In medio oriente nessuno vince mai una guerra, siano guerre simmetriche o asimmetriche, mai una vittoria definitiva, assoluta. Sia il Kippur, o lo Shatt el Arab, lo Yemen, la Siria o il Kurdistan. Mai una luce nel tunnel del conflitto tra Israele e Palestina che inizia nel lontano 1920, con la prima rivolta araba contro i sionisti e che vide ancora nel 2003, un inferocito Abu Mazen in una memorabile riunione alla Mukhata mandare a quel paese Yasser Arafat della “Intifada delle Stragi” urlandogli: “Sei l’unico al mondo che non sa vincere una guerra di liberazione!”. Destino gramo che oggi lo stesso Abu Mazen condivide con il defunto rais.
La risposta corrente a questa anomalia è banalmente condivisa: tutto ruota attorno alla forzatura dell’impianto di Israele in Palestina, al ritorno dopo 2000 anni di diaspora del popolo ebraico nel territorio tra il Giordano e il mare, al comprensibile rigetto arabo di un pezzo d’Europa, nel cuore dell’islam. Ma non è così. È una risposta falsa. Parziale. Meccanica. La riprova è semplice: non spiega perché ha sempre perso il “partito arabo-palestinese” disposto a chiudere una pace con Israele. Componente che ha avuto i suoi campioni negli Anni Venti nel re dell’Iraq Feisal al Hashemi e nel re di Transgiordania Abdullah al Hashemi, compagni d’arme di Lawrence d’Arabia, e successivamente nella potente famiglia palestinese dei Nashashibi, nel premier iracheno Nouri al Said, in re Hussein di Giordania e infine, addirittura, in Anwar el Sadat e Abu Mazen.
La ragione vera è spiazzante. Sideralmente estranea alla concezione della politica e quindi della guerra radicata in occidente. In estrema sintesi: l’Apocalisse. E non è uno scherzo. Apocalisse che rende urgente, subito, la costruzione dell’Uomo Nuovo coranico. Utopia condivisa. La peggiore, perché forgiata, per la prima volta nella modernità, nel corpo di una fede millenaria. Un Uomo Nuovo coranico che può maturare solo “con la morte dell’ultimo ebreo”. Di nuovo. E non è un caso. L’Apocalisse di cui la Nakba (la Catastrofe), ovvero la nascita di Israele nel 1948, è stato, appunto, il primo segno: l’Armaggedon, la battaglia nei pressi di Nazareth tra Gog e Magog (e, di nuovo, non è uno scherzo), come sostiene ad abundantiam Hamas e una diffusa pubblicistica araba.
Di incombenza dell’Apocalisse, hic et nunc, è intriso il lessico e il messaggio di Osama bin Laden e dei vari salafiti e jihadisti, discepoli di Sayyid Qutb. A essa bisogna rifarsi per comprendere la follia sanguinaria di Abu Bakr al Baghdadi e dei miliziani del suo Califfato dello Stato islamico. Di pulsione verso l’Apocalisse è impregnato tutto lo schema politico di Ruhollah Khomeini che pone la “fede nell’Ultimo Giorno” nel preambolo della sua Costituzione islamica.
Ma se questa è la partita, questo lo scenario, se il traguardo è l’Uomo Nuovo, sul corpo straziato e vinto della donna, dell’ebreo, dello Yazidi, e del cristiano, non ci sono mediazioni, compromessi o Westfalia1) possibili. Al massimo una Hudna, una tregua temporanea al più di 10 anni come prescrive il Canone coranico, prima che il jihad riprenda. Perché deve riprendere. Perché jihad non si traduce con guerra e neanche con guerra santa. Ma con l’ineffabile ciclopico sforzo salvifico per affrontare nella grazia di Allah il Giudizio dell’Ultimo Giorno. Spada alla mano.
La stessa dirigenza sionista di Israele ha impiegato quasi 70 anni per prendere atto di avere completamente travisato le motivazioni, la Weltanschauung dell’avversario arabo e palestinese. Convinta, come era per la sua formazione culturale europea, che il problema fosse il possesso della terra. Che il conflitto fosse tra due nazionalismi legittimi. Quindi è stata disposta per ben sei volte, nel 1936, nel 1938, nel 1948, nel 1967, nel 1979 e nel 2001, ad accettare o offrire un compromesso prima agli arabi e poi ai palestinesi, nella formula nota come “Pace contro Territori”.
Ma, prima il Gran Mufti alleato di Hitler, che eliminò prima dalla scena palestinese i Nashashibi e mandò a uccidere re Abdullah di Transgiordania, poi Nasser, infine Arafat e oggi Hamas, hanno sempre rifiutato ogni compromesso, mirando solo alla distruzione di Israele.

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E fu proprio la scelta della leadership israeliana – incredibile se vista con gli occhi di oggi – di appoggiare Hamas per contrastare l’Olp di Arafat, il punto di svolta di Israele, che tardivamente comprese che il conflitto in cui era impegnato da 70 anni era sì intriso di nazionalismo, ma che la sua ricomposizione era impossibile per ragioni teologiche. Millenaristiche. Ragioni che finiscono a impregnare di sé anche la tattica e la strategia militare palestinese e jihadista, a partire dalla recente pratica del martirio – incomprensibile senza un riferimento apocalittico cogente – per arrivare sino alle demenziali scelte militari di Hamas e di jihad islamica di questi giorni. “Appoggiare e favorire Hamas per anni è stato un errore fatale”. Questa frase di Yitzhak Rabin è dunque fondamentale oggi per capire il gorgo tra Israele e Hamas.
Nei fatti, per quasi un decennio tre premier, Menachem Begin, Itszaac Shamir e lo stesso Rabin, impregnati di logica politica europea, equivocarono a tal punto la natura e strategia di Hamas che ne favorirono il radicamento in Cisgiordania e a Gaza. La ragione dell’appoggio del governo di Gerusalemme a Hamas era iscritta tutta nella logica degli accordi di Camp David del 1979 tra Menachem Begin e Anwar al Sadat. Ipocritamente dimenticati dalla pubblicistica occidentale, quegli accordi chiudevano l’unica guerra araba condotta da Sadat non con il fine di “distruggere l’entità sionista”, ma di recuperare al territorio nazionale egiziano il Sinai, di definire uno status quo definitivo tra Israele e Egitto e di risolvere la questione palestinese escludendo i “terroristi dell’Olp”. Valutazione comune di Gerusalemme e del Cairo. La road map definita da Sadat e Begin nel 1979 non riguardava soltanto i rapporti tra di due stati, ma anche una soluzione saggia ed equilibrata – tutta “europea” – della questione dei Territori occupati da Israele nel 1967. Il baricentro era semplice e accorto: favorire la formazione di una classe dirigente palestinese attraverso un sempre più marcato esercizio di effettive autonomie amministrative locali suffragate dal voto popolare. Un “nation building” graduale. Obiettivo focale – e di interesse comune per Begin e Sadat – era di contrapporre alla Olp terrorista e sradicata dal territorio, una nuova generazione di rappresentanti palestinesi educati alla amministrazione delle città e dei villaggi. Una soluzione tutta dentro la “logica di Westfalia”, di solido compromesso, fatta fallire nel giro di tre anni dall’irrompere delle forze jihadiste e apocalittiche. In questa prospettiva, i governi israeliani del Likud e del Labour concessero appoggio pieno alle “Village Leagues”, nuove strutture di base palestinesi imperniate sulle moschee in cui egemoni erano i Fratelli musulmani (che daranno vita ad Hamas solo nel 1988). Il principio trainante era favorire il dispiegarsi del loro welfare islamico per un percorso armonico di miglioramento delle condizioni di vita dei Territori, gestito da una prima generazione di leader palestinesi non terroristi eletti a capo di strutture amministrative autonome.
Per comprendere questo fraintendimento pieno dei leader israeliani della natura di Hamas, che spiega perché ancora oggi, fuori Israele, molti non mettano bene a fuoco né Hamas, né la questione palestinese, si deve leggere la bellissima orazione funebre che nel 1956 Moshe Dayan dedicò al suo giovane amico Roy Rotenberg, rapito, torturato e ucciso da fedayn palestinesi di Gaza (vedi qui sotto). Parole intrise di omerica pietas, di intima comprensione delle ragioni del nemico “rinchiuso dentro i cancelli di Gaza”, che ancora una volta, inseriscono il conflitto in una drammatica questione di terra, di una patria ambita da due popoli in lotta feroce tra di loro. Questa è stata la percezione che Israele ha avuto sino agli anni Duemila. E questo spiega il “fatale errore” di Begin, Shamir e Rabin nei confronti di Hamas.
E che sia essenzialmente una tragica questione di terra è quanto credono tutt’oggi coloro (e penso agli amici Adriano Sofri e Gad Lerner) che non riescono a comprendere quello che Israele, seppure in ritardo, ha compreso. Ma non è così. Non è soltanto questo. È altro. E terribile. Un orrore che emerse alla luce proprio quando Anwar al Sadat nel 1981 pagò con la vita per avere abbandonato il rifiuto apocalittico di Israele e cercato il compromesso per l’Egitto e per il popolo palestinese. Quell’attentato, in cui fu coinvolto Ayman al Zawahiri, segnò l’inizio di al Qaida. Fu il punto di svolta mai ricordato in Europa e nemmeno dai tanti Amos Oz, Yehoshua e Grossman – le coscienze infelici di Israele – in cui fallì una straordinaria occasione di pace tra arabi ed ebrei che aveva però il torto di essere sottoscritta dalla destra nazionalista israeliana di Begin e dal “faraone” Sadat.
Il dramma, di cui oggi paghiamo tutti le conseguenze, è che quell’attentato e l’abbandono della logica europea di compromesso definita da Begin e Sadat, fu favorito da complici insospettabili. In primis la Lega araba che espulse l’Egitto per tradimento, ispirata da un Arafat che applaudì la morte del traditore Sadat. Ma una colpa enorme ebbe anche l’Europa che nel settembre del 1980, presidente il premier italiano Francesco Cossiga, con la dichiarazione di Venezia ruppe con gli Stati Uniti e con Israele e riconobbe di fatto l’Olp e Arafat come legittimi rappresentanti della Palestina.
Il Vecchio continente era affamato di petrolio (balzato a 100 dollari a causa della rivoluzione di Khomeini del 1979) e barattò il suo appoggio ad Arafat con la sua implicita opposizione al piano di pace Begin-Sadat. Scelta infausta che impose definitivamente la demenziale leadership di Arafat sulla questione palestinese con conseguenze devastanti: incluso il suo tentativo di impadronirsi del controllo del Libano nel 1982 e il suo appoggio all’annessione del Kuwait tentata da Saddam Hussein nel 1990. Il “rifiuto arabo di Israele” (con buona pace di Maxime Rodinson e Sergio Romano) è in realtà irrisolvibile, dal lato palestinese, essenzialmente a causa di un apriori teologico e apocalittico, incarnato già dal Gran Mufti (ma da lui non strutturato, a causa della sua crassa ignoranza) perfettamente enucleati dallo Statuto di Hamas: “Hamas crede che la terra di Palestina sia un sacro deposito (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell’islam sino al giorno del giudizio.
Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio? Questa è la regola nella sharia, e la stessa regola si applica a ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza, perché al tempo della conquista i musulmani la hanno consacrata per tutte le generazioni dell’islam fino al giorno del giudizio”.
“Dobbiamo instillare nelle menti di generazioni di musulmani l’idea che la causa palestinese è una causa religiosa, e deve essere affrontata su queste basi. La Palestina include santuari islamici come la moschea di al Aqsa, che è collegata alla Santa Moschea della Mecca da un legame che rimarrà inseparabile fino a quando i Cieli e la Terra non passeranno, dal viaggio del Messaggero di Allah fino alla stessa moschea di al Aqsa, e alla sua ascensione da essa”.
In questa concezione apocalittica, netta e inequivocabile è la posizione e il destino degli ebrei – non degli israeliani! degli ebrei – secondo un hadith riportato da al Bukhari el Muslim, i più autorevoli raccoglitori dei “Detti” del Profeta non contenuti nel Corano, baricentro dello Statuto di Hamas: “Il Profeta dichiarò: ‘L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo; ma l’albero di Gharqad non lo dirà, perché è l’albero degli ebrei’”. Scritto dallo sheik Yassin nel 1988 questo Statuto è tanto noto, quanto considerato poco più che folclore macabro da dotti analisti e dalle cancellerie europee. Un pleonasma retorico.
Sorte non dissimile da quella che ebbe il Mein Kampf nel 1938 di Monaco. Questo dettato apocalittico è invece la radice vera e insuperabile del rifiuto arabo di Israele, che si manifestò in nuce – ma nemmeno i sionisti la compresero – sin dal 1920, con la leadership del Gran Mufti di Gerusalemme. In piena, totale sintonia apocalittica col suo prezioso e ammirato alleato, quell’Adolf Hitler che lo ospitò a Berlino, non per comune convenienza strategica anti inglese, come sostiene Sergio Romano, ma per “la profonda condivisione delle nostre prospettive e strategie, inclusa la soluzione del problema ebraico”, come declamò lo stesso Gran Mufti.
Solo se si guarda a questo nodo non negoziabile e teologico, si comprende la follia di una posizione araba che ha sempre rifiutato ogni spartizione binazionale del mandato britannico sulla Palestina, dalla Commissione Peel, al Libro Bianco, alla risoluzione Onu del 1947. Solo se si legge lo Statuto di Hamas si comprende l’apparente mistero della sciagurata leadership di Yasser Arafat che univa nella sua stessa persona – con genialità maligna – l’ispirazione nazionalista e la disponibilità al compromesso sulla terra che oggi è incarnata da Abu Mazen, con il rifiuto massimalistico e teologico di Hamas. Sino alla follia del rifiuto degli accordi di Taba del gennaio 2001 con i quali Ehud Barak premier gli riconsegnava il 95 per cento dei Territori. Infine, ma non per ultimo, solo se si intende la pregnanza di un mandato apocalittico pregnante – qui e ora – si comprende la perversa santificazione araba del martirio, così come la ferocia dell’unico movimento di liberazione al mondo che nasconde le proprie batterie di missili dentro o accanto a moschee, scuole e ospedali.
Una verità così complessa, contorta e inquietante che lo stesso Israele ha faticato a metterla a fuoco. Non prima della Intifada delle Stragi iniziata nel 2001.
Ma sbaglia chi pensa che tutto questo riguardi solo lo specifico della Palestina, di Gaza e di Hamas. In realtà, i 4-5 milioni di musulmani uccisi da musulmani negli ultimi 50 anni – un numero di vittime comparabile con la Prima guerra mondiale – sono vittime di un meccanismo similare. Lo sono le migliaia di sciiti massacrati dai sunniti in Iraq, Pakistan e Afghanistan, e viceversa. Così come lo sono le 18 mila vittime degli ultimi tre anni di attentati di kamikaze. Tutti musulmani uccisi da musulmani.
Con le due fasi della decolonizzazione (la prima, dai turchi, iniziata nel 1918, la seconda dagli europei, consolidata negli anni 50), si è dimostrato che ogni conflitto in terra d’islam non puó essere ricomposto in un alveo politico, secondo lo schema di Westfalia. A partire dai massacri di centinaia di migliaia di morti innescati dalla divisione dell’India e del Pakistan del 1948, per arrivare – per via breve – sino ai Boko Haram e alle stragi di cristiani e Yazidi dei miliziani del Califfato di Mosul di oggi, si è verificato che le tante, ovvie, comuni, tensioni razziali, etniche, tribali o religiose che coinvolgono i popoli musulmani, vengono prima enfatizzate, poi cronicizzate dalla concezione islamista della storia così ben sintetizzata nello Statuto di Hamas. Ogni guerra per la “terra” diventa guerra per la “vera fede” e per il suo trionfo nell’Ultimo Giorno. Nel nome di una Apocalisse non più solo immanente, ma imminente.
Domani…

1) La Pace di Vestfalia (1648) sancì i moderni princìpi di sovranità, rispetto dei diritti territoriali e non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani [NdR].
Da “Il foglio”, 12-08-2014