Nel 1950 – vale a dire due anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e vent’anni prima della nascita delle Regioni a statuto ordinario – Gianfranco Miglio scriveva: “Dobbiamo mantenere, per amor di simmetria, gli stessi controlli tutori e le medesime bardature burocratiche sulla Lombardia e sulla Basilicata? Oppure dobbiamo applicare all’amministrazione pubblica gli stessi criteri pratici che si adottano anche nella più umile delle aziende private, ove il collaboratore inesperto viene strettamente controllato e quello capace lasciato invece libero della propria iniziativa? Dobbiamo considerarci una specie di convoglio, costretto per l’eternità a camminare alla velocità ridotta della nave meno efficiente, oppure dobbiamo consentire alle regioni più progredite di sviluppare le proprie capacità e le proprie risorse di iniziativa, senza inutili impacci, nell’interesse evidente dell’intera comunità nazionale?”.
Con la lucidità e l’incisività che gli erano proprie, il professore lariano metteva a fuoco – e con larghissimo anticipo rispetto alla riforma costituzionale del 2001 – l’essenza del regionalismo differenziato. Non parliamo – per carità, ma anche per amore di verità e di rigore teorico – di “federalismo” né di “secessione”, come fanno, assai impropriamente, i quaranta studiosi chiamatì a raccolta dal professor Gianfranco Viestì, che hanno promosso la petizione “No alla secessione dei ricchi”. Una petizione che, sull’onda della più becera demagogia anti autonomista, ha raccolto rapidamente quasi quattromila adesioni.

I rendimenti

Le trattative intavolate da Lombardia e Veneto – a seguito del referendum consultivo territoriale dello scorso 22 ottobre – e dall’Emilia Romagna, che si è lanciata sulla scia dell’azione delle prime due regioni, si collocano nell’alveo della più stretta e rigorosa lealtà costituzionale. Si tratta di un atto di grande responsabilità istituzionale, finalizzato a sfruttare l’opportunità offerta dall’articolo 116 – al terzo comma – della Costituzione. Deliberatamente ispirato al federo-regionalismo spagnolo, il regionalismo differenziato – costituzionalizzato con la riforma del 2001 – mira a riconoscere a ogni regione dei margini di autonomia coerenti con la sua fisionomia dal punto di vista economico e produttivo, fiscale e culturale. Anche perché il regionalismo ordinario dell’uniformità – praticato dal 1970 in qua – ha creato davvero dei danni molto gravi al Paese. Con l’obiettivo di garantire eguali diritti e tutele a tutti i cittadini della Repubblica, ha fatto emergere con chiarezza i differenziali di rendimento istituzionale dei territori. Nel paesaggio del regionalismo italiano, infatti, sono sotto gli occhi di tutti quelle realtà che hanno fatto un uso virtuoso dell’autonomia politica e amministrativa, per quanto – sic stantibus rebus – assai limitata. Hanno incrementato la democrazia di prossimità, ampliando i diritti di welfare e la qualità dei servizi erogati a beneficio dei cittadini, utilizzando altresì le risorse secondo criteri di elevata produttività e alta redditività. È quindi giusto premiare queste realtà con maggiori margini di autonomia, nell’interesse esclusivo del Paese. Non v’è nulla di male, anzi.

Nuove materie

La Costituzione prevede che le regioni in pareggio di bilancio possano chiedere – nel negoziato con il governo – sino a 23 nuove materie: tre competenze esclusive dello Stato e tutte e venti le competenze concorrenti. Non c’è nessuna controindicazione se la Lombardia – regione che ha dato i natali a Carlo Cattaneo e Gianfranco Miglio, ma anche a Giuseppe Ferrari epure a Gianni Brera – le chiede tutte e 23, con le relative risorse per gestirle. In questo modo sgrava lo Stato di alcune pesanti incombenze, nella prospettiva di erogare dei servizi – per il proprio territorio – con un minore costo e una maggiore qualità, come comprovato dalle principali agenzie internazionali di rating da parecchi anni in qua.
Evitiamo – per piacere – di confondere le idee e di fare allusioni al residuo fiscale, che non è oggetto del negoziato. Non confondiamo le acque, come fanno – pretestuosamente – Viesti e i suoi amici. Non è una questione di orgoglio nordista versus orgoglio sudista. Se la mettiamo su queste basi, ancora una volta perdiamo una grande occasione. La trattativa intavolata da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna ha innescato infatti un vero e proprio effetto domino, coinvolgendo altre regioni – anche del Sud – che vedono nel modello federo-regionalista, fondato sul regionalismo differenziato, un’importante opportunità di sviluppo per il Paese, ricomponendo la sua unità su nuove basi, più aderenti alla sua fisionomia storica e culturale, economica, produttiva e fiscale. Con buona pace dei sottoscrittori della petizione lanciata dal professor Viesti.

Stefano Bruno Galli, “Libero”.