testo e foto di Valerio Raffaele

“Nel 1992 dopo il collasso dell’URSS, le zone di alienazione divennero due. Una in Ucraina, l’altra in Bielorussia”. Una volta superato il check-point facciamo conoscenza con Yuri, la guida che ci accompagnerà in questi due giorni. “Fortuna che il 70% del territorio è coperto da foreste. Assorbendo enormi dosi di radiazioni, gli alberi si sono comportati come vere e proprie spugne”.
Seminascosti tra la vegetazione si vedono i residui di fabbricati e casupole cadenti. Un bagliore di vita sembra spuntare da una scala a pioli appoggiata al muro esterno di un edificio, messa lì come se qualcuno fosse sul punto di salirci. Pochi istanti e l’incantesimo sfuma, sciolto bruscamente da uno striminzito paletto colorato apparentemente innocuo. Triangolare, come quelli che indicano i pericoli. Con lo sfondo giallo, tre alette laterali e un puntino rosso al centro, intima di stare alla larga dai suoli radioattivi. È solo uno dei tanti, infilzati ovunque nei prati che corrono lungo la strada, marchi indelebili del plutonio che da trent’anni banchetta liberamente nelle viscere di questo terreno malato.
Imbocchiamo un’anonima strada che si infila in una fitta boscaglia ricoperta dai residui dell’ultima nevicata. Una splendida farfalla gialla ci dà il benvenuto librandosi leggiadra a mezz’aria al nostro passaggio. La prima meta è una vecchia base militare sovietica, il classico nascondiglio in stile guerra fredda da dove si chernobyl oggi - link-primapunspiavano i nemici dell’Ovest. Un militare flemmatico spuntato da un gabbiotto in legno ci apre il cancello d’ingresso. Entriamo in quella che era la mensa, dove un pannello perfettamente leggibile con i menù del giorno è appoggiato al muro. Nella sala computer i resti delle postazioni informatiche giacciono scheletrici a terra, informi come in un ossario. In cima a una radura ricoperta da morbide dune, i mastodontici tralicci arrugginiti della stazione satellitare affondano il loro peso nelle flaccide membra di una sabbia talmente fine e trasparente da fare invidia a quella dei tropici.
Nell’addentrarci in quel panorama di macerie, la sensazione di iniziale disagio è per tutti tangibile. I nostri movimenti sono lenti e attenti, le teste cercano di schivare le gocce di umidità che piovono dai soffitti, si abbassano per evitare il contatto con le fronde degli alberi. I corpi sfiorano appena i parapetti arrugginiti. Ogni passo è cadenzato, gli stessi di quando da piccoli si varca per la prima volta la solenne porta di una chiesa. Poi la banalità di un gesto rompe in pochi attimi quel non so che di sacro che dominava fino a quel momento.
Il tipo pallido e magro di Washington DC “profana” la sala comandi tappezzata di manifesti di propaganda arpionando con uno scatto uno di quei malandati cimeli per farsi fotografare con aria marziale. Il peccato originale è compiuto, la guida se la ride e gli obiettivi entrano definitivamente in scena nel placare i più “macabri istinti” a colpi di narcisistici “clic”.
“Alla vostra destra vedete il sito dove si stavano costruendo il quinto e il sesto reattore. I lavori furono interrotti dopo l’esplosione del reattore numero quattro”. Li si vede svettare chiaramente oltre le acque cerulee di un canale artificiale, sovrastati dai sinistri pinnacoli delle gru che sorvegliano come gelide sentinelle un orribile mausoleo di cemento.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo il sito dove sorge la centrale nucleare. Ci aggiriamo in pullmino attorno all’area infilandoci nel reticolo di strade che si snodano attorno al complesso. Nei dintorni si vedono camion e qualche auto in movimento. Tre uomini camminano nei pressi di un cantiere. Incrociamo più volte i binari dei treni che, iluminati dal sole, narrano del loro abbandono con immagini di agghiacciante aridità che ricordano gli scenari cinematografici di Cassandra Crossing.
Una volta a terra un paio di cuccioli di cane ci raggiungono scodinzolando. Yuri ha con sé un sacchetto di plastica. Lo seguiamo fin sopra un breve ponte ferroviario. L’uomo estrae dal sacchetto dei pezzi di pane e li butta nello specchio d’acqua sottostante invitandoci a guardare sotto. È la “famosa attrazione” dei pesci gatto che si attorcigliano uno dietro l’altro attorno alle molliche bianche gettate dall’alto.


Nel grande piazzale di ingresso alla centrale un memoriale ricorda le vittime dei primi mesi post Chernobyl. “Per favore, niente foto laggiù”. Qualcuno ha diretto la macchina fotografica in direzione di una postazione militare e viene puntualmente richiamato dal buon Yuri che, nel frattempo, ha azionato il dosimetro per tenere sotto controllo il livello di radiazioni. Una volta risaliti sul minibus lo strumento inizia a balbettare. Quando arriviamo nel “punto panoramico” da dove è possibile vedere il famoso “sarcofago” che ha sigillato il reattore esploso – visibile alla “distanza di sicurezza” di 270 metri – i turisti si contagiano vicendevolmente in un’ossessionante bulimia da selfie. Quella sagoma grigia fa così da sfondo a strane quanto improbabili espressioni facciali. insieme a coloro che si trovano sulla vetta del “sarcofago” i quali, sigillati dentro a speciali tute protettive, sono al lavoro come formichine in cima a una montagna in ebollizione.
A pochi chilometri di distanza raggiungiamo la zona dove una foresta cambiò letteralmente colore in seguito all’esplosione. “I giornalisti le diedero il nome di foresta rossa; in realtà le chiome degli alberi si accesero di arancione. In seguito venne abbattuta per la sua pericolosità”. Lì vicino ecco “Pripjat’ 1970”, la grande scritta bianca in mezzo a un’aiuola di fiori resa celebre dagli scatti dei  fotografi di tutto il mondo.
Pochi minuti e ci troviamo di fronte a una sbarra. dove due militari controllano l’accesso alla città che fu definitivamente abbandonata nel giro di tre ore il 27 aprile 1986. Ci infiliamo in una delle strade, asfaltate come le altre con lastre grigie granulate di forma rettangolare. Ai lati delle vie i cartelli stradali svettano ancora al loro posto, seminascosti e superati in altezza dai rami degli alberi. I palazzi, ormai insidiati da vicino dai boschi, sembrano la spiaccicata replica delle squallide case popolari di Quarto Oggiaro. Con la differenza che a Pripjat’ il cemento è in agonia, condannato dalla natura a un calvario senza fine.
Entrare in questa città spettrale è come partecipare a un corteo funebre insinuandosi direttamente nelle viscere putrefatte di un gigantesco cadavere. Lo si scruta dalla cima ai piedi, dalle piaghe ancora aperte alle cicatrici più buie, con la stessa curiosità di quando al cimitero ci si alza in punta di piedi per guardare dentro la tomba dove sta per essere tumulata la bara del defunto. “E pensare che Pripjat’ era una città molto giovane e vivace, abitata dalle famiglie che lavoravano nella centrale”, commenta il nostro becchino-cerimoniere. “Si potevano fare minicrociere sul Dnipro fino a Kiev, il tenore di vita qui era più alto rispetto alle altre città sovietiche”.
Entriamo all’interno di quello che era il palazzo della cultura. Nel passare da un piano all’altro per poco non mi casca in testa un martello scaraventato giù dall’alto. Qualche pericolo nel visitare Chernobyl deriva, almeno nell’immediato, dalle voragini aperte nei pavimenti degli edifici e dalla foga eccessiva di qualche improvvido e un po’ scellerato compagno di viaggio. Nella palestra l’unico elemento in grado di resistere all’incedere del tempo è un’orgogliosa quanto esile fune che pende dal soffitto in frantumi. Girando per Pripjat’ ci si abitua presto a dare anima agli oggetti. Molti sono già ritornati polvere, disintegrati dall’inclemente evolvere del tempo; altri resistono stoicamente, come ninfee in perenne lotta con le sabbie mobili di una palude avvelenata.
La parte più “nota” di Pripjat’ è quella dove si trova la grande ruota panoramica. Presi da un rigurgito di infantile cinismo, alcuni del gruppo saltano senza timore sulle seggiole gialle della ruota e negli abitacoli malconci degli autoscontri per farsi immortalare in inquietanti sorrisi dark. Anche il muschio, cresciuto un po’ ovunque a strati e noto serbatoio di radiazioni, sembra non fare più paura. “L’ingresso è vietato, ma controllare tutto il perimetro della città è impossibile”, dice il nostro accompagnatore mentre ci addentriamo tra le rovine dello stadio. “Vedete le bottiglie di birra in giro? I giovani vengono qui la sera a ubriacarsi. Ogni tanto capita anche a noi di vedere aggirarsi qualcuno tra i piani delle case abbandonate. Se vengono presi dalle guardie sono redarguiti, solo che poi ritornano ancora”.
Una calamita di misteri, Chernobyl. Al calar della sera, nell’abbandonare la città fantasma, l’autista attacca con un video della Pripjat’ che fu: un’imbarcazione che ormeggia nel porto, gente a passeggio con il sorriso sulle labbra, i cortei di partito, i bambini che nuotano nella piscina. La stessa che abbiamo visitato prima di andarcene, un profondo buco nero dominato in alto dal podio inquietante di uno spoglio trampolino senza più tuffatori né vincitori.
Superato indenni il controllo radiazioni, al tramonto raggiungiamo l’hotel. Un gatto rosso sorveglia sonnacchioso l’ingresso. Le porte e le finestre del pianoterra sono tutte sbarrate all’esterno con barriere metalliche. Uscire la sera per una passeggiata è vietato. Scattata l’ora del coprifuoco Chernobyl è forse l’unica città del mondo dove dalla camera di un albergo non si ode motore d’automobile. Le flebili luci gialle di una decina di case sono gli unici sordi respiri, timidi sussurri di stelle che palpitano nella galassia buia e silenziosa di un universo postnucleare.

La città morta

“Le condizioni di radioattività nell’aria non sono buone a causa dell’incidente avvenuto nella centrale nucleare di Chernobyl. Per salvaguardare la salute delle persone e per motivi di sicurezza siamo costretti a evacuare la città per tre giorni. Si raccomanda di portare lo stretto indispensabile e qualcosa da mangiare”. Una rapida visita al monumento in memoria dei pompieri e dei liquidatori, e ad alcuni mezzi militari esposti a Chernobyl non lontano dall’albergo, ed eccoci al secondo giorno diretti di nuovo verso la città fantasma.
L’annuncio della sua imminente evacuazione fu dato alla popolazione alle 13,10 del 27 aprile sotto forma di un ermetico e stringato comunicato stampa emesso dalle ultime note di “Radio Pripjat”. Alle 14 gli autobus iniziarono a sfilare uno dietro l’altro portandosi via 33.000 adulti e 17.000 tra ragazzi e bambini sotto lo sguardo di 2500 poliziotti. Alle cinque pomeridiane tutto era compiuto. In uno dei filmati più noti dell’ultimo giorno a Pripjat’ si vedono, tra le altre cose, la celebrazione di un matrimonio e una bambola appoggiata al davanzale della finestra, lasciata lì per accontentare forse l’ultimo desiderio di una bimba senza nome. L’autore della pellicola, Mikailo Nazarenko, morirà nel 1993 in seguito alla causa più comune di morte per chi si espone lungamente ad alti livelli di radiazione: attacco di cuore.
“Andiamo a vedere Pripjat’ dall’alto. Sappiate che è illegale, per cui non ditelo troppo in giro…”. Entriamo all’interno di una delle disastrate palazzine residenziali. Uno del gruppo, un italiano di Roma che vive in Germania, placa lo scetticismo suscitatomi dalle parole della guida spiegando che le autorità ucraine hanno in effetti vietato l’ingresso nelle abitazioni da quando un gruppo di turisti si è ferito gravemente per il crollo improvviso di un soffitto. Saliamo, una rampa dietro l’altra, la ventina di piani dell’interno girando attorno alla tromba dell’ascensore.
Sulla sommità piatta dell’edificio una sdraio bianca è assurdamente sistemata in direzione del sole. Nessun cinguettio di uccelli nell’aria. L’unico suono, oltre ai nostri respiri in affanno a causa della salita, è il sibilare del vento. I suoi ululati muovono le finestre e i ferri ciondolanti degli altri palazzi che ci guardano dal basso. chernobyl oggi - link-primapunIl paesaggio, muto e immobile, riflette perfettamente le linee stantie della centrale nucleare la cui sagoma sinistra, distante solo tre chilometri, sembra la classica cattedrale nel deserto circondata da lingue d’acqua e praterie. Uno scenario da archeologia industriale, rotto solamente da quello che sembra essere un palazzetto dello sport, ma che in realtà è il nuovissimo e luccicante “sarcofago” d’acciaio pronto a ricoprire entro l’anno le numerose crepe di quello vecchio. Quanto a Pripjat’, nulla resta delle “mitiche” prospettive, gli ampi vialoni rettilinei che scandiscono l’urbanistica di tutte le città ex sovietiche, ingoiate dall’incedere lento della natura.
La camera da letto appena risistemata, il salotto con la televisione e il vaso di fiori finti sul mobile, la cucina con le stoviglie e i cibi resi intoccabili come tutto il resto per l’eternità… Le ingannevoli suggestioni di prima della partenza mi facevano pensare che a Pripjat’ tutto fosse davvero fermo a quel maledetto 27 aprile. Invece poco o nulla è rimasto, per lo più portato via dagli stessi proprietari in fugaci sortite avvenute ben dopo l’evacuazione. Anche le porte, come racconta ancora Svetlana Aleksievic con la voce di uno dei suoi testimoni: “Ho vegliato tutta la notte mio padre disteso sul quel catafalco… E la casa è rimasta aperta… Tutta la notte. Sulla porta ci sono delle tacche fin quasi al bordo superiore… Di quanto crescevo… E c’è anche indicato: classe prima, seconda. Settima. Inizio del servizio militare. E accanto, la crescita di mio figlio… Di mia figlia… Su questa porta è registrata tutta la nostra vita. Come potevo lasciarla?”.
Le mani degli sciacalli hanno poi fatto il resto, dando vita al contrabbando di pezzi post-atomici più prolifico della storia. Solo le pareti sembrano rimaste ferme nel tempo, rivestite come sono di una carta da parati in stile demodé. Per il resto un vecchio fornello, i rubinetti e i frammenti dei sanitari sparsi ovunque, un divano piantato sul pianerottolo davanti agli ascensori, tappeti di libri sui pavimenti, le cassette della posta arrugginite al piano terra, i numeri storpiati degli appartamenti appiccicati alle porte. Fa strano sentire queste ultime che sbattono tra un piano e l’altro, consumate dal tempo. Lo stesso destino delle macerie, spezzate dallo stridulo calpestio dei passi di coloro che maldestramente si muovono tra le budella incancrenite di locali che un tempo ospitavano intere famiglie.
Andare all’interno del “Pripjat’ Cafè” è un’altra tappa off limits. Le macchinette del caffè al loro posto, i vetri della sala da tè decorati con figure del realismo sovietico, la balconata panoramica sul fiume. L’ospedale poi è un miscuglio disordinato di letti e culle sgangherate, di cartelle cliniche sparse dappertutto e di bottigliette in vetro piene di liquidi poco invitanti. In quella che doveva essere una sala d’aspetto facciamo la “prova” radioattività. Quando la guida avvicina il dosimetro a un lurido straccio abbandonato su un mobile, il livello di radiazioni vola a 1692 rontgen per ora. Basta allontanarlo un poco e l’apparecchio smette di suonare. La stessa cosa avviene all’esterno tra la vegetazione e i materassi di foglie che ricoprono il terreno. “Si concentra in alcune zone piuttosto che in altre, a macchia di leopardo. In alcuni punti si azzera, in altri raggiunge picchi elevatissimi.  E nessuno è in grado di spiegarne i motivi”, afferma Yuri nel mostrarci i numeri raggiunti dal piccolo dispositivo giallo.
Un carrello della spesa, sistemato ad arte all’ingresso degli spazi che ospitavano il supermercato, sembra talmente nuovo da far venire il dubbio che sia stato portato apposta da fuori. Sono state però le scuole e gli asili i luoghi prediletti per creare una sorta di “scenografia dell’orrido”. I giochi di luci e ombre favoriti dai riflessi dei vetri rotti delle finestre hanno scatenato la fantasia dei fotografi che negli ultimi anni si sono spinti fin qui: il pupazzo di peluche adagiato al davanzale, il libro di letteratura aperto sulla cattedra e le bambole appoggiate alle pareti, sono i personaggi di una realtà ricostruita ad hoc, in una sorta di teatro delle macerie. Come nell’asilo di Kopaci, l’ultimo pezzo rimasto di un villaggio dato alle fiamme perché divenuto come tanti altri un concentrato di radiazioni. Nascosto nel bosco, appena dietro un monumento ai caduti della seconda guerra mondiale che dà direttamente sulla strada, l’asilo è circondato da veri e propri hotspots dove la radioattività vola alle stelle.
Nel camminare lungo i binari attorno al reattore esploso, nella zona visitata anche il giorno prima, si ha la netta sensazione di sentirsi parte attiva dello strano teatro a cui stiamo assistendo. Specialmente quando ci troviamo radunati, da buone comparse, per vedere l’ennesima misurazione dei radionuclidi annidati questa volta nel teschio liscio di un caprone. Nel suo itinerario la visita sembra appositamente studiata per suscitare un climax crescente di emozioni. Torniamo ben presto a fare i conti con la realtà poco dopo quando, come da copione, il nostro regista ci invita caldamente a non andare troppo sotto alla torre di raffreddamento, dove il rischio di contaminare le scarpe cresce a dismisura.
Poco distante risaliamo la cima di una collina. In basso, nel bacino d’acqua creato artificialmente per alimentare il sistema di raffreddamento della centrale, il nostro sguardo è sorpreso da una famiglia di cigni che ha trovato un’oasi di tranquillità tra i resti decrepiti di attrezzature portuali. Se sotto, a 30 metri di profondità, i sedimenti sono covi di veleni, è confortante vedere in superficie il ritorno di animali che si riappropriano del loro habitat.
I ruderi di una fabbrica elettromeccanica, un centro di sperimentazione agricola e un villaggio immerso nel verde, dove i figli dei membri del partito passavano le vacanze estive, sono le ultime mete del tour chernobyliano. “Per voi, un’ultima passeggiata radioattiva!”, ci dice Yuri con fare scherzoso mentre camminiamo tra le casette, decorate all’esterno con ridenti figure dei cartoni animati.
“Accompagni i turisti anche a Kiev?”, gli chiedo quando siamo seduti allo stesso tavolo della mensa di Chernobyl, di fronte a un bel brodo fumante e a discrete cotolette di pollo con patate. “No, io mi occupo solo di accompagnare i turisti nella zona di alienazione. E ti assicuro che di lavoro ce n’è molto”. Per ovvi motivi climatici i periodi prediletti per le visite sono la primavera e l’estate. Nella metà dei casi si tratta di giornalisti provenienti da tutto il mondo e di fotografi che in genere si fermano almeno cinque giorni. Le guide specializzate nell’accompagnare i visitatori a Chernobyl sono 35. Piuttosto che preoccupato per la propria salute a causa di questa insana forma di pendolarismo, Yuri è stressato dalla burocrazia che richiede una serie interminabile di permessi cartacei da preparare e da tradurre.
Prima di fare ritorno a Kiev c’è spazio anche per l’acquisto di qualche souvenir. Il pezzo più gettonato? L’immancabile maglietta ricordo. Con tanto di iconografia radioattiva stampata sopra.

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