carlo panella 11 settembre
Carlo Panella è uno dei più raffinati conoscitori del mondo islamico.

Il giorno che ha cambiato il mondo, questo fu il titolo del Sun del 12 settembre 2001. Sintetico, l’Examiner uscì con un efficace “Bastards!” a caratteri cubitali. Passati 15 anni, obbligati a un bilancio, non possiamo che sottoscrivere i due concetti, intrisi di un senso di angoscia. Da allora, infatti, noi, l’Occidente, abbiamo fatto enormi passi indietro. Loro, i jihadisti, enormi passi avanti. Non è solo problema di territori o Paesi controllati allora da al-Qaeda e oggi da ISIS, al-Qaeda, Boko Haram e una costellazione di gruppi minori. Non è solo il numero di jihadisti: allora poche migliaia e oggi molte decine di migliaia (anche in Europa, anche in Italia). Non è solo il numero delle vittime (al 95% musulmane) del terrorismo jihadista, che è 10-20-30 volte quello delle vittime di Twin Towers e Pentagono (ampiamente superato nel complesso degli attentati in Occidente).
Il problema drammatico è che il jihadismo ha acquisito un consenso grande – anche se nettamente minoritario – dentro la umma musulmana. Anche nelle zone che governa col terrore. Un grande esperto israeliano del jihadismo mi ha recentemente detto: “Se per paradosso vi fossero libere elezioni, controllate dall’ONU nei territori su cui governano l’ISIS e al Nusra (al-Qaeda in Siria), i voti a loro favore supererebbero indubbiamente il 60%”. D’altronde, lo stesso sondaggio condotto da al-Jazeera, rivela un consenso di opinione tra i suoi ascoltatori del 30%.

Guerra di religione

Da qui, dal consenso crescente riscosso da allora a oggi dal jihadismo terrorista bisogna dunque partire per fare un bilancio. Innanzitutto per mettere a fuoco un fatto incredibile: questo non è un parametro con cui si confronta non solo Barack Obama, non solo papa Francesco, non solo la maggior parte dei leader mondiali, ma anche la maggior parte degli analisti e dei media.
La ragione di questo collettivo nascondere la testa sotto la sabbia, di questo incredibile rifiuto di confrontarsi con la realtà è semplice e drammatica. Prendere atto del consenso di settori (pur minoritari) del mondo musulmano per il jihadismo significherebbe ammettere che loro (non noi, loro) conducono una guerra di religione e soprattutto che l’islam c’entra, eccome, col jihadismo terrorista, con le conseguenze del caso, anche per il papa.
Pure, la realtà fattuale e la storia recente dell’islam, ci offrono un quadro che evita il pericolo di combattere il jihadismo terrorista assumendo anche noi una logica di guerra di religione, di cristianità contro l’islam. Due scismi, quello wahabita del XVIII secolo (quindi non reattivo al colonialismo, alle “colpe dell’Occidente”) e quello khomeinista del XX secolo, hanno definito una Teologia di Morte dentro il corpo dell’islam, basata su due Pilastri che si aggiungono ai 5 Principi di fede dell’islam. Il primo scisma propugna l’obbligo per i musulmani di combattere il Jihad contro i “governi illegittimi” (tutti) e gli idolatri (noi). Il secondo sostiene che il martirio-assassino è un obbligo assoluto – non una eventualità difensiva – per il musulmano. Sono due scismi islamici, non sono condivisi dall’islam maggioritario – lo ripetiamo – che però hanno saputo proporsi nella modernità (il “martirio” prima del 1979 era assente ed era addirittura proibito da tutto l’islam), producendo il jihadismo terrorista. Due scismi che si collocano nell’alveo dell’islam, della sua Tradizione, della sua teologia, teorizzati da teologi (minoritari), come Ibn Taymyya, al-Qutb e – appunto – Khomeini. Due scismi che urlano al mondo musulmano “I have a dream”: la costruzione nella modernità della pòlis fondata da Maometto nel 622 d.C. alla Medina e poi alla Mecca. Quindi affascinano. Due scismi che applicano – con crudeltà – la stessa sharia wahabita (o quella sciita) condivisa da centinaia di milioni di musulmani.

L’unica vittoria

Gli errori commessi dopo l’11 settembre, quelli dell’interventismo di G.W. Bush, e quelli del non-interventismo di Obama (responsabile di 450.000 morti nella sola Siria), sono tutti riconducibili a questa sottovalutazione della pregnanza del consenso. La riprova: l’unica grande battaglia vinta dall’Occidente, che costrinse al Baghadadi e i suoi a fuggire dall’Iraq, fu il Surge del 2006-2008 del generale Petraeus (appoggiato da Bush e ostacolato dal senatore Obama) che affiancava alla pressione militare l’acquisizione del consenso delle tribù sunnite di Falluja e dell’Anbar. Poi arrivò Obama e ne distrusse le premesse. L’esito è sotto i nostri occhi, nelle nostre città, presidiate contro un nemico che troppi non vogliono nemmeno definire.

 

“Libero”, 11 settembre 2016