistico e culturale contemporaneo che merita di essere riaffermato, salvaguardato e trasmesso alle nuove generazioni.

C’è posto per tutti

In realtà, le mille anime del recente celtismo nostrano non è detto che debbano essere forzatamente in conflitto o in contraddizione tra loro. Queste varie anime hanno semmai un difetto: di solito sono impermeabili le une alle altre. È raro, e per ora limitato a pochissimi e numericamente marginali esempi, che in una festa celtica in Lombardia suonino musicisti che si occupano di musica tradizionale lombarda. Come se al Fil di Lorient non risuonassero soprattutto and dro e bal plinn, biniou e bombarde… Ma sarebbe sufficiente che gli appassionati, gli organizzatori, i cultori e i protagonisti di questa fase del terzo revival celtico facessero un po’ più di luce sui loro obiettivi e sui loro interessi. E scoprirebbero che c’è molto lavoro ancora da fare e posto per tutti. Nessuno escluso.
Occorrono idee chiare. Chi si veste da “celta di ieri” innanzitutto si diverte. È un bel gioco di ruolo, un fattore di aggregazione e – perché no? – una buona occasione per stare all’aria aperta, tornando in contatto con gli elementi della terra; e per riappropriarsi, più o meno filologicamente, di una storia antica sostanzialmente negata.
Chi preferisce agire come un “celta di oggi”, seguendo l’esempio di bretoni, scozzesi e asturiani, sceglie invece di impegnarsi, con lo studio e la ricerca, nella rivalutazione e nella riproposta di un’identità culturale e linguistica regionale ancora attuale ma a rischio di scomparsa. Questo è il caso del Piemonte che, in virtù di questo impegno, è presente da anni (unica nazione oltre le otto ufficiali) al Fil bretone con un proprio stand culturale che propone attività informali di animazione.
Chi invece “non si sente celta” come individuo o popolo («La celtitudine è un luogo dell’anima», ama ripetere il giornalista e profondo conoscitore della materia Giancarlo Nostrini) ma ama soltanto la musica, non ha mai avuto a disposizione così tanta richiesta o offerta di “musica celtica” – una definizione opinabile che meriterebbe un lungo ragionamento – come oggi, sia dal vivo che in cd.
L’antica civiltà celtica, uno dei tre pilastri d’Europa insieme con la germanica e la mediterranea, continua quindi a vivere. Nei ricordi, nel presente e nel futuro del nostro continente.