Quando, alla fine del secolo scorso, cadevano frontiere in Europa e all’Est erano già crollati muri e vecchio ordine, a qualche osservatore disincantato poteva apparire quanto mai “antistorico” che alcuni popoli cercassero ancora, talvolta con disperata ostinazione, di autodeterminarsi, di rendersi indipendenti. Addirittura, come nel caso dei baschi, con la lotta armata. Eppure la Nazione Basca non è un’identità inventata a tavolino, fasulla, una copertura di comodo per coprire altri interessi (per capirci: non è il Katanga o Santa Cruz). È una terra ben definita sotto ogni aspetto: storico, sociale, politico, culturale.
Per mezzo secolo la questione basca è stata inscindibile – nel bene e nel male – dall’attività di Euskadi Ta Askatasuna cioè ETA, organizzazione armata… negli ultimi tempi talvolta pericolosamente in bilico fra l’identità di un esercito di liberazione e quella di una banda di desperados. Senza voler negare la tragica realtà di una lotta armata che spesso ha assunto connotati feroci (l’Hipercor nel 1987 e Vic nel 1991, l’uccisione di prigionieri inermi come José Maria Ryan Estrada e Miguel Blanco Garrido), va comunque ribadito che non si può ridurre la questione basca a un problema di terrorismo. Anche perché si dovrebbe quantomeno ricordare un altro terrorismo, quello di Stato che ha utilizzato sistematicamente tortura, deportazioni, esecuzioni extragiudiziali (vedi le varie squadre della morte, di stampo sudamericano, finanziate dal governo spagnolo: ATE, BVE, GAL). Metodi inaccettabili per uno Stato democratico, metodi che hanno contribuito ad alimentare la spirale della violenza.

Il disarmo

Per raccontare ETA partiamo da quella che al momento sembra dover essere la sua fine: il disarmo totale e definitivo, con la consegna delle armi venuta a suggellare una tregua definitiva unilateralmente dichiarata dall’organizzazione armata indipendentista. E non si può escludere a breve un passo ulteriore: l’autoscioglimento di ETA come organizzazione armata. Pur continuando a lottare, ovviamente con altri mezzi, per l’indipendenza e il socialismo.
Qualche settimana prima Bake Bidea, piattaforma della società civile che promuove il processo di pace in Euskal Herria, aveva organizzato un convegno (Il disarmo al servizio del processo di pace) a Biarritz, nel nord del Paese basco (Ipar Euskal Herria, sotto amministrazione francese). Vi avevano preso parte numerosi esperti e rappresentanti degli “Artigiani della Pace”. Fra questi, le cinque persone arrestate lo scorso dicembre mentre si apprestavano a mettere fuori uso un certo quantitativo di armi di ETA (come concordato con l’organizzazione indipendentista armata).eta storia - symbol
A circa due anni dalla Conferenza umanitaria per la pace nel Paese Basco e a cinque anni dall’inizio del mandato del governo socialista francese, il Convegno di Biarritz ha rappresentato l’occasione per un bilancio e una riflessione sul ruolo della società civile nel promuovere il processo di pace. Un processo destinato ad avanzare soltanto per l’impegno del popolo basco, non certo per la sostanziale assenza dei governi spagnolo e francese.
A seguito della Conferenza umanitaria, si era costituita una Commissione per la pace nel Paese Basco, composta da una ventina di giuristi francesi e baschi, per riflettere sulle possibili soluzioni per la situazione in cui versano i prigionieri politici.
Senza dimenticare un importante precedente: nel palazzo di Ayete, a San Sebastiàn, si era svolta il 17 ottobre 2011 la “conferenza di pace” in cui Euskadi Ta Askatasuna aveva rinunciato formalmente all’uso della violenza.

La nascita sotto Franco

Qualche passo indietro. ETA nasceva ufficialmente nel 1958 (secondo alcune fonti nel 1959, comunque in piena epoca franchista), ma le sue origini risalivano al 1952, l’anno in cui venne pubblicato un bollettino, “Ekin” (azione) a cura di alcuni studenti baschi che operavano in clandestinità, per cause di forze maggiore. Inizialmente si limitarono a organizzare brevi corsi di cultura basca. Diversamente da quanto si è scritto in proposito, non furono espulsi dal PNV (che all’epoca semplicemente “se esisteva, non dava segni di vita”, come spiegava Julien Madariaga, uno dei fondatori di “Ekin”). Nel 1958 il gruppo cambiò il nome in Euskadi Ta Askatasuna autodefinendosi “movimento rivoluzionario basco di liberazione nazionale”.
Quanti furono complessivamente i militanti di ETA? Secondo le stime dello storico Inaki Egana si dovrebbe calcolare tra dieci e quindicimila il numero dei baschi che vi hanno militato. Inizialmente, con la diffusa rassegnazione in seguito alla sconfitta subita con la Guerra Civile, integrarsi in ETA rappresentava un’opportunità per darsi alla macchia. Successivamente sembrò a molti che si stesse entrando in una fase pre-insurrezionale, analoga a quanto avveniva in molte aree del terzo mondo (Algeria, colonie portoghesi, Vietnam…). Una fase successiva era invece legata all’entrata della Spagna in Europa. I cambiamenti avvenuti in ETA riflettevano questa nuova situazione con la ricerca costante di una possibile negoziazione che potesse riconoscere la forza dei due contendenti, ma anche l’impossibilità per entrambi di una vittoria militare (esattamente come nell’Irlanda del Nord). E questa situazione era destinata a rimanere sostanzialmente inalterata almeno fino ai primi anni del nuovo millennio.
Tornando alle origini, dalla sua fondazione al 1966 l’evoluzione di ETA è cadenzata da quattro Assemblee e da una serie di scissioni.
Con l’Assemblea del 1964 venne definitivamente adottata la denominazione di “organizzazione socialista”. A segnare in maniera indelebile il futuro di ETA sarà soprattutto la V Assemblea, avvenuta in due fasi. La prima si svolse nel 1966 presso la Casa parrocchiale di Gaztelu. Era stata messa a disposizione da Luca Dorronsoro, parroco della chiesa e militante di ETA. La V Assemblea veniva considerato dal MVLN (Movimento Basco di Liberazione Nazionale) come un cardine decisivo per tutta l’evoluzione successiva. Vi fu un acceso contrasto tra fazioni in merito alla “questione operaia” e su come coniugare lotta di liberazione nazionale con lotta di classe.
La seconda parte della V Assemblea si svolse nel 1967 a Getaria, durante la “Settimana Santa”, nella Casa di Esercizi Spirituali. Per cui i cinquanta militanti di ETA vennero scambiati per seminaristi. Durante questa riunione, oltre che con “una teoria rivoluzionaria marxista”, ETA si attrezzò in maniera definitiva con quelli che vennero denominati i Quattro fronti: politico, culturale, socio-economico e militare.
La presidenza della V Assemblea toccò al giovane Txabi Etxebarrieta, destinato a diventare il primo caduto di ETA nel 1968.
Emanazione del fronte culturale furono il gruppo “Ezdok Amiru” (fondato dallo scultore Oteiza) e le prime Gau Eskolas e Ikastolas.
Nel corso degli anni sessanta (ed essendo la maggior parte dei suoi militanti di estrazione proletaria) ETA si confrontò con i problemi connessi alle contraddizioni sociali e alla ripresa delle lotte operaie sia in Euskal Herria che nella penisola iberica in generale (con la nascita delle CCOO, le commissioni operaie). Compiendo ogni possibile sforzo per coniugare in maniera non dogmatica lotta di classe con lotta di liberazione nazionale e arrivando alla creazione di un Fronte Operaio, voluto in particolare da Txabi Etxebarrieta.
Il 7 giugno 1968 la Guardia Civil intercettava due militanti di ETA e nel conflitto a fuoco perdeva la vita la guardia Pardines. Poco ore dopo la GC uccideva Etxebarrieta. Migliaia e migliaia di persone in tutta Euskadi gli resero onore mentre l’afflusso di militanti decisi a intraprendere la lotta armata aumentava in maniera impressionante.

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Il sangue comincia a scorrere

Nell’agosto 1968 l’ETA uccide a Irun (Guipuzcoa) Meliton Manzanas, ispettore della Brigata Politico Sociale di San Sebastian e noto torturatore.
Il processo che si svolge a Burgos due anni dopo rappresenta nelle intenzioni del regime anche una sorta di rappresaglia per questa azione rivendicata da ETA. Contro nove militanti, giudicati da un tribunale militare, vengono emesse condanne a morte e soltanto una forte protesta popolare che dal Paese Basco si estende a tutto il continente ne impedirà l’attuazione.
Il 20 dicembre 1973 salta in aria l’auto dell’ammiraglio (almirante) Luis Carrero Blanco, presidente del governo, considerato il “delfino” di Franco e simbolo della continuità del regime. Autori dell’attentato i membri del commando Txikia. Con questa azione ETA portava l’attacco direttamente in territorio nemico causando sconcerto e incredulità fra le alte sfere franchiste che fino ad allora si credevano invulnerabili.
L’anno successivo, 1974, si consumava una scissione interna. A causa di un diverso modo di intendere la resistenza armata, l’organizzazione si divide tra ETA-pm (politico-militare) e ETA-m (militare).
Nel 1975 le due organizzazioni esprimeranno posizioni contrastanti anche sul ruolo del neonato Koordinadora Abertzale Sozialista (KAS), strumento di coordinamento fra le varie organizzazioni della sinistra basca indipendentista.
Mentre per ETA-pm le koordinadora dovevano servire a far nascere un partito rivoluzionario coagulando le varie anime del movimento, per ETA-m dovevano rappresentare l’intera area rivoluzionaria basca, restando un organismo dove le decisioni strategiche e politiche andavano prese congiuntamente.
In seguito ETA-pm perse gran parte del suo prestigio. Il suo partito EIA (Euskadi Iraultzako Alderdia) trasformandosi da “rivoluzionario” in eurocomunista (Euskadiko Ezkerra, EE) era destinato a confluire nel PSOE. Comunque settori consistenti di ETA-pm (come i commando Bareziak) rientrarono in ETA-m.
Nel settembre 1975 vennero fucilati due etarra, Txiki e Otaegi (insieme a tre militanti comunisti del FRAP). Due mesi dopo moriva finalmente Franco e il nuovo governo Suarez presentava un progetto di Riforma Politica sottoscritto dalle Cortes franchiste.
In vista delle elezioni, tutti i gruppi nazionalisti baschi (dal PNV a ETA) si riunirono varie volte a Txiberta per affrontare insieme la nuova situazione. Tuttavia il progetto unitario era destinato a fallire anche a causa dei contatti con il governo mantenuti sia dal PNV che da ETA-pm.
Alle elezioni la sinistra abertzale praticò l’astensionismo mentre nelle strade di Euskal Herria si manifestava a favore dell’autonomia.
Nel giugno del 1977 (mese di elezioni) si registrò un incremento dell’attività di ETA: 34 azioni in 11 giorni. In Bizkaia inizia ad agire contro la centrale di Lemoiz con una serie di sabotaggi (provocando anche, se pur involontariamente, una decina di vittime nel corso degli anni successivi).
La Costituzione approvata con referendum nel 1978 venne sostanzialmente rifiutata nel Paese Basco.
ETA tenne in questi anni diverse “Biltzar Nagusi” (congressi) per consentire ai militanti di partecipare attivamente alle scelte politiche e strategiche dell’organizzazione e per eleggere il Biltzar Ttipia, la dirigenza di ETA: otto militanti in rappresentanza di altrettanti settori (Informazione, Propaganda, Comandos legali, Comandos illegali, Economia, Relazioni internazionali, Ufficio politico e Mugas-Frontiere) ognuno dei quali avrebbe dovuto operare in piena autonomia.
Intanto anche la repressione si andava riorganizzando. Con la morte di Argala (José Miguel Benaran) assassinato il 21 dicembre 1979 riprendeva l’azione di squadre paramilitari, sul libro paga di Madrid, in Iparralde (Paese Basco del nord, sotto amministrazione francese).
Il 1979 era stato caratterizzato da un incremento dell’attività dei gruppi armati baschi (oltre a ETA-m e ETA-pm anche i Comandos Autonomos) arrivando a un totale 136 azioni (con 71 vittime: tra cui 21 GC, 16 informatori, 11 poliziotti e altrettanti membri dell’esercito). Nel 1980 le vittime dei gruppi armati baschi furono circa 80.
Il 1981 sarà l’anno del tentativo di colpo di stato da parte di settori della GC e dell’esercito, golpe fallito solo in parte… in quanto nel Paese basco la repressione si inasprirà ulteriormente.
Nel marzo 1982 si concluse il progetto di “autonomia” che separava ulteriormente il Paese basco del Sud (Hegoalde) ora diviso un due comunità autonome.
In questo contesto, a 25 anni dalla sua fondazione, ETA lanciava un appello per la soluzione politica del conflitto.

Oggi, dopo 25 anni di attività, di perfezionamento e consolidamento dell’organizzazione, ETA e il resto del MLNV, abbiamo raggiunto un livello che dimostra come non siamo disposti a cedere sui punti minimi di difesa dei diritti legittimi del nostro popolo. Sono già otto anni che ETA, dando prova di maturità e onorabilità politica, va offrendo ripetutamente e unilateralmente la possibilità di una tregua basata sulla negoziazione dei cinque punti dell’Alternativa KAS. Se l’organizzazione offre questa possibilità è perché siamo perfettamente coscienti che la pace è possibile qui e ora.
Però non qualsiasi pace, non la pace dei cimiteri, ma una pace senza vincitori e senza vinti.

Ma soltanto nel gennaio 1989 si arriverà ai colloqui sul suolo algerino (“Mesa de Argel”, gennaio-marzo 1989) fra ETA e governo spagnolo. Colloqui che ben presto risultarono fallimentari.
Nel frattempo un’altra serie di tragedie (vedi l’Hipercor, a Barcellona nel giugno 1987) funestavano il panorama iberico con un aumento dei morti da una parte e dall’altra. Oltre ai circa cinquecento prigionieri baschi rinchiusi nelle carceri spagnole (e un altro centinaio in quelle francesi).
Ormai abbandonata l’ipotesi dell’insurrezione, ETA aveva compreso (come stava avvenendo anche in Irlanda da parte dell’IRA) che una vittoria militare era da considerarsi impossibile. Cercò quindi di agire in una prospettiva chiamata tactica de conquistas irreversibles attraverso la creazione di rapporti di forza favorevoli sul piano della negoziazione.
Con gli arresti del 1982 di alcuni dei principali dirigenti, ETA si vide costretta a una sostanziale ristrutturazione interna. Le azioni armate diminuirono, divenendo negli anni novanta “più selettive” nel tentativo, spiegava un comunicato, di “individuare i punti nevralgici del sistema”. Fra le vittime: il tenente generale Francisco Veguillas (considerato il numero 3 del ministero della Difesa; Gregorio Ordonez esponente del Partido Popular; Fernando Mugika Herzog e Francisco Tomas y Valiente, ex presidente del Tribunal Costitucional (tra il 1994 e il 1996).
Arriviamo al 1997, un anno cruciale, determinante per quel “giro di boa” di cui oggi vediamo, forse, la conclusione.

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Il 19 giugno 1987 l’ETA fa esplodere una bomba ad alto potenziale nel centro commerciale Hipercor, a Barcellona, provocando 21 morti e 45 feriti. Peraltro, i separatisti avevano avvertito la polizia locale dell’attentato, ma non era seguita alcuna evacuazione.

La proposta di pace

Risale all’inizio del 1997 una delle fasi più drammatiche per il futuro dell’indipendentismo basco.
La Mesa Nacional di Herri Batasuna veniva accusata e successivamente arrestata per aver diffuso nel febbraio ‘96 un video elettorale in cui l’organizzazione armata basca ETA presentava la sua “Proposta di Pace: Alternativa Democratica per il Paese Basco” per mettere fine al conflitto armato tra Euskadi e lo Stato spagnolo. Uno dei membri della Mesa Nacional di Herri Batasuna, Eugenio Aramburu, responsabile del movimento operaio, moriva suicida il 10 febbraio 1997 qualche ora prima dell’arresto. In quei giorni quattro esponenti della direzione di Herri Batasuna, tra cui Joseba Alvarez, si trovavano all’estero con lo scopo di informare l’opinione pubblica internazionale sulla situazione politica nel Paese Basco. Vennero arrestati successivamente a Irun, al momento del loro rientro in territorio “spagnolo”.
L’imprigionamento della direzione di Herri Batasuna, così come gli ostinati “no” del governo di Aznar a ogni negoziato politico con ETA (negoziati richiesti anche dal PNV, partito maggioritario al Governo Autonomo) avevano destabilizzato totalmente la vita politica basca. Le tensioni politiche aumentavano, gli scontri si moltiplicavano, riprendevano gli attentati e la polizia sparava sulla folla come durante la manifestazione del 15 febbraio a Bilbao. ETA aveva lanciato una proposta di pace, ma il governo di Aznar rispondeva con una “dichiarazione di guerra”.
La “Proposta di Pace per il Paese Basco: Alternativa Democratica” presentata dall’ETA si basava su due differenti punti fondamentali di negoziato: uno riguardava l’ETA e il governo spagnolo, l’altro tutti i cittadini baschi. Si trattava di avviare un processo democratico reale, ossia con la libertà di scegliere fra tutte le possibilità politiche, compresa l’indipendenza. L’obiettivo della negoziazione politica tra ETA e lo Stato spagnolo era quello di ottenere il riconoscimento del Paese Basco, premessa indispensabile affinché questo processo fosse veramente democratico.
Nelle intenzioni di ETA, le decisioni ultime spettavano solamente alla società basca perché era “l’unica che può legittimamente stabilire in merito ai diversi problemi che riguardano i cittadini baschi, come la politica linguistica, quella economica, lo sviluppo del territorio, le istituzioni, eccetera. Per arrivare a questo è necessario che sindacati, associazioni, movimenti, partiti politici, istituzioni, ossia tutta la società basca, partecipino a questo processo democratico”… sottintendendo che. se lo Stato spagnolo avesse accettato di riconoscere al Paese Basco il suo diritto all’autodeterminazione e alla sua integrità territoriale, ossia la riunificazione tra Vascongadas e Navarra (e questo non significava automaticamente l’indipendenza), ETA avrebbe annunciato un “cessate il fuoco”. Impegnandosi ad adattare la sua azione politica alle circostanze, senza rinunciare a lottare per i suoi obiettivi strategici (l’indipendenza di Euskadi e una società basata sulla giustizia: Bietan Jarrai) ma con altri mezzi, ossia abbandonando la lotta armata.

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Arnaldo Otegi

Con il senno di poi, una grande occasione perduta

Sempre nel 1997 si assistette in tante città europee a spettacolari azioni dimostrative a sostegno dei prigionieri politici baschi. Gruppi di militanti baschi occuparono le sedi di alcuni consolati e ambasciate spagnoli (anche a Roma). Ancora l’anno precedente, nel settembre 1996, in tutte le principali capitali d’Europa si erano tenuti scioperi della fame dei parenti dei prigionieri. Altri scioperi della fame, a staffetta, si erano svolti nelle quattro principali città basche, in chiese messe a disposizione dei familiari. Si voleva rompere il muro di omertà e disinformazione che copriva le lotte dei prigionieri baschi rinchiusi nelle “carceri di sterminio”.
Un solo esempio: il drammatico sciopero condotto nella prigione Salto del Negro (Las Palmas de Gran Canaria) nel 1992. Dopo un mese di sciopero della fame, verso la fine di maggio, i detenuti iniziavano anche lo sciopero della sete e immediatamente scattava la reazione del governo madrileno, che evidentemente non voleva vedere aleggiare sopra i festeggiamenti per le Colombiadi l’ombra di un altro Crespo (basco, morto nel 1981) e Sevillano (andaluso, morto nel 1990), prigionieri politici dei GRAPO deceduti in huelga de hambre.
I detenuti vennero fissati ai loro letti, legati mani e piedi (come riuscirono a documentare fotograficamente altri detenuti) e impossibilitati a muoversi, alimentati a forza con il siero attraverso flebo e cannule. Ma neanche questa ennesima violazione dei Diritti Umani (Amnesty International ha definito l’alimentazione forzata una forma di tortura) riuscì a scuotere il torpore e la complicità dell’informazione, sia in Spagna che in Europa.
Di un ennesimo sciopero della fame di amici e familiari dei prigionieri politici, conclusosi all’inizio di aprile 1997, avevo parlato con i diretti interessati. Si trattava di otto persone (tra le quali Juan Cruz Aldasoro, sindaco di Etxarri-Aranats) che, dal 17 febbraio, avevano digiunato per sei settimane nel seminario di Irunea (Pamplona), poi ricoverate nell’Hospital de Nafarroa per superare le conseguenze del prolungato digiuno. Dalla propria esperienza hanno potuto intuire “quanto deve essere duro portare avanti uno sciopero della fame all’interno del carcere”, ricordando che “nelle carceri anche quando lo sciopero non giunge alle estreme conseguenze, gli effetti sono spesso devastanti per la salute dei detenuti”. Infatti i prigionieri non venivano ricoverati in ospedale e non veniva garantito un periodo di cure per recuperare.
Una conferma di cosa rappresentassero ancora negli anni novanta ETA e i suoi militanti per una larga parte del popolo basco si era avuta domenica 30 marzo 1997 durante i funerali di Josu Zabala, “Basajaun“. Mentre la folla sembrava straripare dalla piazza di Etxarri, era inevitabile ricordare gli onori funebri resi ad altri militanti di ETA come Txomin Iturbe (rifugiato in Algeria e qui morto in un misterioso incidente stradale) il cui feretro venne accolto da una vera moltitudine. E rivedevo il livido corteo sotto la pioggia di settembre (1993) che accompagnava “Anuk” (Xabier Kalparsoro) per le strade di Zumaia. A un certo punto cominciò a rallentare per fermarsi davanti alla casa dell’anziana nonna inferma di Anuk; per un attimo scorgemmo la donna sporgersi dalla finestra. Anuk era stato prima sequestrato e sottoposto a narcoanalisi, poi nuovamente sequestrato e scaraventato dal terzo o quarto piano di un commissariato (in stile Pinelli).
E come scordarsi di José Antonio Lasa (“Joxean”) e José Ignacio Zabala (“Joxi”)?
La scoperta nel 1995 di quanto restava dei loro cadaveri nel deposito di un cimitero di Alicante confermava quanto i baschi gridavano da anni: sequestrati in Iparralde, i due militanti erano stati sottoposti a torture atroci prima di venire assassinati dai mercenari del GAL.
Nella vile operazione risultò coinvolta la trama verde del GAL, ossia i servizi speciali della Guardia Civil, e in particolare la caserma di Intxaurrondo. La loro scomparsa a Baiona risaliva al 1984, contemporaneamente alla grande retata operata dalla GC in tutta l’area di Tolosa e Deba nei giorni 19, 20 e 21 gennaio 1984. Tanto Lasa quanto Zabala erano stati “spietatamente torturati, come dimostrano tutte le unghie strappate dalle estremità (mani e piedi), tranne quella del mignolo destro di Zabala”. Gli assassini del GAL avevano poi tentato di far sparire eventuali tracce con la calce viva.
Sui muri di Euskal Herria apparve allora una scritta: “La calce viva non cancella i diritti di un popolo”.
Ricordo che i manifestanti accorsi all’aeroporto per accogliere i resti dei loro compagni vennero brutalmente caricati dalla polizia, che picchiò e manganellò perfino dentro il cimitero durante la cerimonia per la sepoltura, volendo impedire ogni tipo di rivendicazione da parte dei militanti baschi.
Così a Etxarri-Aranatz per Basajaun. Il corteo funebre con la bara avvolta nel drappo di ETA (ascia con serpente attorcigliato) transitava davanti a migliaia di persone che sventolavano centinaia di bandiere basche. I pugni chiusi si sollevavano insieme alle grida (“Gora ETA militarra“) per onorare un altro figlio del popolo basco caduto nella lotta per l’indipendenza. Molti partecipanti erano giunti a piedi, dopo aver lasciato le auto nelle località vicine, a causa dei posti di blocco della Guardia Civil.
L’arrivo del feretro di Basajaun nella piazza, verso le sei di sera, era stato preannunciato dal suono ancestrale della txalaparta, antico strumento ideato probabilmente proprio per accompagnare l’ultimo viaggio dei morti. Gli amici avevano ricordato che “le sue principali ragioni di vita erano l’euskara, la montagna e la libertà di Euskal Herria, ciò per cui ha dato tutto quello che aveva, arrivando a dare la sua stessa vita”. Dopo la lettura di un messaggio del suo amico e compagno di lotta Inaki Canas, al momento in carcere, era intervenuto un esponente di Gestoras pro-Amnistia. “Tutto quello di cui siamo attualmente a conoscenza”, aveva gridato, “ci conferma che la Spagna ha voluto ammazzare Josu”. Aggiungendo che “la nostra organizzazione esige che la Guardia Civil, la polizia spagnola e tutti coloro che le appoggiano lascino il paese basco perché con i loro metodi non sono altro che una interferenza e un impedimento alla costruzione di un autentico processo democratico in Euskal Herria”. Era poi intervenuto Arnaldo Otegi dichiarando che la vita e la morte di giovani come Josu Zabala dimostrano che non esiste possibilità per lo Stato di riuscire a estirpare quella che ha definito “l’organizzazione basca più amata”, chiaro riferimento a ETA. A suo avviso la carcerazione per gli esponenti della Mesa Nacional di Herri Batasuna, le torture inflitte a Elejalde e ora l’uccisione di Josu Zabala erano la prova di un preciso progetto dello Stato per eliminare l’indipendentismo; ma questi fatti hanno anche riconfermato che “Euskal Herria è disposta a lottare e a conquistare la sua indipendenza”. Prima di accompagnare fino al luogo della sepoltura la bara del militante abertzale, i presenti avevano intonato Eusko Gudariak, l’inno dei Gudaris (i combattenti baschi antifranchisti), lo stesso che nel settembre del 1975 Txiki intonò davanti al plotone d’esecuzione.
Da allora molte cose sono cambiate. Per esempio sia le Gestoras pro Amnistia che l’organizzazione che le aveva sostituite, Askatasuna, sono state illegalizzate (come Herri Batasuna prime e Batasuna poi, come Jarrai e Segi). Quanto a Otegi, è stato incarcerato per molti anni anche per questo suo intervento.
Con la morte di Josu Zabala, assassinato, riaffiorava lo spettro della “guerra sucia“, forse ora condotta direttamente dalle forze di polizia e non subappaltata a mercenari e affini (come avveniva con ATE, BVE e GAL). Questa era anche l’opinione dell’organizzazione ANV (Azione Nazionalista Basca) che con un comunicato esprimeva tutta la sua rabbia per “questa nuova vittima della guerra sporca. Vi sono sufficienti elementi per dichiarare che gli assassini di Josu Zabala sono gli stessi responsabili della morte di tanti e tanti cittadini baschi, come Joxean Lasa, Joxi Zabala, Lutxi Urigoitia, Mikel Zabalza, Gurutze Iantzi…”.

Un gesto indegno per un movimento di liberazione

Luglio 1997: sicuramente uno dei momenti più drammatici nella tormentata storia di Euskal Herria, in un anno così pieno di avvenimenti.
Erano i giorni immediatamente successivi a una delle azioni più assurde e crudeli compiute da ETA, l’assassinio di un ostaggio inerme, il consigliere comunale del PP Miguel Angel Blanco Garrido. Intanto all’orizzonte si profilava la scadenza del processo contro l’intera Mesa Nacional di Herri Batasuna, il partito indipendentista basco accusato di collaborare con ETA.
Il governo del neofascista Josè Maria Aznar sembrava intenzionato a “capitalizzare” fino in fondo l’operato di ETA e la richiesta di pena di morte per gli “etarras” veniva formulata da filosofi e accademici (Gustavo Bueno proponeva addirittura di riesumare il “garrote vil”).
Da parte mia, per quanto turbato da quanto stava accadendo, ritenevo di dover comunque ascoltare anche l’altra campana, quella di Herri Batasuna. Avevo quindi incontrato Gorka Martinez (la mia intervista è pubblicata su “Etnie”) responsabile delle relazioni internazionali e membro della Mesa Nacional. In questa veste Gorka era stato recentemente incarcerato, poi liberato su cauzione e rischiava una decina di anni di carcere. Il processo all’intera Mesa Nacional di HB stava per cominciare (6 ottobre 1997) e come è noto si concluse con pesanti condanne. Ricordo che in seguito, tra il 1997 e il 2000, l’esponente abertzale verrà incarcerato varie volte (sia come membro della Mesa Nacional che in seguito come esponente dell’ufficio esteri di HB) ammalandosi gravemente. È morto per un tumore all’inizio del 2002.

eta storia - miguel angel blanco
Miguel Ángel Blanco Garrido (1968-1997) era un amministratore locale basco appartenente al Partido Popular. Fu sequestrato da tre membri dell’ETA, che chiesero in cambio della sua libertà l’avvicinamento dei prigionieri politici in carceri situate nel Paese Basco. Al rifiuto governativo, i rapitori portarono Blanco in un campo e gli spararono due colpi alla testa.

La tregua del 2006: altra occasione perduta

Nel maggio 2006, in un altro incontro con il dirigente abertzale Joseba Alvarez (in quel periodo portavoce del Kampoko Harremanetarako Batzordea di Batasuna) avevamo fatto il punto sulla situazione dopo una nuova tregua di ETA. Una tregua, purtroppo, che sarebbe durata soltanto nove mesi. Tragicamente interrotta dall’attentato del 30 dicembre 2006 all’aeroporto di Madrid che determinò la rottura dei negoziati cominciati in giugno. Pur rivendicando l’attentato (che avrebbe dovuto essere solo dimostrativo e invece provocò due vittime), ETA aveva dichiarato di voler mantenere la tregua per permettere un ulteriore sviluppo del processo di soluzione politica del conflitto.
Nel 1997, al momento del processo contro i dirigenti di Herri Batasuna, Joseba Alvarez ricopriva la carica di responsabile per l’euskara, la lingua basca, nel partito abertzale (indipendentista di sinistra). Liberato, con gli altri esponenti, dopo qualche anno di carcere era diventato responsabile dell’ufficio esteri (Kampoko Harremanetarako Batzordea) della nuova formazione Batasuna. Insieme ad altri esponenti di Batasuna si era recato varie volte in Sudafrica “a scuola di colloqui di Pace” (come avevano già fatto molti irlandesi, sia repubblicani cattolici sia unionisti protestanti durante i colloqui per l’Irlanda del Nord) studiando attentamente l’esperienza di riconciliazione nazionale del dopo-apartheid. In seguito venne nuovamente incarcerato.
Nel maggio 2006, a due mesi di distanza dall’annuncio del “cessate il fuoco permanente” da parte di ETA, lo avevo intervistato a Donosti.
Le premesse per una soluzione politica del conflitto c’erano quindi da tempo, anche se il percorso rimaneva ingombro di ostacoli. Possiamo dire che da allora (2006) di strada ne è stata fatta, anche se a camminare sembra siano soltanto i baschi. Ma i miopi governi, spagnolo e francese, cosa pensano di fare? Restare ancora alla finestra?

Ipotesi conclusive

Quale futuro per l’indipendentismo in Euskal Herria dopo la deposizione delle armi da parte di ETA? Sinceramente, non ne ho la più pallida idea. Devo dire che dopo la liberazione di Arnaldo Otegi mi aspettavo un rilancio delle lotte sociali, culturali, ambientali… Per ora rimango in attesa, comunque fiducioso.
E mi permetto di riformulare la domanda posta da Arnaldo Otegi, quando ancora stava in carcere, ai 400 delegati al congresso per la nascita di SORTU.

Siamo coscienti che qui e ora il nostro compito storico è costruire la larga maggioranza sociale che fonderà lo Stato basco e costruirà un modello sociale alternativo al capitalismo?

Non era una domanda retorica, credo. Mi auguro che la sinistra abertzale ne sia consapevole e la sua risposta adeguata. Altrimenti bisognerebbe pensare che nelle società a “capitalismo avanzato”, come quelle europee, ogni aspirazione all’indipendenza, alla libertà di espressione (nella propria lingua, primariamente), all’autogoverno, alla dignità sociale (più concretamente: alla garanzia di un posto di lavoro, un salario degno, una casa… e potremmo aggiungere: salute, cultura, ambiente non inquinato e non degradato), in particolare per i piccoli popoli come quello basco, sia una pura illusione. Che non esista alternativa alla globalizzazione neoliberista, che non si possa scegliere di vivere in un’altra maniera…
Talvolta, pensando che “nemmeno i baschi ci sono riusciti” mi verrebbe da crederlo.