I benandanti, i “nati con la camicia amniotica”, furono oggetto di numerosi processi nel Friuli del XVI e XVII secolo: da taluni considerati stregoni appartenenti al demonio, da altri i provvidi difensori della fertilità dei campi in lotta contro il “maligno”. Anche in questa vicenda,  l’opera dell’Inquisizione non mancò di lasciare il suo segno.

All’interno della famiglia tradizionale friulana la gestante era collocata in una posizione particolare che, se paradossalmente non la esimeva dalle normali e faticose occupazioni quotidiane, la inseriva, comunque, in una situazione di margine1, atta a sottolineare anche socialmente l’estrema vulnerabilità sua e del nascituro, e a “tutelare” la normale prosecuzione della gravidanza contro eventuali e temuti influssi di potenze “negative”. Così numerosi tabù, che si esplicavano in un preciso e ampio rituale di protezione, circondavano la donna in atri stât 2, che doveva, pertanto, cercare di tener nascosta il più possibile la propria condizione di futura madre, e tacere sia il tempo presunto del parto sia il nome da imporre al nascituro. Inoltre, come diverse fonti testimoniano3, durante le “nove lune” la gestante doveva attenersi scrupolosamente a regole comportamentali di evidente origine superstiziosa: non le era consentito, infatti, partecipare alle veglie funebri, guardare “brutte immagini”, accavallare le gambe, uscire dopo il suono dell’Avemaria, ascoltare discorsi “tristi”, parlare di streghe, fare giuramenti, saltare muri o siepi, e non doveva assolutamente portare collane nè catenine, per evitare che il bimbo fosse incordonât, cioè soffocato dal cordone ombelicale. A questo proposito merita particolare attenzione una norma cautelativa ricordata da Valentino Ostermann4, secondo cui la gestante nel lavorare a maglia doveva fare attenzione che il filo non le si attorcigliasse al collo, altrimenti il bambino sarebbe nato con la camicia, avvolto nella membrana amniotica, e, per questo, destinato a diventare “stregone”. Ma si riteneva pure comunemente anche in Friuli che il “nascere vestiti” fosse segno di straordinaria fortuna5: in ogni caso, queste due credenze, visibilmente contrastanti, trovano un denominatore comune nell’attribuzione all’amnio di virtù particolari. Carlo Ginzburg, infatti, nel saggio “I benandanti”, in cui analizza minuziosamente gli atti processuali riguardanti alcuni contadini friulani accusati di stregoneria, sottolinea, ad esempio, che tradizionalmente l’amnio era reputato un potente talismano per rendere invulnerabili i soldati e allontanare i nemici, e aiutava persino gli avvocati a vincere le cause: per intensificare, poi, i poteri magici insiti nella membrana era uso porla sotto la tovaglia dell’altare, e far celebrare su questa un numero variabile di messe6. La contraddizione emergente rispetto alla sorte riservata a chi “nasceva con la camicia” si ripropone, del resto, anche riguardo alla figura dello stregone sopra ricordata: così l’Ostermann riporta l’opinione più diffusa, secondo cui il “nato con la camicia”, definito benandànt o belandànt, apparteneva al demonio, era stregato ancor prima di nascere e doveva intervenire alla tregenda7; il Ginzburg, invece, ricostruisce una figura del benandante che si propone nel Friuli del XVI secolo come portatore di un culto agrario di fertilità, a difesa dei raccolti contro l’influsso negativo di streghe e stregoni. Il 27 giugno 1580, infatti, Battista Moduco, detto Gamba Secura, di Cividale, viene interrogato da fra’ Felice da Montefalco, e dichiara: “… io sonno benandante perché vo con li altri a combattere quattro volte l’anno, cioè le quattro tempora, di notte… et noi andiamo in favor di Christo et li strigoni del diavolo, combattendo l’un con l’altro, noi con le mazze di finocchio et loro con le canne di sorgo… Et se noi restiamo vincitori, quello anno è abondanza, et perdendo è carestia in quel anno…”. Sostiene inoltre, a più riprese, che di questa “compagnia” fanno parte tutti quelli che “… sonno nati vestiti”, ed essi combattono “… per la fede de Christo…”8.

Simili affermazioni ritornano in altri atti processuali esaminati dal Ginzburg, a riprova della sopravvivenza nel Friuli del ’500 di un rito agrario di fertilità, che, se non è ben inquadrabile nelle origini e nelle modalità, è comunque chiaro negli scopi: i benandanti si propongono come figure “positive”, e dichiarano di sostenere contro “li strigoni del diavolo” veri e propri combattimenti, da cui dipende la sopravvivenza materiale della comunità. Anche il periodo stesso in cui hanno luogo, secondo le testimonianze degli inquisiti, queste contese rituali depone a favore dell’esistenza nella coscienza collettiva di un antico rituale, volto ad assicurare la fertilità dei campi: i benandanti, infatti, affermano di “uscire”, verosimilmente in un processo di sdoppiamento onirico-allucinatorio, a combattere durante la quattro Tempora, cioè in una ricorrenza del calendario liturgico cattolico, mutuata dal tradizionale calendario agrario, che scandiva i delicati tempi della semina, del raccolto, della mietitura e della vendemmia. Questa funzione propiziatoria non è, comunque, esclusiva dei benandanti: i loro riti, infatti, si affiancano alle Rogazioni, processioni di chiara matrice pagana, poi completamente cristianizzate e inserite nel rituale, compiute attorno ai campi, solitamente nei tre giorni precedenti l’Ascensione, per “… tenere lontani i flagelli che tanto spesso colpiscono i prodotti agricoli… invocare la protezione divina…”, e trarre auspici sui raccolti stessi9. E un certo legame tra i due riti è stabilito dal benandante Paolo Gasparutto, che, nell’interrogatorio del 28 giugno 1580, sostiene che l’arma usata dai suoi compagni nelle battaglie in difesa della fertilità dei campi è il viburno (paùgnia): “… combattiamo con paùgnia, cioè con quella bacchetta che portiamo dreto le croci nelle processioni delle Rogationi…”10. Una simile affermazione risultava certamente per gli inquisitori una riprovevole e blasfema commistione di sacro e diabolico; all’interno della struttura ecclesiale, però, le posizioni non erano uniformi, e pare che il clero regolare friulano concedesse un certo spazio a forme di religiosità popolare derivanti da un ampio retroterra di antiche credenze a carattere magico. Alcuni Domenicani, ad esempio, furono accusati di “licenziosità” e processati per aver partecipato al ballo che si teneva il giorno di S. Fosca (13 febbraio) presso il convento omonimo (affidato, appunto, alle cure dell’Ordine), situato ad Adegliacco, nei pressi di Udine. Dagli atti del processo11, risalente al 12 agosto 1599, risulta che essi avevano ballato indossando l’abito bianco di S. Domenico e una “maschera negra”: la presenza di questa maschera, che certamente non serve a far passare inosservati i religiosi, e piuttosto evoca simbolicamente le forze ctonie in tutta la loro ambivalenza di distruzione- generazione, può dunque ricondurre questo ballo ad antichi riti magici tesi a promuovere la fecondità dei campi e l’abbondanza dei raccolti. Ma, come per il clero secolare risultava incomprensibile e “licenziosa” la partecipazione di frati alle feste agresti, così per la Inquisizione era inaccettabile la presunta cristianizzazione dei riti agrari compiuti dai benandanti: gli Inquisitori, ovviamente, erano sconcertati di fronte a queste figure di “stregoni boni… che impediscono il male”12, e interpretarono le loro testimonianze come “chiari” segni di magia diabolica, riconducendole all’interno degli schemi preordinati della stregoneria. Così negli ultimi processi citati dal Ginzburg, risalenti al 1645, emergono a più riprese confessioni di partecipazione al sabba diabolico, abiura della fede cristiana e omaggio al diavolo: in pochi decenni, dunque, il potere inquisitorio riuscì ad identificare i benandanti con i loro tradizionali avversari, fino a diffondere nella mentalità popolare l’immagine che di essi sopravvive nelle credenze ricordate dall’Ostermann.

Note

 1 Utilizzo qui il concetto di margine secondo la definizione data dal Van Gennep (Les rites de passage., E. Nourry, Paris 1909): marge è, appunto, la situazione intermedia tra uno stato esistenziale e quello successivo, diversamente vissuta nelle varie culture. Ad esempio, tra i Toda dell’India la donna incinta è segregata in una capanna speciale, e non può entrare a contatto con il luogo in cui viene lavorato il latte.

 2 L’espressione sintetizza efficacemente la particolarità di questa condizione femminile, l’essere in uno stato altro rispetto al normale.

3 Cfr. A. Ciceri, Ciclo dell’uomo, in Venzon -48° Congres, S.F.F., Udine 1971; P. Cracina, Nozze ieri in Friuli, Chiandetti, Reana del Rojale 1974; A. Ciceri, Tradizioni popolari in Friuli, Chiandetti, Reana del Rojale 1982. Le opere citate costituiscono solo una piccola parte dell’abbondante repertorio etnografico disponibile; devo, inoltre, sottolineare che ancora oggi sono presenti in area friulana numerose credenze popolari sulla gestazione, come ho potuto riscontrare personalmente nel corso di alcune interviste ad anziane informatrici di Lavariano e Chiasiellis, frazioni del comune di Mortegliano, situato a una decina di km a sud di Udine.

4 V. Ostermann, La vita in Friuli. Usi, costumi, credenze popolari, 1894 (2a ed. a cura

di G. Vidossi, Del Bianco, Udine 1940), p. 293.

5 Cfr. G. Vidossi, nota n° 6 (p. 293) all’opera di Ostermann sopra ricordata.

6 Cfr. C. Ginzburg, I benandanti, Einaudi, Torino 1966, pp. 23-24.

7 V. Ostermann, op. cit., pp. 298-299.

8 C. Ginzburg, op. cit., pp. 10-11.

9 V. Ostermann, op. cit., p. 129.

10 C. Ginzburg, op. cit., p. 221.

11 Il documento è riportato in T. Venuti, Balli di frati, “Ce Fastu?”, 1-6 (52), gen.-dic. 1976:

219-229.

12 C. Ginzburg, op. cit., p. 8 e p. 5.