In pieno periodo di crescita autonomistica, alcune regioni – come l’Emilia e la Liguria – sembrano non reagire all’italianizzazione sempre più aggressiva. Ve­diamo che succede nel capoluogo emiliano


Nel quadro dell’odierna situazione neo-autonomistica dell’Italia setten­trionale l’Emilia-Romagna rappre­senta un vuoto che certo stupisce, se non preoccupa.
Analizzare i problemi etnico lingui­stici del capoluogo è quindi una tappa obbligata per cercare di addentrarsi meglio nei sentimenti di questa ricca e cruciale regione. Si vuole qui ten­tarne un primo avvicinamento, rivol­gendo l’attenzione a quel fattore che – anche se non unico – caratterizza almeno esteriormente un’etnia: l’uso dell’idioma locale; di quell’idioma che Dante, già “scolare in Bologna”, diceva di preferire sotto vari aspetti al suo fiorentino. Ora, da questo punto di vista, la situazione bologne­se appare assai scoraggiante…
I reali utenti del bolognese al di sotto dei trent’anni di età sono una vera minoranza, numericamente irrilevan­te; nella fascia di mezz’età i “patoisanti” sono invece parecchi, forse i più, mentre, per gli anziani, ciò che è stato scritto per i giovani va invertito. Perché? Indubbiamente questa si­tuazione riflette purtroppo una con­dizione più generale, italiana ed an­che europea, di massificazione linguistico-culturale, ma a Bologna il fenomeno in questione appare parti­colarmente accentuato, specie rispet­to alle finitime province di Modena e Ferrara ed alla Romagna.
La televisione e la radio che fanno da baby-sitter – invero perverse – ai bambini sono la prima, nota ragione di questo appiattimento. Non esiste una trasmissione locale interamente in lingua celto-padana, ma solo alcu­ni programmi “bolognesi” in cui il vernacolo è usato come intercalare, sia per TV che per radio; però a tarda ora capitano certe telefonate di vec­chiette smaniose di partecipare al solito gioco a premi per vincere il calcolatore elettronico da regalare all’“anvaud”, il nipote, “parche l’à d’andèr a scola”. Ma, naturalmente, proprio perché il virgulto deve istruir­si a scuola, bisogna fare in modo che accantoni il “dialetto”: ecco spiegato il fenomeno, comunque incredibile, di signore che col marito e la madre si esprimono in dialetto, e coi figli inve­ce in italiano, magari stentato, ma pur sempre italiano, lingua della scuola.
A proposito, la scuola in dialetto, anche in campagna, è un fatto attual­mente utopico, vista la mentalità dei genitori, ma, anche se non a livello ufficiale, qualche iniziativa c’è; aiu­tati dalle nonne incredule, i bambini partecipano a qualche concorso di poesia bolognese, e mettono in scena pure delle recite.
In certe scuole, per lo più elementari, vengono insegnate ai bambini alcune frasi bolognesi, e forte è la richiesta di testi per l’infanzia in dialetto da parte di maestre “aperte”; ma purtroppo questi tipi di libri non vengono stam­pati.

Scarse iniziative

Non va tuttavia trascurato che alcuni editori locali pubblicano, con una certa frequenza, saggi di pochi be­nemeriti appassionati su aspetti della parlata e delle usanze popolari; ma i testi in lingua sono rarissimi, quasi sempre di qualità mediocre. Si deve invece segnalare l’interesse – tenuto vivo dagli stessi che produssero le prime edizioni (come Zanichelli) o da specialisti in ristampe anastatiche (come Forni) – per le opere ormai classiche di autori scomparsi, quali Alfredo Testoni e Olindo Guerrini, e per i vocabolari e le raccolte di pro­verbi e di testi che nell’Ottocento contrassegnarono, non solo a Bolo­gna e nella sua regione ma in tutta la penisola, il fervido studio degli idio­mi locali (e di fatto del bolognese uscirono nel secolo scorso almeno quattro vocabolari, di cui due recen­temente ristampati). Ma queste ulti­me sono iniziative che si esauriscono nella cerchia di pochi iniziati, mentre nel complesso si può ben dire che ora la lingua scritta non fuoriesce da una realtà “folclorica”, fatta di manife­stazioni rare ed episodiche e ben diverse da quelle di altri centri (sap­piamo quali) del Nord.
In realtà anche le associazioni quali la Faméja bulgnaisa, la “Bologna storico-artistica”, la “Francesco Fran­cia”, nate per difendere e propagan­dare il patrimonio culturale e artisti­co della città, non hanno i connotati per promuovere su Bologna un di­scorso più impegnativo per il recu­pero e la riaffermazione di una sua identità.
Il fenomeno dell’emigrazione dal sud, pur se non indifferente a Bologna, non ha inciso come altrove; invece si è verificato un movimento massiccio dalla stessa provincia, il che sul piano etnico non ha molto influito. Piutto­sto il trovarsi ad essere in una posi­zione nodale per le comunicazioni e il commercio, con una presenza note­vole di moderne industrie, ha reso questa città vulnerabile, trasforman­dola in metropoli quando la sua men­talità è ancora decisamente provin­ciale. E l’abbandono della campa­gna, come delle attività artigianali (a cui erano legate precise locuzioni dialettali degli strumenti e del con­creto operare) ha contribuito a di­sperdere un patrimonio linguistico estremamente ricco.
Il bolognese, quando si sente legato alle proprie origini, è fiero di essere tale, gli piace la passeggiatina in centro, ama il pettegolezzo sottile, dice spesso che la sua lingua è la più bella del mondo, ma non la trasmette ai figli. È affetto da complessi d’infe­riorità verso certe città e popoli che crede più “progrediti” (di qui una sorta di diffusa esterofilia), ma nello stesso tempo soffre di una sorda diffi­denza, quando non di aperta avver­sione, per altre realtà sentite come estranee: e così affiora quell’antime­ridionalismo che qui fa chiamare senza troppa benevolenza “marucchèin” chiunque sia nato a sud di Ancona. Al riguardo vien fatto di osservare che una migliore informa­zione sugli altri contribuirebbe a far riconoscere in modo più adeguato la propria individualità.
Molti giovani – e lo dichiarano con insistenza – proverebbero interesse a conoscere qualcosa della loro città, ma più che frequentare i teatri dove si esibisce ogni tanto Arrigo Lucchini con la sua compagnia, assistere a qualche spettacolo estivo dei buratti­ni di Demetrio Presini e comprare i dischi di Dino Sarti non possono fare. Occorrono invece iniziative cul­turali non limitate o astratte, ma vaste e popolari, di cui però oggi non è dato vedere le linee e gli animatori.