In nome della romanità si cercò di annientare ogni diversità etnico-linguistica. E l’operazione è tuttora in corso

L’8 novembre 1921 – un anno prima della marcia su Roma – Mussolini dichiarò al terzo congresso dei fasci di combattimento: “Il fascismo deve volere che entro i confini non vi siano più veneti, romagnoli, toscani, siciliani e sardi; ma italiani, solo italiani. E per questo il fascismo sarà contro ogni tentativo separatistico, e quando le autonomie che oggi si reclamano dovessero portarci al separatismo, noi dovremmo essere contro”. Non si può dire che peccasse di chiarezza né che si discostasse molto dalla logica di un qualsiasi partito nazionalista, imperialista e dittatoriale.
Dunque, niente toscani, pugliesi, eccetera. Figurarsi cosa fu delle altre minoranze etniche (che infatti non sono neanche citate nel discorso) quando il fascismo salì al potere. In un paese nel quale non si poteva scegliere se usare il “lei” o il “voi” e veniva sospettato di antifascismo chi chiedeva un “brandy” invece di un “arzente” e faceva dello “sport” invece che del “diporto”, le minoranze – magari fascistissime ma colpevoli di avere cultura e lingua proprie – furono sottoposte a una sorda, tenace, continua politica repressiva.
Sui tempi e i modi di questa repressione purtroppo manca uno studio organico, perché una storia delle minoranze etniche durante il fascismo – che sarebbe di grande interesse – purtroppo non è stata ancora fatta. Come esempio comunque può bastare quello del Sudtirolo, dove non solo venne fatto di tutto per sopprimere il bilinguismo, ma addirittura dal 1936 si incoraggiarono i germanofoni a emigrare in Germania: decisione a dir poco straordinaria per un regime che aveva tra i suoi miti la “sacra guerra” del ‘15-18 e la convinzione che “il numero è potenza”. (Per la politica etnica fascista in Alto-Adige cfr. Mario Toscano, Storia diplomatica della questione dell’Alto Adige, Bari, Laterza 1967; Renzo De Felice, Il problema dell’Alto-Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’Anschluss alla fine della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973).
La politica linguistica, che è stata maggiormente studiata (cfr. Leso, Cortelazzo, Paccagnella, Foresti, La lingua italiana e il fascismo, Bologna, Consorzio provinciale pubblica lettura 1977, dove si trova anche un’abbondante bibliografia sugli altri studi), permette di farsi un’idea dei metodi e delle incongruenze del regime nel perseguire le minoranze.
Mussolini, come Hitler, aveva convinzione – propria di una cultura pseudoumanistica e di una politica nazionalista – che “la nazione è la lingua”; lo disse chiaramente in un discorso del 31 gennaio 1940, rifacendosi a Tommaseo e concludendo: “Difendere la lingua, perfezionarla, abolendo certi particolarismi che non sono di mio gusto, significa rendere sempre più potente l’unità spirituale e quindi politica della nazione”. E per fortuna che nelle nazioni confinanti non c’erano forti minoranze che parlassero l’italiano: fu proprio al motto di “la nazione è la lingua”, infatti, che Hitler invase l’Austria, i Sudeti e la Polonia. Se Mussolini non aveva minoranze da annettere in base all’osmosi lingua-nazione (falsa sia sul piano storico sia su quello teorico), aveva in compenso molte lingue straniere all’interno del territorio nazionale e contro di queste si accanì, arrivando persino alla italianizzazione dei cognomi stranieri. Gli esiti di questa battaglia erano scontati e li abbiamo tutt’oggi sotto gli occhi: le varie etnie presenti in Italia – avvilite, perseguite, ufficialmente private della loro lingua – continuano a esistere, nonostante il regime fascista.
Nonostante il regime fascista e nonostante gli ultimi trentacinque anni di politica governativa. Ma questa è un’altra storia: un’altra brutta storia.