heiva 2019 settima serata
Manuela Macori con Clara Demaria, ballerina di prima fila del gruppo O Tahiti E.

O Tahiti E

Te aho nūnui
Il soffio della vita

O Tahiti E, storico gruppo, fondato nel 1986 da Marguerite Lai, legata da sempre alla cultura polinesiana come la sua compagna, fotografa e regista. Lo spettacolo ha avuto luogo da solo, il 15 luglio, in una spettacolare serata di luna piena. Marguerite, che ha annunciato il suo addio alle scene, ha avuto grazie alla pioggia una serata tutta per lei. Nel gruppo, in prima fila Clara Demaria, che ha iniziato a ballare in Italia nella scuola di ‘ori Mana Tahiti e da quando vive a Pape’ete si è perfezionata ed è alla sua terza Heiva.
Il tema trattato è fondamentale per l’essere umano: il soffio vitale, dalla fine dell’esistenza umana al suo re-inizio.
Sul letto di morte Moeho Vahine designa la nipote Terita a ricevere il suo ultimo fiato e con esso tutto il suo sapere. La piccola dovrà posare le sue labbra su quelle della nonna per respirare il suo hā, ultimo respiro, durante la cerimonia del ‘aepau. Lo aho nūnui, il grande soffio trasmesso senza interruzione da centinaia di anni, viene arricchito in ogni generazione.
Terita aveva la fortuna di essere in vita, non era stata strangolata come i suoi fratelli maggiori, esigenza del rango al quale apparteneva. Sua madre aveva ottenuto il diritto di tenerla, anche se era una bambina. Alla nascita il padre aveva soffiato nelle narici della neonata il aho ora, soffio di vita. Era appassionata di heiva, celebrazioni di danza: insieme agli altri giovani si rifugiava nel fondo delle vallate per praticarle, lontano dagli sguardi indiscreti delle autorità. Le sue preferite erano le ‘upa’upa che quella sera si tenevano sul promontorio di Fa’aroa vicino al fiume, in un luogo buio, appena illuminato dai rami di nī’au (torce di palma di cocco). Petali di tiare (Gardenia tahitiensis) erano stati sparsi sui pe’ue, stuoie, le hue, zucche, riempite di ‘ava, bevanda allucinogena. Con la corona di maire, felci, intorno alla testa Terita sogna la nonna Moeho Vahine; si alza e danza il suo ‘ūtē, ballo, destinato ai taure’are’a, giovani uomini alla ricerca di una pāhi’o, ragazza. Il pātautau, filastrocca cantata, segna la fine del ‘ute, per tramutarsi nel frenetico ritmo delle ‘upa’upa, danze sessuali. Alla frenesia segue la tenerezza, l’oscurità avvolge i corpi allungati, un uomo, una donna, si sente una voce maschile gemere, in risposta una più dolce nascosta sotto il tīfaifai, coperta ricamata; sembra che movimenti e sospiri riprendano il ritmo del pātautau. Quella notte Terita diventò donna.
Al risveglio tutti fanno il bagno nell’acqua fresca del fiume, nessuno allude a quanto accaduto, tutti avevano acquisito il vaha rua, il doppio linguaggio da quando erano stati proibiti gli ‘ūtē, canti, i pātautau, filastrocche cantate, i pahu, tamburi, il vivo, flauto nasale, i pareu, il maro, astuccio penico, e i tatuaggi. La giovane Terita ricompare solo al momento della preghiera prima del pranzo, usanza imprescindibile in Polinesia, vestita col mūmū, il lungo abito bianco a maniche lughe della domenica, che copre il corpo dalla testa ai piedi malgrado il caldo, che aveva rimpiazzato il pareo giudicato sconveniente. I ragazzi indossano un lungo pareo che li copre fino alle caviglie con una camicia bianca a maniche lunghe.
Tapoa, il padre di Terita, aveva due case, una accanto all’altra. Una era un fare tradizionale dove la famiglia dormiva, solida ossatura in bambù con tetto rivestito di foglie di palma da cocco intrecciate; all’interno solo una stuoia, un tīfaifai e un rotolo di pandano seccato. Le pareti vegetali lasciavano passare il vento, dando una piacevole sensazione di freschezza. Era stata costruita da un tahu’a fare, esperto di case. L’altra era una casa moderna con le mura di legno importato, coperta da lamiera metallica che diventava incandescente sotto i raggi del sole. Era stata costruita da un papa’ā, straniero, la tempesta l’aveva fatta uscire dai suoi pilastri, da allora pendeva, inutile tentare di raddrizzarla. La nonna non aveva mai voluto entrarci.
Terita mette al mondo suo figlio nel fare rau maire, appositamente costruito con la sua copertura di felci, vuole che abbia nome Raea, come il suo illustre antenato. Il tahu’a, sacerdote, dopo aver recitato la genealogia, nella cerimonia della topara’a i’oa, trasmissione del nome, solleva il neonato per mostrarlo a tutti, lo avvolge nella morbida tapa, tessuto vegetale, e lo affida a una donna affinché sia portato nel fare hu’a, la casa del bambino. Cordone ombelicale e placenta vengono interrati e sopra viene piantata una pianta di ‘uru, albero del pane, che sarà l’essenza della vita del nuovo nato.
Il lutto è un gioco terrificante che inizia con gemiti di dolore del parto e termina con l’agonia della morte. Te aho ora, il soffio che dà la vita, diventa te ‘aepau, l’esalazione dell’ultimo respiro. È il ciclo infinito della vita e della morte.
Spettacolo sensazionale. La capogruppo Marguerite Lai ha annunciato questo come suo ultimo spettacolo, nel quale ha messo tutto il suo sapere.
Lei stessa ha impersonato la nonna nella scena della morte, un letto al centro della scena, i ballerini intorno in piedi, silenziosi nell’oscurità mentre tre donne le fanno vento. Dopo aver chiamato la nipote per raccogliere il suo ultimo respiro, facendola diventare ‘atitipau, colei che ha ricevuto il sapere, la sua anima prende il volo aiutata dal tahua, grande sacerdote, che posa dei raineatua, fiori della palma da cocco, e delle ‘a’ai rau mei’a, nervature di foglia di banano, sotto le braccia della defunta in segno di compassione da parte dei defunti della sua famiglia, nominandoli uno per uno:
Teie tō metua tāne, teie tō metua vahine, teie tō hoa tāne, teie tā ‘oe tamahine, teie tā ‘oe feti’i.
A huri tō mata i te pō. ‘Eiaha e fāriu tō mata i te ao nei.
Ecco tuo padre, ecco tua madre, ecco il tuo sposo, ecco tua figlia, ecco la tua famiglia.
Rivolgi il tuo sguardo alla notte. Non guardare il giorno.
L’anima si alza e percorre il sentiero che le è stato preparato, sempre dal tahua, delimitato da foglie di autī, per aiutarla verso il promontorio a ovest, dal quale le anime spiccano il volo per il rohotu no’ano’a, il paradiso profumato. Il grande sacerdote recita la ‘upu tuihana, preghiera dei morti, e lo hoho atua, l’appello agli dèi, così scaccia gli spiriti maligni che si aggiravano tra i presenti per tormentarli. Ottimo presagio per l’avvenire della giovane Terita.

 


La parte che vede la giovane Terita ragazza è molto sensuale, per parole e movimenti, in particolar modo nel pā’ō’ā e nel hivināu.
Mi racconta John Mairai, esperto della cultura polinesiana, di aver saputo da Bimbo (nome d’arte di Moeterauri Tetua, musicista e pugile, adottato dalla regina Teri’imaevarua Pomare di Bora Bora che viveva ad Arue, sull’isola di Tahiti, nato nel 1916 e cresciuto secondo le migliori tradizioni delle isole) cosa fosse realmente il pā’ō’ā: veniva costruito un piccolo fare, casa, con elementi vegetali, all’interno del quale la giovane coppia reale, controllata dal sacerdote, anche lui nella capanna, si accoppiava per procreare il successore. Gli abitanti del villaggio assistevano intorno seduti a terra, mentre il sacerdote di tanto in tanto gridava qualcosa per far sapere a che punto fosse l’atto. L’eccitazione si propagava e non era raro che le giovani coppie si eclissassero per copulare sdraiate nella natura rigogliosa. Quando Bimbo ebbe il suo primo figlio, la regina andò da lui, lo trovò col frugoletto in braccio e gli chiese: “È tuo questo pā’ō’ā?” Per far capire l’importanza di questa cerimonia.
Non è da meno lo hīvinau, anche grazie al suo abile conduttore. Il gruppo è stato premiato per il migliore pā’ō’ā e hivināu, grazie alla grande autenticità con cui è stato interpretato.

 

 


La simbologia continua, dopo la notte d’amore Terita ricompare vestita col mūmū, mentre raccoglie le corone di felci in un pareo; ma chiamata dai ragazzi, indossa la cintura vegetale sopra il lungo abito bianco: la cultura polinesiana non si è fatta sopraffare da quella europea, è rimasta sempre nascostamente viva. Il canto che accompagna questa danza lo sottolinea ed esorta a restare ben attaccati alle proprie tradizioni, senza farsi influenzare.
Questa ‘aparima ha avuto il premio come migliore della Heiva I Tahiti 2019.

 


La notte d’amore ha le sue conseguenze: dopo qualche mese Terita mette al mondo un bel bambino, nel tradizionale fare appositamente costruito; prima che venga mostrato, il tahua, grande sacerdote, pronuncia le parole:
Te fāura mai ra te autua! La divinità sta per apparire!
Seguite dalla recita della genealogia:
O Hitinui nō Maherehonae i Ruarei, a moe i te vahine nō Tepaeti’a, ia Vahine’ura, i raro ia Marere nō To’a, fānau a’e ra tā rāua o Raea, te ‘aito nui i huri ta’ere i te hau mate o  Mo’orere nō Tae’o’o, ora atu ra te pu’e fēti’i  nō te ‘ati Manuhiva. Nō reira mai ho’i o Moheo Vahine, te tupuna vahine ia Terita. Nō reira te topa nei au i teie tama i te ioa o Raea i raro ia Hitinui.
Hitinui del paese chiamato Maherehonae, dal luogo di culto Ruarei, prese in sposa una donna dei Tepaeti’a chiamata Vahine’ura, che aveva come antenato Marere del paese dei To’a, misero al mondo Raea il grande guerriero che mise fine al terribile regno di Moorere dei Tae’o’o, salvando tutta la sua famiglia appartenente al lignaggio dei Manuhiva. Moheo Vahine discende da questa famiglia. Per questo do nome Raea a questo bambino, Raea della discendenza di Hitinui.
Secondo la tradizione polinesiana, interra il cordone ombelicale del neonato per piantarvi sopra la pianta di ‘uru, albero del pane, che rappresenta l’essenza di vita del bambino.
Il gran costume, con copricapo di fattura ricercata, evidenzia le danze che hanno luogo per i festeggiare la nascita.
Marguerite Lai è stata celebrata non solo per la vincita con questo spettacolo, ma per tutta la sua mirabile carriera.