La parola “rifugiato” è un termine giuridico, definito da molti trattati internazionali. Trattati che hanno portato alla creazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e costituiscono la base dell’esistenza di questa agenzia dell’ONU. Tuttavia, il contenuto di tali trattati è in disaccordo con quanto fatto dall’UNHCR, che ha cercato ampiamente di raggirare l’opinione pubblica europea sullo stato predominante del grande flusso migratorio che dal 2015 si è riversato sul Vecchio Continente.
Nessuno di questi accordi – la Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951, il Protocollo del 1967 relativo allo status di rifugiato o il Regolamento di Dublino dell’Unione Europea – garantisce il diritto allo status di profugo a coloro che attraversano più Paesi sicuri e varcano illegalmente più frontiere per accomodarsi nel welfare migliore. Anche un legittimo profugo siriano che ora vive, per esempio, in Turchia o in Libano, perde il proprio status di rifugiato se paga un trafficante di essere umani per arrivare in Europa. Secondo il diritto internazionale, quell’individuo diventerà un “richiedente asilo”. Solo quando la sua richiesta di asilo sarà vagliata e giudicata idonea da un organismo interno preposto, sarà di nuovo considerato un “rifugiato”.
Finora, i media di tutto il mondo hanno accolto con cieca fiducia le false asserzioni dell’UNHCR. Quanti hanno espresso la loro preoccupazione per il flusso incontrollato e senza limiti di musulmani in Europa – preoccupazioni fortemente convalidate dalle atrocità jihadiste commesse a Parigi il 13 novembre scorso – sono stati per lo più accusati di crudeltà verso i presunti rifugiati.

Il costo dei rifugiati “trasformato” in ricchezza

La stampa, però, non è per niente la sola a sostenere che accogliere il flusso di migranti musulmani illegali sia un obbligo morale. Vengono anche tirate sistematicamente in ballo le argomentazioni economiche per legittimare gli ingenti flussi migratori del 2015-16, tenuto conto dell’invecchiamento della popolazione in tutte le nazioni europee. Esultante per i risultati del Global Monitoring Report pubblicato il mese scorso dalla Banca Mondiale, dal titolo Development Goals in an Era of Demographic Change (obiettivi di sviluppo in un’èra di cambiamenti demografici), il presidente della BM, Jim Yong Kim, ha annunciato fiducioso che:

Con le giuste politiche, questa èra di cambiamenti demografici può essere un motore di crescita economica. Se i Paesi alle prese con l’invecchiamento della popolazione trovano i modi per far partecipare i migranti e i rifugiati alla loro economia, ci saranno benefici per tutti.

Pur avendo una struttura di governance diversa da quella delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale fa tuttavia parte del sistema ONU. I termini “obiettivi di sviluppo” presenti nel titolo del report della Banca Mondiale lo dicono. Essi si riferiscono al Millennium Development Goals, un programma globale elaborato sotto la guida dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, per trasformare l’Organizzazione delle Nazioni Unite da organismo con l’obiettivo principale di limitare la guerra internazionale a motore di “giustizia sociale” globale.
Se i media, le ONG, gli attivisti motivati dal punto di vista etico e le celebrità hanno seguito tutti l’esempio dell’UNHCR, anche molte grandi istituzioni finanziarie hanno imitato quanto asserito  alla Banca Mondiale, ossia che il flusso migratorio in Europa dovrebbe essere accolto con favore. Ad esempio, un colosso bancario mondiale come l’HSBC ha previsto grossi vantaggi fiscali per i paesi dell’Unione Europea, dopo un “periodo di adeguamento”. In una nota diffusa dall’istituto bancario l’8 ottobre e redatta da un team di economisti guidati da Fabio Balboni, si legge che:

Da un punto di vista economico, l’Europa ha bisogno di più lavoratori. È ben noto che la maggior parte dell’Europa sta rapidamente invecchiando. Ciò si traduce in un rallentamento della crescita e di entrate fiscali, e in un aumento della spesa pubblica attraverso le pensioni e l’assistenza sanitaria. L’Eurozona, in particolare, è in procinto di imbarcarsi in questa sfida demografica con una montagna di debiti. Il modo più semplice per supportare più pensionati è quello di avere più contribuenti.

Il gruppo di ricerca macroeconomica europea dell’HSBC è andato oltre nell’analizzare le cifre:

Su una popolazione in età lavorativa di 220 milioni di persone, stimiamo che oltre un milione di immigrati all’anno potrebbero rilanciare la crescita dell’Eurozona dello 0,2 per cento l’anno, e il Pil entro il 2015 potrebbe essere superiore di 300 miliardi di euro rispetto a quanto sarebbe stato altrimenti. Se ci vuole tempo per integrare gli immigrati nel mercato del lavoro, anche a breve termine, un aumento della spesa pubblica necessario per affrontare la crisi potrebbe sostenere la crescita.

Il guaio, però, è che queste previsioni vanno in controtendenza rispetto a tutti i dati disponibili. Anche in un Paese con una popolazione islamica radicata come la Gran Bretagna, la disoccupazione musulmana raggiunge il 50 per cento per gli uomini e il 75 per cento per le donne. Inoltre, nel Regno Unito i musulmani rappresentano il gruppo demografico con i tassi di natalità più alti. Insieme ai loro livelli di disoccupazione questi salvatori immaginari di un modello di welfare europeo moribondo sono, come gruppo, i destinatari delle entrate dello Stato, anziché contribuenti di esso.
Più che di introiti si dovrebbe parlare di enorme costo dei rifugiati. Le successive generazioni di musulmani in tutta Europa, come Christopher Caldwell osservava nel 2009, non stanno normalizzando i tassi di natalità delle loro popolazioni ospiti, come fecero i precedenti gruppi di immigrati. Questa tendenza potrebbe essere certamente utile per aumentare la crescita della popolazione europea, ma mette anche in evidenza uno schema allarmante.
Come di recente ha detto la baronessa Caroline Cox, “chiudere gli occhi” dinanzi alla poligamia in Gran Bretagna – e anche in Francia, Belgio e Germania – ha fatto sì che alcuni uomini  musulmani abbiano 20 figli da diverse mogli, quasi sempre a carico dello Stato. Questo induce a pensare che le famiglie che nutrono idee fondamentaliste sono più prolifiche di quelle dei loro correligionari moderati. E anche se il flusso demografico che sta travolgendo l’Europa fosse stato costituito interamente di veri richiedenti asilo siriani, che hanno tassi di natalità alquanto inferiori rispetto a quelli dei musulmani dell’Asia del Sud o dell’Africa, le prospettive economiche non sarebbero state migliori.
Un recente studio condotto in Danimarca ha rilevato che di tutti i gruppi di migranti arrivati nel paese, i siriani avevano i livelli più bassi di occupazione (il 22,8 per cento). Un altro studio danese ha mostrato che di quei migranti musulmani giunti in Danimarca pretendendo di essere profughi, appena uno su quattro è riuscito a trovare lavoro dopo dieci anni.
Nonostante quattro milioni di persone siano state costrette ad abbandonare la Siria a causa della guerra, e nonostante la pronta disponibilità di documenti d’identità siriani contraffatti, si stima che i siriani costituiscano soltanto il 20 per cento degli arrivi complessivi in Europa (in aumento). Il gran numero di non siriani che sono entrati da clandestini e vivono a spese dei contribuenti europei, ha indotto un eurodeputato britannico a condannare le quote di ripartizione dei migranti stabilite dall’Unione Europea. Finora, il piano quote è l’unica soluzione proposta per risolvere il problema. Si tratta, però, di una misura che “subappalta” la politica di immigrazione del continente ai trafficanti di esseri umani.

choudari
Anjem Choudary, leader islamista in UK, ha esortato i suoi correligionari a lasciare il proprio lavoro e a richiedere sussidi di disoccupazione così da avere il tempo per dedicarsi alla guerra santa. “Noi incassiamo i soldi della jizya, che è nostra in ogni caso. La situazione normale è prendere soldi dai uffar [i non musulmani]. Essi ci danno i soldi. Loro lavorano e ci danno i soldi, Allahu Akbar. Noi prendiamo il denaro”.

Sostituzione demografica uguale genocidio

Una spiegazione di questo cambiamento radicale nella politica in materia di frontiere, ora applicata dalle istituzioni dell’UE, potrebbe risiedere in una dettagliata proposta pubblicata nel 2000 dalle Nazioni Unite. Essa auspicava la “sostituzione” della popolazione europea con i migranti musulmani proveniente dal Terzo Mondo. Da allora, coloro che hanno ammonito sulle inevitabili  conseguenze sociali, culturali e di sicurezza della trasformazione demografica dell’Europa come delineata dalle Nazioni Unite – per esempio la scrittrice di origine egiziana Gisèle Littman, lo scrittore francese Renaud Camus e il saggista norvegese Peder Jensen – sono stati ampiamente tacciati di essere dei visionari farneticanti e bigotti.
A parte tale diatriba – e volendo tacere sul fatto che le politiche di ripopolamento non volontario sembrano violare pericolosamente l’art. 2, clausola C, della stessa Convenzione ONU del 1948 per la prevenzione e la repressione del genocidio – alla base di questa visione c’è una premessa economica sottintesa, vale a dire che l’importazione in massa del mondo musulmano in Europa sia reciprocamente vantaggiosa.
Il principio sembra essere questo: l’assistenza sociale di un Paese può essere mantenuta solo aumentando continuamente le dimensioni della sua popolazione… una pretesa economica dalle conseguenze pesantissime per l’Europa, come ampiamente dimostrato negli ultimi mesi. Il problema maggiore sembra essere che le ONU e UE, queste burocrazie transnazionali gemelle dalla legittimità democratica assai limitata, hanno molte più cose in comune l’una con l’altra, quanto a visioni e soluzioni, che con la volontà delle popolazioni che devono fare i conti con i loro risultati.
E proprio i risultati del 2015 indicano come le facoltà critiche dei leader dell’Unione Europea siano state accecate dal multiculturalismo. È una verità che li manda in bestia, vista la frequenza e l’asprezza con cui si scagliano contro chi critichi loro e l’islam – vedi il leader del Partito olandese per la libertà, Geert Wilders – tacciandoli di concezione manichea e prive di sfumature nei confronti della fede musulmana.
È chi utilizza la logica economica per attuare la trasformazione demografica dell’Europa a non riconoscere le complessità dell’islam, a ignorare la rinascita fondamentalista che è in corso da oltre un secolo. Una caratteristica della crescente tendenza musulmana a interpretare alla lettera l’islam è la convinzione – convalidata dalle sacre scritture – che i suoi adepti hanno diritto a beneficiare della produttività degli infedeli senza alzare un dito. Per decenni, l’immigrazione di massa dei musulmani in Europa è stata definita un “arricchimento”. Gridare all’“islamofobia” non serve a nascondere quanto sia impossibile pensare che un qualsivoglia Paese europeo ne risulti minimamente arricchito.
È un’illusione credere che con il passare del tempo i princìpi religiosi dell’islam si ammorbidiranno o scompariranno per il solo fatto di essere in Europa, tanto meno presso le comunità in cui gli immigrati sono più numerosi degli europei autoctoni.
Non è forse una triste ironia che la crescita della popolazione europea, responsabile dell’emancipazione femminile, ora dipenda interamente dall’importazione di una cultura in cui le donne non  hanno alcun valore? Il paradosso poi è che la stragrande maggioranza dei nuovi arrivi “a scopo di ripopolamento” siano giovani maschi, spesso apertamente aggressivi. Vista tale disparità tra donne e uomini, come ci si può aspettare che questi musulmani procreino?
Quanto alle donne europee – visti non solo gli episodi più clamorosi, ma anche la miriade di quelli volutamente ignorati dai media – hanno ottimi motivi per essere allarmate dal futuro che i leader del continente hanno scelto per loro.