Chi siamo

 

Un po’ di storia

 

La rivista “Etnie” viene fondata nel 1980 da Guido Aghina e Roberto C. Sonaglia, come strumento giornalistico al servizio delle minoranze etnolinguistiche e dei movimenti che ne chiedono la tutela o l’autodeterminazione. Il primo sottotitolo della testata, mensile di lotta dei popoli minoritari, si trasforma ben presto in scienza, politica e cultura dei popoli minoritari, a indicare una maggiore attenzione per gli aspetti antropologici e culturali dell’etnismo.
Diretta da Sonaglia fino al 1985 e poi da Miro Merelli, senza cambiamenti di linea editoriale e filosofia, la rivista cartacea interrompe la pubblicazioni nel 1991. Rifondata nel 2003, la testata ha ripreso la piena attività in versione online dal 2013.

Cosa c’è di nuovo

L’attuale sottotitolo, scienza, geopolitica e cultura dei popoli, indica una piccola correzione di rotta riassumibile in due punti.

1) Abbiamo aggiunto “geopolitica”, intesa come rapporti tra gli stati e politica internazionale, non perché sia una materia particolarmente attinente all’etnismo, ma perché proprio l’antropologia etnica – con la sua capacità di analizzare la psicologia dei popoli e prevederne i comportamenti – può essere uno strumento di comprensione delle realtà umane.
Un paio di esempi: mentre lo storico, l’economista, il politologo, il sociologo, si affannavano a stabilire se e perché l’Unione Sovietica si sarebbe dissolta, l’etnista intuiva che ciò sarebbe accaduto perché si trattava di un impero multietnico, e – Primo Principio dell’Etnismo – le coabitazioni forzate non funzionano mai! E mentre gli esperti di geopolitica, quelli che considerano uomini e popoli semplici equazioni numeriche, sgomitano per avere la Turchia nella UE, l’etnista sa che l’esperimento finirà malissimo essendo, le popolazioni turciche nel complesso, asiatiche (estese persino oltre i confini della Cina) e islamiche.

2) Il termine “popoli minoritari”, cioè minoranze etniche, ci sta parecchio stretto, a dire il vero fin dai primi numeri della rivista. In seguito a un certo interesse pubblicistico negli anni ’60 e 70’ nei confronti delle comunità alloglotte – inizialmente individuate nei “francesi” (Valle d’Aosta), nei “tedeschi” (Sudtirolo) e negli “slavi” (sloveni del Friuli-Venezia Giulia), poi estese caoticamente a friulani, sardi, provenzali, ladini, fino a raggiungere minuscole isolette germaniche, slave, albanesi o catalane – si stava correndo il rischio di riaffermare la sostanziale monoliticità mussoliniana della stirpe italica; questo mentre nella vita di tutti i giorni si celebrava il dramma della difficile convivenza tra nord e sud, e la distruzione – politica, scolastica e mediatica – di ogni forma etnoculturale al di sopra della Linea LaSpezia-Senigallia.
Con orgoglio, “Etnie” può rivendicare un apporto sostanziale nel passaggio dalla mentalità da “Italia monolitica con una dozzina di minoranze” a “Italia come Stato plurietnico, cioè formato da più popoli a pieno titolo”. Questa visione è poi stata adottata dagli studiosi internazionali con il superamento della contrapposizione lingua/dialetto, e dall’Unione Europea con un elenco di idiomi minacciati che, in Italia, comprendono anche tutte le parlate padane e il siciliano.

Tra ieri e oggi

Fare etnismo oggi è diverso rispetto a due o tre decenni fa? In parte, sì. Tra i cambiamenti dagli anni ’80-90, è particolarmente evidente l’evoluzione del tentativo di distruzione delle culture locali mediante maree migratorie, dal sistema “interno” a quello “esterno”: accanto al trasferimento di etnie da una zona all’altra di uno Stato è ora in piena attività l’importazione di popolazioni straniere, mentre resta immutato l’abuso delle accuse di razzismo e xenofobia – quando non di procedimenti giudiziari – per reprimere le opinioni contrarie o i tentativi di analizzare chi stia manovrando questi fenomeni e a quali fini.
Ne risultano probabili problemi di comprensione per i più giovani che leggano articoli “d’epoca”, viste le trasformazioni di alcuni termini. Per esempio, oggi “etnico” è diventato press’a poco sinonimo di “esotico” o addirittura di “africano”; e “multietnico” non si riferisce a uno Stato composto dalla somma di vari popoli storici e stanziali (come la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna), ma all’aspirazione di trasformare i Paesi europei a somiglianza di entità recenti d’oltreoceano costruite sull’immigrazione (come gli Usa, il Brasile, l’Australia).

D’altra parte è cambiato lo stesso concetto di europeismo. Quello che per “noi” negli anni ’80 era l’anelito a un’Europa dei Popoli, dove gli stati nazionali avrebbero perso man mano potere e significato a favore delle etnie e delle regionalità, si è involuto in un’Europa dei Commercialisti e ora, sempre più, in un’Europa dei Noneuropei.

Un altro deciso cambiamento – che va segnalato per memoria storica, ma non ha poi molta importanza – è quello politico-ideologico. Già il concetto di destra e sinistra è per molti abbastanza irritante, ma applicato all’etnismo e all’autonomismo fa decisamente ridere. L’etnismo, inteso come studio e difesa delle comunità umane, non c’entra nulla con queste terminologie calcistiche (anzi, è visto come il fumo negli occhi da qualsiasi partito “statale”), e l’autonomismo dovrebbe unicamente tendere all’autodeterminazione di una comunità… che poi voterà come le pare.
Resta però il fatto che destre e sinistre si sono impercettibilmente date il cambio nella difesa dei sacri confini della Patria: mentre negli anni ’80 a combatterci erano in prima fila le fiamme tricolori, oggi i più accesi centralisti stanno di preferenza dall’altra parte. Ma sono inezie: qualsiasi politico che aspiri al potere (così come qualsiasi cantante che voglia vendere dischi o giornalista che voglia mantenersi il posto) deve inneggiare all’italianità e insultare il “particolarismo”.

Autonomismo, da sinonimo di cultura a nomea d’ignoranza?

Un fenomeno ben più imponente è rappresentato dalla trasformazione dei movimenti autonomisti da centri di difesa etnica a comunissimi partiti senza alcun patrimonio culturale. In particolare, la metamorfosi della Lega Nord, iniziata già negli anni ’90, ha portato alla snaturalizzazione del termine “padano”, divenuto assurdamente sinonimo di leghista.
Consultando i nostri archivi, qualsiasi lettore noterà che gli studiosi e i collaboratori di “Etnie” utilizzavano (e utilizzano tuttora) il concetto di Padania per indicare le popolazioni presenti nelle attuali Regioni Piemonte, Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna (considerando il Veneto una “nazione” a parte). Questa definizione è apparsa sulle nostre pagine ben prima che se ne appropriasse Bossi, e per la verità campeggiava a mo’ di slogan sui muri piemontesi e lombardi già negli anni ’70. Oggi, grazie al disastro culturale provocato dai sedicenti autonomisti, qualunque analfabeta può scrivere sui forum “l’inesistente Padania”; senza sapere che questo territorio – magari indicato con sinonimi come Gallia Cisalpina, Médiolanie, eccetera – viene studiato nelle facoltà di lingue romanze di tutto il mondo.

E insomma, se negli anni ’80-90 erano gli esperti di “Etnie” a tenere conferenze, organizzare concerti e manifestazioni culturali, frequentare radio e tv per spiegare una materia affascinante a un pubblico affascinato, oggigiorno chi parla di autodeterminazione viene dato per ignorante. Quando, in natura, i veri ignoranti sono sempre stati proprio i centralisti, da quelli che insegnano nelle nostre università (fingendo che il piemontese o il veneto siano dialetti dell’italiano, cioè del toscano! o riproponendo fesserie storiche sul Risorgimento), al giornalista medio che ci racconta, irridente, come il toponimo sul cartello comunale sia stato tradotto in dialetto… quando, non un vero approfondimento, ma un elementare ragionamento logico gli suggerirebbe che è l’esatto contrario, che il nome originale è il secondo. Qualsiasi Paese normale sarebbe fiero di questo immenso patrimonio etnolinguistico alternativo, presente soprattutto in Sardegna e a nord della Linea LaSpezia-Senigallia, mentre l’intellighenzia italica ci fa su un paio di risate, blatera di cultura e seppellisce il tutto sotto una marea di centri commerciali.

 

luglio 2013