Gli attentati di Teheran sono una straordinaria prova di forza politica e militare dell’Isis, a dimostrazione che le sconfìtte sul terreno a Raqqa e a Mosul moltiplicano la forza di penetrazione della sua iniziativa terrorista. Portare a termine un attentato a quanto di più sacro rappresenta la rivoluzione sciita iraniana, il santuario che custodisce il corpo di Khomeini, è diffìcile, al limite dell’impossibile. Equivale ad attentare al mausoleo di Lenin nella Mosca di Josef Stalin. Penetrare con un commando in armi dentro il super difeso Parlamento iraniano equivale alla capacità di assaltare la sede del Nsdap, il partito nazista, nella Berlino di Adolf Hitler. Checché ne dicano gli analisti buonisti dell’Occidente, l’Iran non è per nulla un paese libero. Teheran vive sotto la morsa di una sorveglianza poliziesca a più strati: polizia, Bassiji, Pasdaran e Servizi Segreti.
Pure, i due attentati non sono spontaneisti, come gli ultimi in Europa. Sono stati preceduti da una lunga, minuziosa preparazione; da sopralluoghi per eludere le imponenti misure di sicurezza dei siti colpiti. Hanno comportato riunioni, reperimento e spostamenti continui di armi ed esplosivi e definizione in clandestinità di minuziosi piani d’azione. Soprattutto, sono stati portati a termine non da iraniani, da chi vive da anni nella città, perché nulla è la capacità di attrazione dell’Isis wahabita nei confronti degli iraniani sciiti. Gli autori dei due attentati sono palesemente o stranieri (pakistani, afghani, iracheni) o appartengono alla minoranza araba delle regioni iraniane del Belucistan e del Khuzestan, o – con minore probabilità – sono curdi iraniani.
Pure, questo lavoro ciclopico è stato sviluppato nella piena clandestinità in una città che pullula di spie ed informatori, perché capillare è la rete di delazione che da 38 anni gli ayatollah hanno steso in tutti i quartieri, in tutte le case e in tutte le famiglie di Teheran.
Il colpo politico e materiale al prestigio e alla sicumera del regime iraniano è stato quindi enorme: ha fallito nel difendere i più alti simboli della Repubblica islamica: il mausoleo, il corpo del “padre della rivoluzione” dell’imam, dell’ayatollah Khomeini e la sede del Parlamento.
Non è poi un caso che i parlamentari iraniani assediati dai jhadisti-terroristi abbiano urlato: “Morte agli Usa! Morte ai loro servi dell’Arabia Saudita!”. Non sfugge a nessuno infatti che a Riad, se si potesse bere, si brinderebbe a questa umiliazione inflitta agli ayatollah.
Questo attentato si colloca infatti in pieno nel clima di escalation parossistica che da mesi contrassegna il conflitto eterno tra i sunniti wahabiti del Golfo e la Teheran sciita. Gli ayatollah, infatti – ampiamente coadiuvati dalle follie di Barack Obama – ormai controllano e sono egemonici su un’area enorme che va dalle rive del Mediterraneo (Siria e Libia) ai confini dell’Afghanistan. Ma addirittura stanno creando un corridoio diretto che collega l’Iran con Hezbollah libanese (che ha avuto 2500 morti e 7000 feriti nella guerra civile siriana), attraverso il quale fanno passare armi e finanziamenti, una minaccia che è la “maggiore preoccupazione strategica” di Israele.
A fronte di questo espansionismo dei rivoluzionari sciiti iraniani, i paesi sunniti, Egitto e Arabia Saudita in primis, non possono che reagire come stanno facendo (vedi Qatar), profittando della svolta mediorientale di Donald Trump che ha capovolto la strategia di Obama considerando, a ragione, l’Iran prima causa del terrorismo. La grande, immensa novità degli attentati di Teheran è data dunque dalla dimostrata capacità dell’Isis di inserirsi in questa escalation tra mondo sunnita e Iran e di colpire al più alto livello i massimi simboli della rivoluzione sciita.
Chi pensava che la perdita imminente di Raqqa e Mosul comporti solo un incremento degli attentati in Europa sbaglia. Nonostante queste sconfìtte, con un doppio colpo magistrale, l’Isis ha dimostrato di sapersi introdurre in pieno in queste contraddizioni. Traendone il massimo profitto e favorendo l’arrivo di una nuova leva di adepti.

Carlo Panella, “Libero”.