foto di Giuseppe Russo

Ciali, ciali”, ciao, ciao, ripete Gurmai nel dialetto locale, rivolgendosi ai primi mursi incontrati all’interno del Mago National Park. Un sorrisone a 32 denti accompagna il saluto del giovane militare di etnia karo assegnato al nostro gruppo, che i mursi, riconoscendolo per i ripetuti servizi di vigilanza con i visitatori, ricambiano con un beneaugurale “Luqurri, luqurri…my friend, my friend”. L’arrivo ad Arsereghe, il villaggio dove facciamo campo con le tende, è accolto da mosche voraci e tafani vampiri con un benvenuto stile sanguisuga che ancora le mie braccia ricordano, accompagnata da afa e da una sensazione di appiccicaticcio paragonabile soltanto al calore del mio familiare scirocco siciliano.
Pur previsto, il fastidio nella realtà è sempre peggiore, ma viene temperato nel mio caso dall’essere finalmente tra i mursi. Dieci anni fa durante un precedente viaggio in Etiopia avevo tentato l’ingresso nel Mago Park, purtroppo impedito da un violento nubifragio su Jinka che gli autisti allora denominarono “pioggia a macchia di leopardo”. Ricordo quella serata, dopo la cena, le grasse risate di tutti noi raccolti in cerchio attorno al fuoco, mentre il capovillaggio continua a proporci a cantilena “Giallù… foto”. Durante la notte mentre ognuno è nella propria tenda, un temporale si abbatte sul campo. Fulmini e tuoni si succedono ripetutamente squarciando il cielo, accompagnati da violenti scrosci d’acqua. La paura di essere sommersi e rimanere intrappolati come topi è reale. La mia tenda, che condivido con un compagno di viaggio, per un difetto della presa d’aria da cui filtra acqua copiosamente, è allagata in pochi minuti. Come due naufraghi usciamo a zampettare nel pantano, sotto la pioggia battente, e ci rifugiamo nell’auto degli autisti e nella tenda del capodriver Ibrahim.
“Ancora pioggia a macchia di leopardo”, mi ripeto… ma stavolta siamo dentro il parco con i mursi e la fragorosa precipitazione cessa in meno di un’ora, concedendo finalmente il riposo ai campeggiatori. Il mattino seguente, il sole dispensa i suoi caldi raggi, rivelando un paio di alberi con strani frutti tra i rami: le nostre tende stese ad asciugare! I mursi, curiosi e avidi di birr, la moneta etiope, si avvicinano al campo proponendosi con una bella luce fotografica ai numerosi shoot, chiedendo in contraccambio denaro e dando inizio alla tanto attesa visita ai villaggi Arsereghe e Pile.

Il popolo mursi è il più noto gruppo etnico nell’Etiopia del sud, essendo stanziale nel Mago National Park e intorno al fiume Omo, lungo le cui rive alleva bovini e coltiva sorgo, mais e fagioli. Le donne mursi dipingono il corpo e il viso con polvere bianca e sono famose per l’uso dei piattelli labiali, il cui inserimento può cominciare fin dall’età di 15 anni. Questo trattamento inizia intorno al decimo anno, allorché il labbro inferiore viene bucato e nel piccolo foro viene inserito un bastoncino; l’apertura viene successivamente allargata introducendo pezzi di legno di dimensioni sempre maggiori finché il labbro non diviene un anello di carne molto elastica, per passare poi – dopo l’estrazione degli incisivi inferiori che ne facilita l’accesso – all’introduzione di un piattello d’argilla. Più grande è il disco d’argilla, più il valore della donna cresce agli occhi di chi la sposa.
Una teoria sulla funzione di questi piattelli la fa risalire ai tempi della tratta di schiavi, seguita alle spedizioni di Vittorio Bottego nella valle dell’Omo River nel 1890: l’imbruttimento delle donne con il piattello ne deprezzava il valore commerciale, evitando loro la schiavitù.
Anche gli uomini mursi usano polvere bianca per visi e corpi, oltre a praticare varie scarificazioni sulle membra per identificarne lo status di guerriero che ha ucciso un nemico. Come in qualsiasi altra etnia nella bassa valle dell’Omo, gli uomini devono superare un test prima di potersi sposare mediante un rito chiamato donga. Armato di bastone, il candidato deve affrontare un avversario scelto tra giovani pari, cercando di batterlo; infine il vincitore viene accolto da un gruppo di donne in età da marito per determinare chi sposerà.

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Il territorio mursi.

Paradiso etnologico

La parte meridionale dell’Omo River Valley è uno dei luoghi più affascinanti del mondo, eletto nel 1980 Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco per le sue straordinarie peculiarità: in nessun altro luogo del pianeta sono concentrate così tante popolazioni diverse dal punto di vista genetico, linguistico e sociale.
Uomini, donne e bambini indossano accessori per indicare chiaramente qual è la loro etnia; l’identità tribale viene così definita da collane, pettinature o tatuaggi che combinano i colori del bianco e del rosso, del nero e del giallo-ocra. Nel tempo, le comunità etniche hanno imparato a usare sempre queste particolari acconciature come richiamo commerciale per i visitatori, ottenendo birr in cambio di fotografie.
Visitando i principali villaggi e mercati settimanali di Key Afer, Turmi, Dimeka e Aldaba, conosciamo le consuetudini degli hamer, banna, tsemay, karo e galeb. Caratteristiche comuni alle donne sono i succinti vestiti di pelle di capra, gli ornamenti con le cipree del mar Rosso e le calebasse (zucche essiccate, variopinte e decorate) usate come borsette. Per gli uomini conta il possesso di bestiame, soprattutto bovini, che descrive lo status sociale e la ricchezza; mandrie che essi conducono in lenti e insicuri viaggi fino alle sponde dell’Omo per abbeverarle durante i mesi della stagione secca. Molti uomini si modellano sulla testa un cercine formato da una crocchia di argilla sormontata da penne di struzzo, che dimostra il loro valore per aver ucciso un animale feroce o un nemico in battaglia; e per evitare di rovinare le acconciature dormendo usano i borkotos, poggiatesta di legno che portano sempre con sé, anche con la funzione di sgabello per riposare.
Le donne hamer sposate indossano l’esente, collana di ferro da portare per tutta la vita, che può avere anteriormente una protuberanza fallica detta bignere a indicare lo status sociale di prima moglie, mentre le nubili hanno un disco metallico infilato tra i capelli.
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Un po’ difficile distinguere etnicamente tra donne hamer, banna o tsemay. Mentre le prime hanno un caschetto di capelli impastati in treccioline con l’aggiunta di ocra, le banna usano un colore di capelli più brunito, adornandosi con collane e fasce di perline multicolori, con l’orlo posteriore della gonna in pelle ornato da un bastoncino di legno. Inoltre banna e tsemay, sia uomini sia donne, portano tra i capelli clips coloratissime fermaciuffi.
Un rito molto praticato e famoso tra gli hamer è ukli bula, il “salto del toro”: il ragazzo, nella fase del suo passaggio dalla pubertà all’età adulta, è tenuto a dimostrare la sua virilità saltando una decina di buoi affiancati, correndo sulla loro schiena per quattro volte senza cadere. È una cerimonia lunga e complessa; il ragazzo viene incoraggiato a aiutato nella preparazione al rito dai suoi padrini, i maz che hanno già saltato il toro, i quali usano decorarsi il viso con un particolare maquillage e consultare gli auspici per il suo futuro. Le parenti invece devono farsi frustare dai maz – o autoflagellarsi – per dimostrare il loro affetto, riportando sulla schiena vistose cicatrici che sono motivo di orgoglio per le giovani. Il ragazzo denudato percorre il sentiero verso la radura dove salterà portando in mano un bastone a forma di fallo, che viene baciato tre volte da ciascuna giovane donna in segno di benedizione. Se il ragazzo non riuscirà nel salto (è permessa una caduta) sarà preso in giro per tutta la vita e non avrà futuro; se invece il cimento avrà successo il ragazzo diventerà maz e, rivestito, verrà accolto nella famiglia, cominciando il suo lungo cammino nella struttura sociale della sua etnia.

Lo status sociale inciso sul corpo

L’approfondimento etnografico prosegue con visite nei villaggi karo, galeb e borana. Khorcho, a guardia panoramica sulla sponda orientale del fiume Omo, è un povero villaggio di capanne di etnia karo. Uomini e donne, per la legge del contrappasso, pur non avendo nulla hanno imparato ad adornarsi in modo povero ma molto creativo. Il body painting è usato da tutti gli abitanti, che hanno i volti affrescati con ocra, gesso bianco, polvere rossa di ferro e brace nera di carbone, le teste acconciate con pannocchie di mais o foglie d’erba. Le donne si trafiggono il mento con un chiodo o un bastoncino di legno e ottengono scarificazioni addominali facendo gonfiare le incisioni della pelle con impacchi di acqua e cenere. Ma mentre per loro rappresentano un richiamo sessuale, negli uomini rivelano l’uccisione di un nemico o di un animale pericoloso, e maggiore è il numero delle linee, maggiore è il numero dei rivali che un karo ha ucciso. Lungo la scenografica terrazza naturale sul fiume, un continuo andrivieni di uomini e donne con il corpo dipinto invita a numerosi scatti fotografici.
Sulla sponda occidentale del fiume Omo, attraversato con scomode canoe arcaiche intagliate in tronchi di albero, vivono i dassanech o galeb. Originari del Kenia, sono in fuga da anni, perseguitati dall’espansione di altri gruppi tribali ostili. Le loro capanne sono a forma di cupola, fatte con materiale riciclato (cartone, foglie, latta, tronchi), mentre la loro economia si basa principalmente sull’allevamento del bestiame, sebbene negli ultimi anni si dedichino anche alla pesca e all’agricoltura, privilegiando le colture del mais e del cotone. Le donne vanno tutte a seno nudo, con collane colorate e i capelli raccolti in treccine coperte da fasce di perline. Maschi e femmine hanno un originale piercing sottolabiale con ua piuma d’uccello, un bastoncino di legno oppure una spina di acacia. I copricapo sono a base di materiale riciclato, come tappi di bottiglia e astucci di penne, mentre tra gli anziani è praticato il piercing auricolare con anelli di vario tipo.

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Pescatori di sale…

Proseguendo tra acacie spinose e incrociando diverse mandrie di dromedari, si avvicina parecchio il confine con il Kenya: è il territorio dei borana. Vivono in capanne di canniccio tenute assieme da argilla e fango, piccole e facilmente smontabili per essere trasportate durante le lunghe transumanze. I borana sono guerrieri bellicosi e aggressivi, e ritengono che chi non ha ucciso nessuno non è degno di sposarsi. A differenza delle altre etnie locali, tutte animiste, sono musulmani e le donne vestono abiti lunghi multicolori.
In questa terra di confine appare all’improvviso El Sod, un povero villaggio sul bordo di un cratere vulcanico spento, nel cui fondo c’è un lago nero. Scendendo a piedi sulle rive del lago, troviamo al lavoro alcuni raccoglitori di sale seminudi: estraggono in apnea dal fondo melmoso un sale nero e limaccioso molto pregiato, che viene poi portato su con gli asini e venduto nei mercati locali. È impressionante osservare questo lavoro durissimo e svolto ancora manualmente: ceste, forza delle braccia, e due rudimentali rotolini di carta trattenuti da un filo metallico a mo’ di tappi stringinaso per facilitare la compensazione durante l’immersione subacquea.
Vicino a El Sod c’è l’area dei konso con i due splendidi villaggi di Machekie e Gamole. Molto grandi, si presentano con capanne recintate da muretti di pietra da cui sbucano torme di bambini. Inoltre sono organizzati in sezioni, ognuna delle quali ha una mora o casa comunitaria, e una piazza cerimoniale in cui vengono eretti i pali delle generazioni, uno ogni 18 anni. Una tradizione in disuso, ma ancora visibile tra i konso, è quella di erigere wagas, statuette in legno che vengono intagliate in onore dei guerrieri deceduti. Il culto degli antenati sotto le effigi di totem ha infatti una straordinaria importanza, perché sono “qualcosa dei padri” che tramanda la vita e la storia personale di un grande defunto, eroe o uomo importante.

…e di pesce

Il viaggio era cominciato con un’inconsueta visita nell’area di Gambela, al confine sudoccidentale con il Sudan, dai cui territori limitrofi nuer e anuak sono da tempo giunti fino alle paludose pianure etiopi oltre il fiume Baro, diventandovi stanziali. Entrambe queste etnie sono dedite all’allevamento del bestiame, verso cui nutrono un attaccamento quasi viscerale: dopo averne accarezzato le corna, donne e ragazzi soffiano dentro la vagina delle mucche con forza, convinti che il latte esca più abbondante dalle loro mammelle. Il loro corpo statuario è coperto di cenere e urina di vacca, composto che allontana gli insetti malarici, e usano fumare particolari pipe con il fornello di creta e un lungo cannello di legno.
I nuer, che non di rado superano il metro e novanta di statura, praticano a 15 anni il rito d’iniziazione con una scarificazione su petto e fronte fatta di 5 o 6 profondi tagli orizzontali o leggermente a V. Durante la scarificazione, il ragazzo deve restare calmo per evitare uno scarto della lama e quindi una traccia malfatta, indice di vigliaccheria.
Dopo la visita al villaggio di Itang, attraversiamo i verdi altipiani della regione Kafa, tra piantagioni di te e caffè e villaggi guraghe con le case dalle facciate variopinte, per raggiungere Arba Minch e la zona dei dorze sui monti Guge. Le loro capanne sono veramente uniche: superano i 10 metri di altezza, con i tetti di forma conica che presentano una protuberanza sulla porta d’ingresso, simile a un grande naso. Le donne lavorano la foglia del falso banano ensete, sfibrandola e riducendola in polpa, che dopo la fermentazione viene spianata e cucinata, diventando kotcho, una specie di pane.
A Chencha il mercato settimanale dei dorze – avvolti nei tipici shamma candidi e intenti nelle loro compravendite o a sorseggiare tej, alcol ricavato dal miele distillato, o tella, birra ricavata artigianalmente da miglio o mais – richiede nuovi scatti fotografici di grande interesse.
Procedendo verso Addis Abeba, dopo una sosta al mercato del pesce di Awasa, per osservare da vicino i pescatori sidamo al rientro dalle battute di pesca nell’omonimo lago, mentre pellicani e marabù aspettano accorti di gustarne gli scarti, una deviazione programmata dal percorso di rientro fa gustare uno tra i panorami naturalistici più interessanti e insoliti dell’Etiopia, il Bale Mountains National Park. L’area è abitata da etnie oromo, principalmente agricoltori e allevatori di bestiame, famosi anche per le loro abilità equestri. Il Parco Nazionale dei Monti Bale, d’altitudine compresa tra i 1500 e i 4377 mt del Sanetti Plateau, è il più vasto habitat afro-alpino di tutto il continente, con numerose specie vegetali, tra cui la spettacolare lobelia gigante, e animali endemici dell’Etiopia, tra cui in particolare il nyala, il lupo etiope e uccelli come l’ibis e il corvo abissino.

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N O T A

Le mappe sono curate dall’università di Oxford, che ha creato un apposito sito, Mursi Online, per far conoscere l’etnia omonima e difendere la sua cultura.

Giuseppe Russo è un viaggiatore, fotografo, blogger e reporter con oltre 20 anni di esperienze e collaborazioni di viaggio per il mondo come tour leader. I suoi reportage sono pubblicati, oltre che su “Etnie”, anche sul suo blog Zoom, Andata & Ritorno.