Nelle campagne russe, lontano dalle città, sopravvivono, isolate o raccolte in villaggi, le intime, calde, sicure, tipiche costruzioni in legno, testimonianza di antichi modelli di vita e dell’impareggiabile estro degli artigiani russi del passato.

L’izba è la tipica casa di campagna della vecchia Russia. Ancora oggi però, lontano dalle città, le izbe sopravvivono negli aspetti e nelle forme più varie, modestamente o riccamente ornate. Negli sterminati e silenziosi spazi della Russia del nord sorgono queste case isolate o raggruppate in villaggi, spesso molto lontani l’uno dall’altro, villaggi fiabeschi come quelli raffigurati nei quadri di Chagall. Erano e sono ciò che di più intimo, dolce, caldo e sicuro possa esserci per accogliere l’uomo e difenderlo dal gelo dei rigidi inverni e dalle bufere di neve. L’inverno però non è sempre visto come una forza ostile: c’è una certa affinità e corrispondenza tra i Russi e l’inverno, così come tra i Russi ed i boschi. Nel folto delle foreste essi non provano paura, nonostante gli infiniti pericoli che si possono presentare; al contrario, si sentono sicuri, protetti e provano una profonda pace nell’animo. Il legno era perciò il materiale principale usato per la costruzione della casa, dei mobili, degli utensili ed anche dei giocattoli.

L’izba era fatta di tronchi d’albero messi uno sopra l’altro orizzontalmente ed incastrati all’estremità. La descrizione più antica è quella di Vitruvio: “I Colchi del Ponto, data l’abbondanza delle selve, dispongono a terra, a destra e a sinistra, per lungo, tronchi d’albero tutti d’un pezzo, lasciando in mezzo uno spazio commisurato alla lunghezza degli alberi; alle estremità collocano altri tronchi di traverso, e così è segnato il perimetro dell’abitazione. Poi consolidano gli angoli, legando travi alterne sulle quattro facce, e tiran su le pareti con fusti d’albero perpendicolari ai primi, a mo’ di torre, tappando gli intervalli tra fusto e fusto con schegge e fango”; e Fernand Braudel nel suo libro “Le strutture del quotidiano” ci riporta la descrizione di un precettore francese, Hubert Vautrin, del XVIII sec.: “In Moscovia, il contadino, per costruirsi la casa, abbatte dei pini, ne prende i fusti che spezza in due nel senso della lunghezza, li dispone su quattro grossi massi collocati ai quattro angoli di un quadrato, per servire di base, avendo cura di volgere all’interno il lato piatto; fa delle fessure alle estremità per poterli incrociare agli angoli, senza che lascino fra loro troppa apertura, e innalza in tal modo una gabbia dell’altezza di sei piedi, larga dodici, alla quale lascia due passaggi, uno alla luce, di circa un piede, l’altro agli uomini, di quattro o cinque; due o tre pezzi di vetro o di carta oleata chiudono la finestra. Su uno degli angoli di base si innalzano quattro pertiche, che fanno da sostegno a una piramide tronca, sui cui lati sono intrecciati rami coperti di argilla, e che serve da tubo conduttore per un forno costruito all’interno. Tutto il lavoro è compiuto con un solo strumento, l’ascia”.

Lo stesso metodo e tipo di costruzione si ripeteva sempre, diveniva così tradizionale nella cultura di quei luoghi. I monumenti dell’architettura in legno che ci sono pervenuti, nonostante i danni del tempo, delle condizioni atmosferiche e degli incendi, testimoniano questa tradizione, l’estro degli artigiani russi del passato e al tempo stesso lo sviluppo della casa da semplice izba a grandiose costruzioni, come il palazzo di Kalomenskoe e le chiese di Kiji. Il termine izba indicava la presenza di una stufa nell’ambiente e sicuramente aveva analogia col termine tedesco Stube e con quello tardo latino esctuva . Per sopportare il clima rigido costruivano questa grande stufa (russkaia pěc) che serviva a riscaldare l’ambiente, a scaldare l’acqua, a cucinare ed anche a fare il bagno a vapore. L’izba inoltre non veniva appoggiata a terra ma era sollevata di circa un metro per evitare l’umidità del terreno. Questo spazio veniva usato per lo più come dispensa ma spesso vi trovavano asilo gli ovini e i gallinacei. A volte, sempre a difesa del freddo, si costruiva una seconda “gabbia” di tronchi d’albero dentro la prima. L’arredo, nel passato, era essenziale: alcune panche fissate alle pareti, che fungevano di notte da letto, ed un tavolo. In un angolo c’era lo spazio riservato al capofamiglia: un tavolo con i suoi attrezzi, al quale sedeva e intagliava il legno o si dedicava ad altri lavori del genere. Un altro angolo era riservato alle donne che filavano, tessevano e ricamavano. Se c’era un neonato, sospesa con due corde al soffitto, dondolava la culla nella quale insieme al bimbo dormiva spesso anche il gatto. I contadini russi avevano l’abitudine di mettere il gatto nella culla perché trasmetteva la sua sonnolenza al bambino. I ragazzini più grandi dormivano negli interni delle travi concave. Ma il posto più bello, per dormire, era quello sopra la stufa. L’angolo destinato al tavolo era chiamato “angolo bello” perché, appoggiate ad una mensola, c’erano le icone. In autunno, i giovani dei villaggi sceglievano un’izba dove ritrovarsi e trascorrere insieme le serate d’inverno. Si raccoglievano soldi per il padrone che metteva a disposizione la sua casa. Si spostava il tavolo e si faceva festa ballando e cantando. Solo le vecchie rimanevano sedute a sorvegliare la situazione. Accanto all’izba vera e propria il contadino costruiva il bagno, la stalla, il granaio ed il fienile. Preferivano questa soluzione a quella di avere un unico grande edificio. Comunque, i vari fabbricati erano collegati da cortili coperti di tetto. Gli antichi Slavi credevano negli spiriti, nei folletti; avevano una concezione animistica della natura e di tutto ciò che li attorniava. Secondo loro esisteva uno spirito della casa, uno del bosco, un altro dei campi (quando falciavano il grano lasciavano sempre un piccolo pezzo di campo intoccato nel quale lo spirito poteva rifugiarsi). E non si accontentavano di un solo spirito della casa, ma ne attribuivano uno ad ogni edificio che faceva parte della residenza e così c’era lo spirito del bagno, quello dell’essiccatoio, quello della stalla: reminiscenze queste di un antico culto dei Mani. Il bagno o la sauna era, come dicevo, una costruzione spesso staccata dall’abitazione stessa, nella quale c’era una stufa. Sulle pietre infuocate di questa si buttava acqua e subito si sprigionava molto vapore. In Russia il bagno- sauna era molto in uso sin dall’antichità. In genere, ricchi o poveri, tutti ne possedevano uno. In ogni villaggio c’erano bagni pubblici che venivano costruiti, generalmente, in riva al fiume. Questa usanza impressionava molto i viaggiatori europei.

Suzanne Massie nel suo libro “La terra dell’uccello di fuoco” ci riporta la descrizione, che risale al 1500, del capitano di marina mercantile Antony Jenkinson: “Fanno bagni caldi due o tre volte la settimana. Tengono accesa la stufa per tutto l’inverno e quasi per tutta l’estate e scaldano a tal punto la casa che al momento lo straniero si sente a disagio. Li si vede talvolta (per tenersi in forma) uscire dagli edifici dei bagni tutti coperti di schiuma e fumanti… per poi saltare nel fiume nudi, o versarsi acqua fredda addosso, anche nel più crudo inverno”. Il bagno era, anticamente, un luogo sacro pagano. Le donne dovevano partorire nel bagno-sauna: “Si nasce nel bagno, si muore nell ’izba” diceva un vecchio detto. Anche i giovani sposi, subito dopo il matrimonio, dovevano fare il bagno insieme in questo luogo misterioso e magico per compiere un rito purificatorio. Questi edifici, in epoca precristiana, erano templi pagani; poi, col Cristianesimo, la loro funzione era cambiata, ma avevano mantenuto questo loro aspetto sacrale come “luoghi impuri”. Gli stregoni, durante le feste religiose cristiane, rimanevano nelle saune a predire il futuro e a fare esorcismi. Anche le città come Mosca, nel XVI secolo ed anche nel successivo, erano formate di izbe isolate. Il Miechovita descriveva la città: “Moscova è di legno e non di muri. Ha pur assai piazze (vie) e dove piazza finisce l’altra immediatamente non comincia, ma vi sta di mezzo un campo tra le chiese; anchora in mezzo d’una e d’una altra tramezzano le chiese talmente che le case non istanno attaccate l’una contro l’altra”. Queste costruzioni erano opera di artigiani anonimi. Esistevano delle specie di cooperative di falegnami che si chiamavano artel. Chi aveva più talento insegnava il mestiere ai discepoli, assicurando la continuità di quest’arte. Queste cooperative inoltre si spostavano da una città all’altra del paese, da un villaggio all’altro, innalzando costruzioni in breve tempo e con grande maestria. L’unico utensile che usavano era l’accetta per tagliare i tronchi, incastrarli a coda di rondine ed anche per intagliare la decorazione.

In Russia, fin dai tempi remoti, era stato elaborato un progetto di casa prefabbricata che veniva montata in poche ore. Era un sistema di avanguardia in Europa. Scriveva un viaggiatore arabo del X sec., Ibu Fadlan, che i mercanti russi, quando si recavano alla fiera di Itil, la capitale del Kazan, sulle rive del Volga, montavano tra le case del paese delle costruzioni nelle quali vivevano solo nel periodo della fiera. Questo sistema di prefabbricazione era divenuto indispensabile perché scoppiavano molto spesso degli incendi. Nella sola Mosca, tra il ’500 ed il ’600, ne erano scoppiati ben 27 che avevano distrutto gran parte della città. C’era un rione nella città di Mosca, presso la porta Pokrovskaja nel quale abitavano muratori e falegnami e dove si svolgeva un mercato in cui si vendeva tutto il materiale per l’edilizia. Ne parla anche l’Olearius. Col passare dei secoli, le città si svilupparono e le case vennero edificate in muratura. Nei villaggi invece i cambiamenti erano molto più lenti e si continuava a costruire le case in legno, secondo la vecchia tradizione. C’era una tale pace in questi villaggi in cui tutto si svolgeva con molta lentezza… Una pace inconcepibile per noi occidentali. Mir in russo significa sia “pace” che “comunità contadina”, intesa come sistema di governo agrario. Questa comunità era costituita da tante famiglie con uguali diritti e doveri. Non c’è scrittore russo che non abbia parlato dell’intimità di queste case di campagna, spesso anche malandate, e della quiete dei villaggi. Scriveva Goncarov nel suo “Oblomov“: Come tutto era tranquillo e sonnolento nei tre o quattro villaggi che formavano questo cantuccio! Essi si trovavano non lontani uno dall’altro e sembravano buttati lì a caso dalla mano di un gigante, e, come erano stati sparsi, così erano rimasti da allora. Una delle casette caduta sull’orlo di un burrone è ancora lì appesa da tempo immemorabile, metà per aria e appoggiata a tre lunghi pali. Tre, quattro generazioni vi hanno vissuto tranquille e felici”. Oppure, come scriveva Saltykov Scedrin nel suo ‘‘Gli antichi tempi di Posechone” : “Le abitazioni padronali di quel tempo (parlo dei proprietari di medio calibro) non si distinguevano né per eleganza, né per comodità. Di solito venivano costruite nel mezzo del villaggio, donde era più comodo sorvegliare i contadini; per di più veniva scelto immancabilmente un avvallamento del terreno, per avere più caldo d’inverno. Le case erano quasi tutte del medesimo stampo: a un sol piano, più lunghe che larghe e a foggia d’ampio cassettone; né i muri , né il tetto venivano dipinti; le finestre erano all’antica, di quelle che s’aprono tirando in alto l’intelaiatura inferiore, che veniva fissata con un puntello. Nei sei o sette vani di questo quadrangolo dai pavimenti traballanti e dai muri senza intonaco era stipata la nobile famiglia – talvolta numerosissima – con tutto uno stato maggiore di domestici (per lo più ragazze) e con gli ospiti che di tanto in tanto venivano a trattenersi qualche giorno. Di parchi o giardini neppure da parlarne. Davanti alla casa si stendeva un minuscolo giardinetto cosparso di acacie potate, ricoperto quanto a fiori di calcedonie, di gigli e di borraggine color giallo scuro. A fianco, vicino alle stalle, veniva scavato un piccolo stagno, che serviva da abbeveratoio per il bestiame, e che colpiva per il lezzo e la sporcizia. Dietro la casa era sistemato un orto senza pretese, con fragole, ribes, lamponi e ortaggi dei più pregiati: ravanelli, fave, piselli dolci, e così via, che – ancora a mio ricordo – venivano offerti a fine pranzo, nelle case povere, come dessert. Si capisce che i proprietari più agiati (e noi tra questi) avevano abitazioni più spaziose, ma il tipo corrente, per tutti, era quello e solo quello. Allora non si pensava né alla bellezza, né al comfort e neppure a star larghi, si badava solo ad avere un angolo caldo, e la pancia sufficientemente piena”.

Ancora oggi, se si visitano certi villaggi, ci si sente rasserenati. Sembrerebbe quasi che il tempo si fosse fermato al secolo scorso se non ci sorprendessero le antenne televisive sui tetti e le automobili parcheggiate di fronte alla izbuske. È soprattutto nel nord della Russia e nella Siberia che ci sono gli esempi più belli e più significativi dell’architettura in legno ed anche le case più grandi; nella Russia centrale erano di minore dimensione. È impossibile descrivere la moltitudine e la varietà di queste case e purtroppo quasi non rimane nulla dell’architettura domestica precedente al XVIII sec., e dell’architettura ecclesiastica nulla precedente al XVI sec. Certo l’izba era la prima e perciò più rudimentale abitazione, ma col tempo le case in legno si erano molto raffinate. Gli architetti, che erano al tempo stesso artigiani, cercavano di ottenere il meglio, di alleggerire la pesantezza della struttura stessa dell’izba con decorazioni ed intarsi. Questi intarsi decoravano i frontoni, i davanzali delle finestre, delle porte, delle verande con motivi che ricordavano quelli dei ricami. Perfino “l’izba sulle zampe di gallina”, la capannuccia della Baba Jaga (la strega), che compare nelle fiabe russe, riprendeva la forma dell’architettura del nord. I motivi che abbellivano il frontone delle izbe erano per lo più teste di animali, di uccelli. Un motivo particolarmente amato era quello della testa di cavallo, poiché questo animale era molto caro all’uomo, come compagno nel lavoro e nel divertimento. Spesso c’erano raffigurazioni simboliche del sole. E ciò che sorprendeva ancora di più era il fatto che gli artisti cercavano di non ripetere le stesse decorazioni quando erigevano una nuova casa. Difficilmente nei villaggi si trovavano case con ornamenti identici. Esse non erano solo intarsiate, ma anche dipinte con i colori più smaglianti per contrastare i cieli grigi dei lunghi inverni russi. E nell’architettura in legno si è espresso, in tutta la sua profondità, lo spirito russo.

Bibliografia

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