Dopo secoli di vessazioni, con l’esproprio legale ed illegale delle terre in cui vivono, si sta ultimando il processo distruttivo della cultura, della storia e della dignità delle popolazioni tribali dell’ex Pakistan orientale.

In Bangladesh, oltre che il Chittagong Hill Tracts, verso il confine con la Bir­mania, anche il Nord e il Nord-est del paese è abitato da popolazioni tribali. Sono sparse nei distretti di Mymensing, Sylhet, Rajshahi, Dinajpur, Rangpur. La totale popolazione triba­le è di due milioni. A differenza delle popolazioni del Chittagong Hill Tracts, le etnie tribali del resto del pae­se non sono concentrate in un’area specifica, ma in piccoli villaggi sparsi tra la stragrande maggioranza benga­lese che è di novanta milioni.
Queste etnie tribali appartengono a venti differenti gruppi: Santal, Oraon, Mandi, Munda, Paharia, Mahali ecc. Essi si stabilirono qui da tempi imme­morabili; di certo c’erano prima della invasione ariana del II millennio a.C. La loro localizzazione attuale risale a prima che fossero fissati i confini del subcontinente indiano. I tribali abita­vano in luoghi isolati e la foresta era la loro casa: in questo modo evitarono l’assimilazione ariana e mantennero per millenni la loro identità etnica. Trovarono la loro unità non vivendo dentro confini ben stabiliti, ma rima­nendo continuamente leali ai loro co­stumi, alle tradizioni, alla lingua e alla cultura.
Vediamo cosa è capitato a questi po­poli nel corso della recente storia e quali problemi devono fronteggiare oggi.
Nel 1793 i colonizzatori britannici in­trodussero il sistema Zemindar (pro­prietari terrieri a cui era dato in appal­to il ruolo di esattori, allo scopo di ri­scuotere in modo minuzioso le tasse fondiarie). Costoro rovesciarono l’au­togoverno dei villaggi, sia tribali che non, e ne abolirono l’autonomia.
Per la prima volta nella loro storia i tribali ebbero a sottostare a un estra­neo (Deko) e a pagargli le tasse, il che nel sistema Zemindar significava inci­tamento allo strozzinaggio. Le troppe interferenze nel loro sistema di vita condussero a grosse e ripetute rivolte tribali in Choto Nagpur, a Bihar, nel 1811, 1820, 1822 e 1855-57. Il proble­ma fondamentale era l’intollerabile in­terferenza nelle aree, nella vita sociale, culturale ed economica delle tribù.
Più specificamente, si trattava della questione del possesso della terra. L’inglese ragionava in termini di pos­sesso personale, catastale, della terra.
I tribali, invece, hanno sempre pensa­to che il territorio appartenga all’etnia e che la terra di un determinato villag­gio appartenga al clan fondatore: la pietra tombale del capoclan ne è la prova irrefutabile (Oraon), l’inconte­stata tradizione orale ne è il documen­to “legale” (Santal).
Nel Bengala la grande maggioranza hìndu e musulmana sotto il coloniali­smo inglese trasse profitto dall’educa­zione scolastica, dalla partecipazione all’esercito, al commercio, alla buro­crazia e, pur contrastata, alla politica. Dal 1920 al 1947, nel periodo preindi­pendenza, quando hindu e musulmani si preparavano a dividere l’india bri­tannica, i tribali si trovarono impreparati a reclamare una patria dove la lo­ro identità potesse essere preservata. Furono totalmente ignorati e la deli­mitazione dei confini tra India e Paki­stan tagliò fuori i tribali del Pakistan dell’Est, ora Bangladesh, dal grosso delle loro tribù rimaste in India. Le comunicazioni furono ridotte, le piccole etnie ebbero problemi per il matrimo­nio esogamico.
Quando il sistema Zemindar fu aboli­to, musulmani e hindu furono pronti a mantenere il possesso della terra in lo­ro mano attraverso documenti legali. La cosa era perfettamente estranea al­la mentalità tribale, per cui il possesso o meglio l’uso della terra da parte del clan e la tradizione orale sono gli unici strumenti validi per usufruirne. Que­sta mentalità non di “possesso” ma di “uso” della terra resiste nel sottobo­sco mentale delle etnie tribali anche ai nostri giorni. Il risultato fu che essi non ebbero una patria propria e in In­dia e nel Pakistan pochissima terra.
A tutt’oggi la mancanza di documenti catastali è origine di infinite dispute le­gali: in ogni piccolo villaggio tribale di 15-30 famiglie ci sono tre-quattro pro­cessi in corso per il possesso della ter­ra. La maggioranza più scaltra ha fat­to buon gioco della “ingenuità” dei tribali, si è procurata documenti legali della terra occupata da tempo imme­morabile dai tribali, li dissangua eco­nomicamente in estenuanti incom­prensibili cause processuali, usa a pro­prio profitto la forza del numero e il fanatismo religioso.
In più, per il tribale, la terra serve solo in quanto sostiene la vita, la pace, il godimento: tutta la natura è gratifi­cante e vista con riconoscenza religio­sa; non ha un valore commerciale, come non ce l’hanno il vento, il sole, la pioggia. Ma il valore commerciale lo ha ben compreso il Bengalese.
Il risultato è che queste etnie tribali, per cultura legate alla terra, alla natu­ra, alla foresta, sono ora per l’84% dei senzaterra. Si deve rendere testimo­nianza che il governo coloniale ingle­se, dopo le ripetute rivolte tribali, ave­va iniziato a capire qualcosa del loro modo di possesso, o meglio di uso del­la terra, e della “ingenuità” tribale verso gli imbrogli senza coscienza gio­cati loro dagli Zemindar, commercian­ti e usurai che invadono le terre e la vi­ta tribale. Il governo inglese introdus­se speciali leggi protettive (Choto Nagpur Tenancy Act, 1908) il cui scopo era di tenere i non-tribali lontani dalle terre tribali. Veniva loro proibito di comperare e di insediarsi nelle terre tribali.
Questa legge è tuttora valida in Ban­gladesh perché fu incorporata nell’ “East Bengal Acquisition and Tenan­cy Act” del 1950, che vige tuttora. Ma essa fu glossata dalla piccola clausola n. 97, la quale dice che il deputy commissioner, cioè il capodistretto, per una motivazione grave può concedere il permesso di vendita. L’eccezione fu applicata come regola. Nei momenti di crisi economica e politica la terra fu sottratta da sotto i piedi dei tribali in modo apparentemente legale, ma in realtà illegalmente, contro lo spirito della speciale leggé protettiva.
Dopo la divisione del subcontinente tra India e Pakistan, durante venticin­que anni di notoria animosità tra i due Stati, per ben tre volte ci furono crisi politiche, con le guerre e i disordini settari del 1947, 1965, 1971. Nono­stante i tribali non parteggiassero né per l’india né per il Pakistan, ma ri­manessero leali solo a se stessi, al loro modo di vivere, alla loro sopravviven­za etnica, tuttavia ne fecero le spese. Per ben tre volte furono sradicati dalla loro terra dal fanatismo politico­religioso, furono resi profughi oltre confine.
Nella seconda guerra indo-pakistana (1965), quando ritornarono, non solo non trovarono casa, utensili, luoghi sacri, bestiame, ma non trovarono neppure la terra perché il governo pakistano dichiarò per legge “enemy property” (proprietà del nemico) la terra dei profughi. Entro un anno la gente ritornò alla propria terra d’origi­ne e si ebbe la grottesca situazione di uno Stato che chiamò i suoi stessi cit­tadini nemici e li rimpatriò, deruban­doli però della terra.
Il governo pakistano usò anche il cen­simento per eliminare il problema tri­bale: infatti registrò il 30% di tribali in meno della realtà nel distretto di Dinajpur e Rangpur. Come dire: sono pochi, non c’è problema.
Durante la guerra di liberazione, da cui il Bangladesh uscì come una nazio­ne indipendente dal colonialismo economico-burocratico del Pakistan dell’Ovest (1971), i tribali parteciparo­no alla lotta e poi alla ricostruzione del paese sentendosi per la prima volta compartecipi delle speranze rivoluzio­narie di acquisizione dei diritti di citta­dini secondo i quattro princìpi: secola­rismo, nazionalismo, democrazia, so­cialismo. Ma subito dovettero appren­dere che questi princìpi non si applica­vano a loro ma solo alla maggioranza bengalese.
– La distribuzione delle terre non pote­va mai essere a favore di tribù margi­nali.
– I Bengalesi che avevano occupato le terre tribali con inganno, corruzione o pura forza brutale non erano fatti sloggiare dalla burocrazia, fatta tutta di Bengalesi.
– La speciale legge protettiva delle ter­re tribali fu onorata sul versante dell’eccezione secondo la clausola n. 97.
Non sono solo le leggi applicate ille­galmente a distruggere economica­mente le etnie tribali, ma forse è più ancora la pratica burocratica avallata silenziosamente dalle agenzie governative, dalla polizia, dalla prevenzione culturale, dalla maggioranza che con stillicidio continuo ritaglia la vita dei tribali, invadendo i confini dei loro villaggi e il loro modo di concepire la vita. Si hanno assalti notturni nei vil­laggi, pestaggi gratuiti nelle contese; Mongol Hembron (1978) fu ucciso a bastonate dalla polizia di villaggio per ordine di un assessore comunale; Matias Murmux (1984) morì mentre era in custodia della polizia; si hanno episodi di violenza carnale ai danni delle lavo­ratrici agricole tribali; nessuna azione legale viene intrapresa in tutti questi e in altri casi.
Il miglior commento alla situazione politico-sociale in cui devono vivere i tribali del Bangladesh è la decisione presa dal capo distrettuale di Dinajpur al riguardo di una terra occupata da più di un secolo dai tribali, ma che, ve­nendo a trovarsi al limite della città, ha acquistato improvvisamente un al­to valore economico. Tipico pure l’utilizzo del risvolto religioso-culturale della faccenda: “Lo stabilirsi di non-muslin può offendere i sentimenti dei pellegrini di Cihihilgazi Mazar; questo è un luogo venerato dai musul­mani bengalesi ed è lontano oltre 4 chilometri dal villaggio in questione”. Nel distretto di Dinajpur i tribali ri­vendicano il possesso di 16.000 acri di terra. Di essi 2.331 acri sono ipotecati nelle mani di usurai; 816 acri sono sta­ti dichiarati “proprietà del nemico” nel 1965; 1.054 acri sono occupati dai tribali, ma di essi non ricevettero do­cumenti legali; 2.000 acri, nonostante la protezione del Choto Nagpur Tenancy Act, sono stati venduti ai non tribali in soli otto anni, dal 1971 al 1979; 1.229 acri sono contesi in tribu­nale.
Se questo è permesso che continui, si può prevedere per quanto tempo an­cora queste etnie potranno sussistere e mantenere la loro identità etnico- culturale. In poche decine di anni lo scopo di questo processo distruttivo raggiungerà il suo fine ovvio: ridurre i tribali a un gruppo marginale senza terra; distruggere i confini dei loro vil­laggi e della loro cultura e fagocitarli. Allora lo Stato ai troverà tra le mani un pugno di insignificanti asociali, tossicodipendenti della misericordia pubblica mondiale.
Se ci siamo fermati quasi con esclusiva attenzione alla questione della terra parlando delle tribù del Nord Bangla­desh, è perché essa è fondamentale per la loro sopravvivenza etnico-culturale. Il loro attaccamento al luogo e alla na­tura che li nutre non è tanto economi­co quanto spirituale e investe la totali­tà del loro esistere. Perdendo la terra essi non diventano proletariato, con la sua dignità, ma asociali in piena deca­denza fisico-culturale, condannati alla prostituzione e alla mendicità; loro che mai stesero la mano ad un uomo, ma solo alla natura benefica.
La loro memoria storica e mitologica, che li fa popolo, è strettamente legata alla terra.
Nel caso dei tribali del Nord Bangla­desh, se non si previene l’intrusione della maggioranza nei limiti del villag­gio tribale, essi non possono psicologi­camente tollerare questa invasione quotidiana nella loro cultura, nel loro modo di concepire la vita, la società, i rapporti economici, le celebrazioni dei riti di passaggio, le feste stagionali.

Quali prospettive per il futuro?

Il processo in corso purtroppo conti­nuerà, perché sia il governo pakistano sia quello bengalese hanno sempre mostrato di volere l’assimilazione dei tribali. Lo ha detto chiaramente il pre­sidente Abdus Sattar in risposta alle quindici richieste presentate dai tribali di tutto il Bangladesh nel loro primo raduno nazionale, in cui la “questione terra” figurava al primo posto: “In Bangladesh non ci sono né maggioran­ze né minoranze; voi assimilatevi alla corrente principale del paese.”
Le etnie tribali hanno capito che la lo­ro sopravvivenza dipende da una dura lotta portata avanti da loro stesse. Hanno unificato i loro sforzi in una associazione di carattere nazionale: “Bangladesh Tribal Welfare Association”.
Ma in tutto il paese è necessario un ra­dicale cambiamento perché si com­prenda che la tutela delle minoranze tribali avviene attraverso l’autonomo sviluppo delle culture “diverse” me­diante una tutela attiva.
A questo scopo tutti gli uomini che amano la libertà e la giustizia devono farsi sentire in nome delle minoranze oppresse e cooperare sempre più larga­mente a quelle istituzioni tipo Survival International, Minority Rights Group eccetera, che più acutamente sono coscien­ti del problema.
Solo l’attenzione dell’opinione pubbli­ca mondiale e l’azione pratica e politi­ca, là dove è possibile, potranno salva­re le etnie tribali di tutto il mondo dal rischio di essere le ultime della storia e di far perdere all’umanità indicazioni utili per svolte culturali alternative in questo momento storico in cui la “ci­viltà” sembra vada verso l’autodistru­zione.

Pubblicato nel 1984 su:

etnie-8-copertina