Vivono nell’isola di Sumatra e hanno un passato di antropofagi. Descritti come “ferocissimi” dai primi esploratori, oggi affidano al turismo le loro ultime speranze di sopravvivenza culturale.

Alla fine dell’Ottocento, la zona circostante il lago Toba (centro-nord di Sumatra) non era stata ancora conquistata dagli Olandesi che ormai da anni, con la loro Compagnia delle Indie Orientali, detenevano il monopolio sull’Arcipelago Indonesiano. Chi resisteva così strenuamente ai colonizzatori era il popolo dei Batak (1). Elio Modigliani, geografo ed esploratore italiano, in quell’epoca, dopo aver soggiornato a lungo nell’isola di Nias, cercò e in parte riuscì ad avvicinare e a studiare la tribù dei Toba  Batak che viveva circondata da un’aura di mistero; si favoleggiava, infatti, che essi vincessero le battaglie grazie a strani poteri magici e che fossero antropofagi. In effetti i Toba, oltre a possedere una specie di calendario astrologico con il quale facevano pronostici, attribuivano al loro re chiamato Singamangaraja poteri soprannaturali. Egli era un Re-Dio, e come tale viveva circondato dal rituale e dalla magia. In quanto all’antropofagia, essi la praticavano ritualmente sia a spese dei nemici uccisi, sia di chi aveva infranto le regole del gruppo (omicidi, furti ecc.) Ovviamente ciò non dipendeva da una supposta crudeltà ma da complesse credenze; si trattava infatti di un rito sia politico che religioso: uccidendo semplicemente il corpo, questo, abbandonato all’ordine biologico della putrefazione, sarebbe sfuggito all’ordine sociale del gruppo perseguitandolo in veste di fantasma; divorandolo, invece, il suo potere neutralizzato si sarebbe anzi convertito in una forma di riconferma dell’unità e della forza della tribù (2).

Se da una parte i Batak non erano crudeli, dall’altra non potevano incarnare il mito del “Buon selvaggio”, sia perché erano piuttosto bellicosi tra loro e con le tribù limitrofe (tanto che i loro villaggi erano fortificati), sia perché conoscevano l’uso della scrittura. Scrive dunque Elio Modigliani: “I Batacchi possiedono una lingua scritta ed una letteratura. Ho veduto uno dei loro libri… conteneva istruzioni per i raccolti, scongiuri contro la pioggia e contro i nemici, regole circa il modo di attaccare il nemico ed espugnare i villaggi ed il tutto era illustrato da vignette a vivi colori ed era scritto su strisce di una larga foglia.” (3)

I Batak, probabilmente, appresero la scrittura grazie all’influenza induista −  i caratteri grafici sono simili − che si estese a Sumatra già dal VII secolo. Tale influenza è tuttora riscontrabile nel culto tributato al bufalo, le cui corna ornano spesso la sommità delle case. Attualmente questa popolazione, sconfitta dagli Olandesi nel 1907 e convertita alla religione cristiano-protestante, ha subito profonde modificazioni, anche se non tutto di essa è sparito. Spesso infatti le popolazioni dell’Indonesia, nonostante le varie influenze e conversioni all’islamismo dominante o al cristianesimo, sono riuscite a conservare buona parte delle loro usanze e a realizzare interessanti forme di sincretismo religioso: i Batak, ad esempio, parallelamente alla frequenza assidua alla chiesa protestante, realizzano feste funebri (riti di passaggio cui partecipa tutta la comunità) rimaste pressoché inalterate nei secoli. Ancora oggi, i Toba non possiedono cimiteri e costruiscono sepolcri immersi nel paesaggio che, riproducendo in modo “naif” le sembianze del morto o la tipologia delle loro abitazioni, riecheggiano gli antichi sarcofaghi di pietra.

Purtroppo i villaggi, oltre a non essere più fortificati, hanno perso quasi totalmente il senso della loro disposizione spaziale; anticamente le case erano poste una di fianco all’altra, mentre di fronte ad esse si trovavano edifici, detti sopo, che fungevano nel contempo da luoghi di ritrovo, depositi per il riso e casa per gli ospiti. Ora rimangono solo alcune case intatte mentre altre sono già state in parte rovinate dai tetti in lamiera, materiale che viene preferito in quanto richiede una minore manutenzione rispetto alle antiche foglie di palma. Comunque i Toba Batak, grazie, in parte, all’interesse che il turismo sta loro tributando, comprendono sempre più l’importanza o, se si vuole, il valore della loro antica cultura: le tombe ed alcune sculture rituali sono ben tenute (c’è anche un guardiano addetto al controllo e alla pulizia di queste opere, e ciò non è certo dovuto all’interessamento del governo indonesiano!), le case tradizionali, anche se disabitate, non vengono distrutte quanto piuttosto affittate ai turisti. È infatti un luogo comune pensare che sempre il turismo è dannoso alla conservazione di queste culture e che laddove esso non arriva tutto rimane intatto… In linea di massima i turisti sono spesso gli ultimi ad arrivare: molto prima, in genere, arriva la “civiltà” con le sue merci, le sue strade, il suo apparato ideologico ed educativo. Certo, non sono stati i turisti a far perdere ai Batak la conoscenza della loro antica scrittura, quanto piuttosto la diffusa scolarizzazione e gli scambi con gli altri popoli di Sumatra. In effetti, il contatto con la nuova realtà sociale del Paese, facendo crollare la loro economia e creando nuovi bisogni, ha progressivamente determinato il declino di parecchi villaggi. Si stanno quindi lentamente spopolando i luoghi al contempo più poveri e più lontani dalle vie di comunicazione, come ad esempio sta accadendo a molti villaggi Karo.

Il governo indonesiano, oltre a non far nulla per queste popolazioni, sembra incoraggiare l’esodo verso le città. Città che li accoglieranno facendoli spesso sprofondare nella più totale miseria. Situazione questa che tenderanno spesso a sfuggire spostandosi da un luogo all’altro dell’arcipelago indonesiano in cerca di fortuna. In questo modo essi verranno sempre più a perdere le loro radici religiose e culturali.

 

Note

(1) Non si può parlare propriamente di tribù in quanto esistono differenze sia culturali che linguistiche tra i vari gruppi Batak. Al gruppo del nord appartengono i Dairi, i Pak-pak e i Karo che abitano il territorio attorno al monte Sinabung, detto il “territorio delle acque pure”, mentre nel sud il gruppo più importante è quello dei Toba.

(2) Ho preferito privilegiare l’ipotesi “sociale” avanzata da Jean Baudrillard anziché quella dell’antropologia classica che intende questo rito come un assimilare la forza vitale del morto, in quanto gli stessi Batak mi hanno specificato che tutta la tribù ne doveva mangiare la carne, la quale per risultare sufficiente veniva mischiata con carne di bufalo. Chiunque si fosse rifiutato sarebbe stato a sua volta divorato. Appare quindi chiaro come lo scopo principale del rito fosse quello della coesione del gruppo in opposizione a chi ne aveva sovvertito le leggi. Si veda Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Milano, Feltrinelli, 1980.

(3) Elio Modigliani, Un viaggio a Nias, Milano, Fratelli Treves, 1890, p. 672.