In Italia regna quasi completa ignoranza di quella che viene chiamata canzone rebètika, canzone popolare urbana greca da distinguere dalla canzone demòtica, canzone popolare rurale. Sono trascorsi quasi due secoli da quando sono state composte ed eseguite le prime canzoni popolari rebètike, e queste costituiscono ormai e ancora un genere musicale di immediato successo, che ogni greco conosce perfettamente, ama e canta. Questo articolo (dopo la pubblicazione per la prima volta in Italia nel 2007 del mio libro sul rebetiko e in attesa della sua prossima riedizione notevolmente ampliata) espone riassuntivamente alcune considerazioni in merito a questo tipo di canzone popolare unica nel suo genere in Europa.

canzone rebetika

La melodia dell’urbanizzazione

È indubbio che la canzone rebètika è passata attraverso tante e tali fasi costitutive da rendere assai difficoltoso districarsi nei meandri del suo cammino: un cammino che porta le tracce di diverse civiltà musicali antiche ma anche a esso contemporanee, e si arricchisce di varie contingenze storiche, culturali e sociali di determinante importanza.
Sin dall’inizio la “questione della canzone rebètika” si colora di forti connotazioni etniche, alle quali si aggiungeranno poi quelle ideologiche, in cui vengono ad affrontarsi ovviamente definizioni legate a orientamenti politici e a criteri nazionali, ognuno con le sue verità, le sue approssimazioni e le sue convenienze.
La domanda che è stata posta a più riprese, più o meno dal 1930 in poi, è se si potesse incontrare in Grecia un filone musicale/poetico che avesse sicuramente la propria matrice nelle masse popolari e nel quale queste potessero specchiarsi riconoscendovi la “propria anima”, immutabile malgrado l’assedio di molteplici elementi inquinanti estranei e determinate esperienze e vissuti, e allo stesso rivolta quale naturale ispiratore e nel contempo destinatario e fruitore.
Verso la fine del 1800 la canzone demòtica, che tanta parte ebbe nella coscienza e nella pratica del popolo greco assoggettato all’occupante turco, può dirsi oggettivamente esaurita, con le ultime canzoni del ciclo klèftiko. In effetti, erano venuti a mancare, con la quasi totale liberazione del territorio ellenico, i presupposti e le motivazioni che nel passato avevano alimentato la produzione demotica nelle sue più svariate ramificazioni.
Ma la canzone demotica è sempre stata il prodotto di una civiltà essenzialmente rurale, con proiezioni verso ambienti montanari all’epoca fiorenti: la vita cittadina molto raramente, quasi mai, viene menzionata fin oltre alla costituzione dello Stato greco nel 1832. Il centro dell’universo contadino è il villaggio. Via via però che il territorio viene liberato dal giogo ottomano, l’attrazione delle città diventa sempre più irresistibile e l’urbanizzazione assume proporzioni vieppiù vaste mentre di pari passo, inversamente, lo svuotamento della campagna diventa inarrestabile: i due fenomeni provocano nuovi tipi di società e nuove, impellenti esigenze di vita.
Così, già dalla metà dell’Ottocento in quella che venne chiamata la “Piccola Grecia”, cioè il primo nucleo statale e nazionale greco unitario comprendente il Peloponneso e la Grecia continentale fino alla Tessaglia e la Grecia occidentale escluse (la cosiddetta “Stereà Ellada”), compare un nuovo genere musicale presso i livelli più bassi, poveri ed esposti alla prepotenza del regime monarchico-poliziesco in vigore. Nel medesimo periodo di tempo vanno molto di moda, sopra tutto dal 1870 in poi, le musiche e le canzoni portate da autori, compositori e complessi strumentali greci (ma spesso anche greco-armeni) dell’Asia Minore, in particolare Smirne, e di Costantinopoli.
A poco a poco il genere autòctono di canzone popolare, iniziata in forma di brevi motivi melodici e versetti senza pretese dai frequentatori dei bassifondi e “clienti” delle prigioni, e quello proveniente dalla tradizione popolare smirniota, molto più evoluto, assimilandosi a vicenda prendono la forma di un nuovo genere di canzone, la canzone popolare urbana, la canzone che mancava dopo che si era resa evidente l’impossibilità che la canzone rurale demotica potesse trasformarsi opportunamente e proseguire un’altra vita anche in ambito cittadino.
D’altra parte era in pratica, per comprensibili ragioni di temperamento e storiche, matematicamente impossibile che i vari tipi di musica e canzoni importate, pur in dosi massicce, dall’Europa occidentale potessero costituire la fonte creativa di una canzone popolare adatta allo spirito e agli usi e consuetudini greche.


È qui che comincia il contrasto tra fautori di questa canzone in tutti i modi considerata come prodotto genuino del popolo greco, sia in Grecia che in Asia Minore, e oppositori che accusano, in verità e per forza di cose molto sommariamente, tale costruzione musicale di non essere né greca né popolare, ma di essere semplicemente una canzone turca grecizzata.
Le dispute non impediscono, tuttavia, che il nuovo genere attecchisca in modo rapido e straordinario nei primi anni del 1900, in ciò aiutato, non appositamente, alcuni anni più tardi, cioè dal 1922 in poi, dalla eccezionale diffusione delle musiche di artisti smirnioti, e comunque tutti micrasiatici greci, profughi a seguito della disastrosa campagna militare greca nell’interno dell’Asia Minore.
Nasce in tal modo e si sviluppa rapidamente, espandendosi in tutti gli strati popolari, compresi quelli del proletariato operaio e del cosiddetto luben proletariato di marxista memoria, la canzone popolare vera e propria della città che, parecchi anni dopo, verrà chiamata “rebètika”, anche se tale definizione s’incontra già, prima del 1922, in un notevole numero di canzoni smirniote su disco a 78 giri.
Il ceto medio, la borghesia, in tutti i suoi livelli, e a più forte ragione l’aristocrazia e la cultura accademica e perfino scolastica, si mantennero fuori dal raggio di penetrazione di questa musica, in un atteggiamento di completo rifiuto e disapprovazione, se non di rabbiosa ostilità.
È vero che l’eco, più o meno penetrante, della musica chiamata “orientale” è presente nelle canzoni rebetike almeno fino al 1937. I detrattori parlano di “musica turca”. È palese la loro ignoranza di fondo, com’è palese che gli stessi non sentono alcun bisogno di rendersene conto. Ed è altrettanto palese che non si può e non si deve esprimere un giudizio così semplicistico, ove si consideri – e si deve considerare – che la tradizione musicale orientale dell’Asia Minore, adottata dai turchi nei secoli XVIII e XIX e adattata alla loro cultura di origine mongolica, costituisce una singolare combinazione di elaborazioni popolari bizantine, arabe, persiane, greche e indigene, che sono riuscite a creare nei secoli una eccezionale ed estremamente complessa civiltà musicale, tecnicamente e acusticamente ineguagliata e addirittura, confessiamolo pure, poco comprensibile al musicista e studioso occidentale.
La gente umile e socialmente sfortunata del popolo greco, del quale costituiva indubbiamente una grossa percentuale in quell’epoca attraversata da stravolgenti vicende, si identifica con i contenuti della canzone rebetika che accoglie senza riserve. E la riprova lampante che la canzone rebetika è una canzone prettamente greca e prettamente popolare sta nel fatto che, quando dagli anni ‘50 in poi entra a far parte dei programmi di ascolto e di divertimento della borghesia e delle classi ricche, inondati da musiche occidentali, subisce una tale degenerazione formale e sostanziale da spegnersi del tutto e irreversibilmente.
Quanto al “colore” orientale di molta musica rebetika, è essenziale non voler confondere “orientale” con “turco”, due concetti molto diversi, che solo colui che si trova in cosciente malafede tende a confondere e identificare.
Quando i Greci abitavano le coste dell’Asia Minore e la loro cultura ionica assorbiva le diverse espressioni orientali formando una particolare, unica nel suo genere, civiltà greco-orientale mai storicamente soppressa o venuta meno, e tramandata attraverso due millenni di relazioni multietniche, i Turchi non avevano nulla a che vedere con l’Asia Minore e i loro lontanissimi antenati, dai quali sembra che geneticamente derivino, erano ancora dispersi nelle immense regioni dell’Asia centrale fino alla Mongolia e Cina.
 Di conseguenza, il “suono” orientale della musica greca micrasiatica “importata” anche in Grecia continentale non ha e non può avere di turco che quel poco che i turchi hanno aggiunto di proprio alla secolare tradizione orientale della regione che hanno trovato occupandola. Null’altro. Pertanto, alla ricchezza di tale “suono” orientale venuto ad aggiungersi, anzi a compenetrare la natura greca e costituire una originale creazione, potrebbe, fino a un certo punto, considerarsi acquisito, e grecizzato, quanto l’elemento turco è riuscito sua sponte a inventare musicalmente e tecnicamente.
Per ciò che riguarda, infine, la concezione secondo la quale la musica e la cultura greca vadano viste in una posizione di equilibrio tra Occidente e Oriente, e Grecità significhi “equilibrio”, composizione armonica dei modi e dei linguaggi occidentali e orientali, si è del parere che ciò non corrisponda esattamente a verità e realtà, e sia una semplice affermazione accademica di auspicio, forse anche un’astratta aspirazione irrisolta.
Infatti, nella canzone popolare o rebetika la presenza e/o influenza o/e connessione con tematiche, tradizioni e prassi musicali o poetiche occidentali sono tutto sommato così poco importanti e così poco decisive da risultare in linea generale ininfluenti nell’economia della canzone rebetika stessa e negli sviluppi della medesima cultura rebetika lungo gli avvenimenti sociali, storici e politici dagli inizi del 1900 sino al 1950.
La canzone rebetika, poi, dopo il 1950 non è più canzone rebetika, cioè originale canzone popolare, ma semplicemente canzone leggera greca moderna, sia pure camuffata dietro l’insulsa espressione “popolar-leggera” che null’altro è se non un miscuglio di musica rebetika deteriore, musica turcheggiante e musica occidentale grecizzante condito con le risultanze della cosiddetta “canzone popolare d’arte” (έντεχνο λαικό τραγούδι), una terminologia eminentemente contraddittoria, inventata da personaggi e produttori interessati e utilizzata dai noti compositori di educazione classica Chatzidakis, Theodorakis, Xarchakos e altri.

Le definizioni del termine

Sul significato del termine rebetis vige il disaccordo più completo.
Innanzi tutto è una parola che, almeno in Grecia, certamente non deve essere comparsa nel linguaggio dei bassifondi, della malavita o della prigione prima degli anni 30, tant’è vero che nessuno degli scrittori greci del periodo 1880-1920 (Papadiamandis, Kondilakis, Passajannis, eccetera), che spesso nelle loro opere parlano di vari “tipi” del mondo semi-delinquenziale, ne fanno mai cenno, mentre menzionano invece altre espressioni più o meno affini per significato come alanis, mangas, trabukos, daìs, vlamis, assikis
È evidente che, alla loro epoca, il termine rebetis non era né conosciuto, né tanto meno utilizzato.
Ancora maggiore incertezza regna sull’origine della parola rebetis: su cosa voglia dire ogni studioso avanza la propria ipotesi d’interpretazione rifacendosi alle più svariate etimologie. Ovviamente, privi come si è di una significazione scientificamente comprovata, ogni parere può essere corretto come pure errato: si ha ragione come si ha torto!
Nel linguaggio corrente, al di là di ogni valutazione etimologica, un rebetis è qualcuno che vive fuori da un prestabilito ordine sociale, uno che non ottempera a regole, leggi e convenzioni, in sostanza un anticonformista, un “uomo-contro”.
C’è poi chi lo collega col significato di vagabondo, scioperato, chi non s’interessa a nulla. Altri ancora afferma: “Il termine rebetis è turco: proviene da rebet che vuol dire ‘girovago’. E poiché in Turchia molti musicanti giravano da un villaggio all’altro col loro busuki per divertire la gente, anche in Grecia hanno chiamato rebetes simili personaggi”. 
Peraltro il termine rebetis viene fatto risalire al verbo greco antico ρέμβω ο ρέμβομαι, nel significato di “giro intorno”, “roteo”, “erro”, per indicare qualcuno che è errabondo, ramingo, che non ha fissa dimora.
Un’altra soluzione abbastanza diffusa collega il rebetis all’espressione turca rebet asker, che si rifà all’esistenza nel XIX secolo in Asia Minore di bande di soldati irregolari che battevano le campagna rapinando, uccidendo,  devastando e scontrandosi con l’esercito turco, volendo con ciò identificare il modo di vivere irregolare del rebetis con l’analogo modo di questi “soldati randagi”.
Altri ancora (le cui argomentazioni tuttavia appaiono, come nella precedente fattispecie, maggiormente fragili e improbabili) fanno riferimento alla parola persiana roba’iyyat, plurale di roba’i, la quartina in poesia, estendendo tale significazione alla forma in cui di solito sono scritti i versi delle canzoni rebetike, la quartina, per cui rebetis è colui che compone quartine.
Vi è  chi connette il termine rebetis ancora con il turco rebet, tale considerando colui che si pone contro ogni ordine, l’indisciplinato, chi non si sottomette al potere, insomma chi è fuori dalla legge. A questo proposito tuttavia è opportuno rilevare che ”la parola rebet non è correntemente usata nella lingua turca contemporanea, né vi è testimonianza in tal senso nelle fonti principali relative a precedenti periodi della lingua turca”, per cui le considerazioni circa un significato che sarebbe di fuorilegge contenuto etimologicamente in una parola turca avente come grafia rebet costituirebbero una congettura senza un qualche concreto fondamento di realtà.
Nella lingua serba, poi, rebet vuol dire guerrigliero, una specie di partigiano nella lotta armata del popolo serbo contro l’occupante ottomano, il che sicuramente non ha nessuna attinenza con il rebetis.
Altre due interpretazioni si connettono con altrettante etimologie italiane: nella prima, la parola rebetis viene accostata al termine rebeskès, il parassita, l’inutile, il fannullone, il perdigiorno, dal verbo italiano “ribassare”, cioè cadere di dignità, sminuire; nella seconda, viene accostata alla parola rèbelos, derivata dal termine “ribelle”, colui che si oppone al potere, che è rivoluzionario.
Sono tutte definizioni, le predette, che nella loro diversità quasi epigrammatica difficilmente se non mai potrebbero “rendere l’idea” di ciò che è rebetis, di chi è rebetis, questo essere umano vissuto “fuori dalla propria epoca” non per libera scelta, ma per imposizione esterna e quale unico rimasto modo di difesa.
E allora, a parte tutto ciò, è nostro sentimento che nessuna definizione sia mai stata più vera, più dolorosamente vera, di quella per la quale “i rebetes furono gli ‘stranieri’, i paria, i reietti e sopra tutto gli ‘estranei in se stessi’, gli storditi, gli uomini senza ‘coscienza’… gente del ‘margine’ che la stessa coscienza urbana aveva prodotto… uomini senza ‘suono’, uomini dell’esilio e dello sradicamento, uomini, infine, che languivano di nostalgia per il loro volto orientale dentro le frammentarie memorie dei perseguitati”.

Il personaggio rebetis

Il rebetis è certamente un personaggio che vive e agisce sempre in un ambiente, in una “società” regolata da particolari relazioni comportamentali obbedienti a precise e inviolabili codificazioni, sia nella cerchia di un gruppo di rebetes sia nei reciproci rapporti tra gruppi diversi. La figura del rebetis presenta un aspetto poliedrico, non semplice da decifrare nel migliore dei modi, spesso contradditorio (apparentemente), ma sempre sincero e “vero”, mai ambiguo. Egli si vanta di essere generoso, di venire in soccorso in ogni necessità, senza preconcetti e condizioni, non solo nell’ambito strettamente familiare e parentale, ma in qualsiasi circostanza ne venga sollecitato. Mantiene sempre un atteggiamento fiero e sprezzante dei pericoli: il coraggio è una peculiare caratteristica del rebetis nell’affrontare e risolvere contese personali, obiettive difficoltà di vita, incidentali situazioni traumatiche. Trascorre la sua vita in prevalenza fuori casa, cioè fuori dal limitato giro relazionale con genitori e fratelli, nella più ampia, variabile, anche problematica e sovente pericolosa cerchia delle frequentazioni rebetike. E una volta abbandonato il tetto familiare, diventa quasi, per non dire assolutamente, impossibile farvi ritorno, giacché ciò corrisponderebbe in sostanza, nella mentalità del rebetis, a una confessione esplicita di fallimento, di impotenza, di debolezza, di mancanza di virilità.
Oltre che con gli altri compagni rebetes fuori casa, il rebetis intrattiene anche un certo tipo di rapporti, di mutevole valore e consistenza pratica, con la casa. In tale senso quindi la rete relazionale del rebetis differisce da quella di qualsiasi altro uomo non inserito nel microcosmo rebetiko: in quest’ultimo la dualità dei rapporti è divisa, in genere, tra casa da una parte e luogo di lavoro o di svago dall’altra, luoghi sostanzialmente con una carica positiva; per il rebetis il binomio in certo modo si radicalizza in quanto alla casa, da un lato, si contrappone non un altro luogo socialmente positivo, ma il perfetto contrario, cioè la strada, il luogo negativo in se stesso, e nei suoi pure negativi “prolungamenti” che sono la bettola, la prigione, i giochi clandestini, i bordelli, la sale da hascisc.
Così, sono in prevalenza tre i luoghi che il rebetis ama frequentare: il tekès, 1) la prigione e l’osteria. Nel primo il rebetis aspira a ottenere la serenità dell’animo e viaggia nel mondo dell’eudemonia, fuori e al di sopra delle tristezze e dei dolori terreni; con la seconda egli conferma la sua virilità e la  sua resistenza al potere statale: “sono per i forti / del carcere le sbarre” è il leitmotiv della protesta e della spavalderia rebetika; nella terza, infine, il rebetis cerca l’oblio dalla marginalizzazione che lo penalizza e dalle imposizioni odiose e ripulsive delle autorità di governo.
Il vero rebetis non può che essere daìs, 2) cioè deve comportarsi in modo tale da proiettare nell’ambito circostante nella maniera più incisiva e impressionante possibile le proprie qualità fisiche e psicologiche, così da acquisire i più elevati indici di dignità e prestigio.
Del tutto opposto è invece il comportamento del rebetis che già si trova in posizione di alto rango: egli è seretis, 3) ignora ostentatamente i bassi gradi, è indifferente persino alla morte dell’avversario gerarchicamente inferiore.
Peraltro, nel rebetis ogni disposizione, sia pure temporanea, di una qualche consistenza finanziaria si collega automaticamente a una corrispondente espressione di autorità e di progressione nella scala dei valori. Per lui comunque il possesso (eventuale) di danaro non è mai fine a se stesso, né occasione per una ricerca di ulteriore incremento di ricchezza: serve semplicemente a rafforzare nella società rebetika i suoi titoli di preminenza e il suo potere di comando. Il concetto di arricchimento è sconosciuto nel rebetis. E quando succede di perdere, per qualche azione illegale commessa e punita, una qualsiasi agiatezza economica, ciò è sempre a causa della ingiusta società che, con i suoi spietati vincoli e inumanità, conduce il rebetis all’autodistruzione.

Canzone rebetika: un itinerario unico

La canzone rebetika fa indubbiamente e indissolubilmente parte del grande complesso di manifestazioni culturali che formano la generale civiltà popolare. E costituisce chiaramente un genere in assoluto originale e autentico della tradizione musicale popolare greca, che di certo non può essere avulso dalla storica continuità musicale dall’antichità a oggi nel più ampio spazio etnico-geografico di diffusione dell’ellenismo.
La canzone rebetika si presenta quindi come espressione di ispirazione popolare (non certo dei ceti medio-alti) inizialmente e principalmente in quei centri dove l’elemento greco presenta un particolare sviluppo.
Nella sostanza la canzone rebetika quale canzone popolare, cioè canzone prodotta dall’elemento popolare e a esso destinata, inizia il proprio iter come forma di divertimento e modo di comportamento intorno alla metà del XIX secolo in quelle regioni dell’impero ottomano nelle quali maggiore e più vivace è la presenza della collettività greca: Smirne e Costantinopoli.
È una “invenzione” vera e propria dell’estro popolare greco, con contenuti prettamente popolari e riflettente esigenze espressive degli strati popolari di varia estrazione che comunque costituiscono la maggioranza nel tessuto sociale urbano.
Una valutazione molto diversa danno invece intellettuali della Sinistra, per i quali le canzoni rebetike (popolari) vanno inserite nel novero delle “canzoni demotiche della città” e rappresentano il mondo “delle bettole, delle case malfamate e delle strade mal frequentate dove ogni genere di delinquenti e di gente miserabile trascina una vita subumana e tenebrosa” 2 mentre d’altra parte nel constatare il fatto dell’essere stato attribuito un plus valore alla canzone rebetika, i medesimi non possono non considerare quest’ultima come “prodotto di una casta sociale…che non rappresenta se non una minima, minimissima minoranza del popolo greco: la minoranza dei ‘Fatali’ di Vàrnalis, 3  la parte delle bettole della città, dei porti e delle carceri…”.
Si diffonde comunque a macchia d’olio, sempre come “canzone popolare” (mai come espressione di una qualsiasi élite), ma anche come esplicita canzone “rebetika”, ciò che testimonianze di assoluto rispetto confermano.
È un nuovo genere di canzone mai prima sperimentato e conosciuto, che in pratica prende il posto della canzone demotica la quale ormai, per origine, contenuti e destinazione, non è in grado di soddisfare e rappresentare situazioni, necessità e fini di natura prettamente urbana, di una popolazione che motivi imperiosamente economici obbligano a una urbanizzazione per molti versi coatta e sconvolgente. Facilmente “emigra” dalle coste egee dell’Asia Minore verso quelle regioni della Grecia liberate dal giogo turco (dal 1875 in poi) e poco più tardi perfino negli Stati Uniti (dal 1893 al 1924) insieme con le masse di emigranti greci della prima generazione.
In ogni modo è in Grecia che la canzone rebetika raggiunge, in una continua elaborazione creativa, la sua forma più finita e la sua esemplare costituzione negli anni 1924-1937.
Dal 1937 al 1941 la censura e l’intolleranza della dittatura di Metaxàs colpisce la canzone rebetika nelle sue due diramazioni che apparivano più “provocanti”: la canzone “hascìscica” (una categoria di canzone rebetika con prevalente la tematica dell’hascisc e del tekès) e l’“orientale” manès, accusate entrambe di essere elementi estranei alla “purezza” della nazione greca (echeggiando altre “purezze” romane e ariane).
Tale reazione statale coincide con gli anni in cui il percorso della canzone rebetika raggiunge picchi di successo impensati, eccezionali e sopra tutto promettenti ulteriori incrementi, con le due considerevoli direzioni di movimento: l’indirizzo smirniota e l’indirizzo pireota o greco. Tutt’e due però, a giudizio dei “cervelli” governativi, hanno il vizio di essere indesiderati: il primo perché “suona” orientale, quindi non greco, e il secondo a causa della sua “abitudine” per l’hascisc, quindi criminale.
Nei due casi, comunque, l’attacco alla canzone rebetika è da considerarsi non solo insufficientemente  giustificato, nella sostanza senza plausibile giustificazione, ma anche fuori dalla realtà e fuori dalla storia, giacché le canzoni “hascisciche” non erano che una minoranza, uno dei vari tipi di canzone rebetika che circolavano liberamente, mentre l’aria orientale e non greca delle canzoni popolari smirniote – intesa come “aria turca” – non aveva nulla a che vedere con i turchi.
Si dà il caso, infatti, che quest’ultima canzone, se è vero che possiede un certo “tono orientale”, non è men vero che è stata ed è creata solo dai greci d’oriente e non dai turchi, né tantomeno da altre etnie arabe mediorientali, ed è creata proprio da quei greci che dal secondo cinquantennio del XIX  secolo in poi si trovano all’apice di una civiltà culturale, economica e sociale senza paragoni nella rimanente regione del Mediterraneo orientale e dei Balcani. Ed è altresì quella stessa canzone rebetika (popolare) che si è irresistibilmente diffusa in tutte le altre regioni della Grecia liberata fino al 1912 quale, si direbbe, istintiva manifestazione musicale della nazione.
Quanto all’uso della cannabis indica, negli anni ‘20 e ‘30 in Grecia, oggetto della furia governativa, sarebbe lungo in questa sede discuterne, come pure sulla “orientalità” dei greci micrasiatici rapportata alla secolare presenza ellenica nella più ampia regione.
Si tratta di tematiche il cui studio chiarirebbe molti aspetti storicamente validi poco o nulla conosciuti, che evidentemente nel 1937 la dittatura di Metaxàs non poteva o non voleva in alcun modo prendere in considerazione nel suo programma di “europeizzazione” forzata della cultura greca nel suo complesso. 

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: tamburàs.

        

I primordi della canzone popolare

Innanzi tutto bisogna ricordare che la canzone popolare greca quale “ramo” moderno della secolare canzone demotica iniziata nell’XI secolo e a sua volta discendente dalla cultura musicale bizantina, prende a elaborare la propria forma e sostanza praticamente nei due decenni successivi al 1821, anno in cui comincia la rivoluzione che porterà alla graduale liberazione della Grecia dai turchi.
Nel medesimo periodo una canzone popolare con caratteristiche “rebetike” si sta formando in Asia Minore, verso la metà del XIX secolo, e anche prima, contemperando elementi propri delle tradizioni regionali portate con sé dalle popolazioni provenienti dalla Grecia con elementi orientali sviluppàtisi in loco nel connubio fra tradizioni delle genti elleniche autòctone della regione e reminiscenze ed eredità musicali dell’Antica Grecia filtrate attraverso l’elaborazione della scuola musicale bizantina, anche per il tramite dell’innologia ecclesiastica.
In queste precoci manifestazioni di canzoni popolari, particolare rilievo hanno le “scale”, certamente rapportate ai “modi” della musica antica greca. Si tratta già quindi di una musica eminentemente modale, meglio, plagale, come peraltro si riscontra presso numerose altre tradizioni musicali del Mediterraneo, dei paesi arabi e di paesi balcanici, nelle quali l’elemento popolare è vigorosa fonte di ricchezza culturale.
Come è stato acutamente riscontrato, reali eredi della educazione musicale greco-antica devono considerarsi i persiani, gli arabi: è la loro musica, infatti, che tramanda modalità e invenzioni che vigevano nella Grecia antica, com’è grazie agli arabi e ai persiani che il pensiero filosofico e scientifico greco antico ha potuto giungere fino a noi. Quanto ai greci micrasiatici, essi non hanno fatto altro che seguire e far rivivere le regole musicali dei loro lontani antenati ionici e bizantini.
Al contrario, la musica occidentale-europea da sempre ha avuto difficoltà nel comprendere ed accettare il davvero complesso e polivalente mondo musicale della Grecia antica, nella sua semiologia, nella sua espressività modale e nella multiformità delle sue concezioni melodiche.

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: sanduri.

Le due scuole

La canzone popolare (rebetika) si distingue in due grandi rami di ispirazione e di produzione che, per comodità di analisi, vengono inquadrati nella disciplina di due “scuole” ben precise, diversificate tra di loro, ma altrettanto importanti: la “scuola  smirniota o micrasiatica” e la “scuola pireota o greca”.
La prima fiorisce a Smirne e a Costantinopoli e s’irradia nelle attigue isole di Lesvos e Samos; la seconda è creata nei maggiori agglomerati urbani come Atene, Pireo, Salonicco, e influenza altre località minori, sopra tutto porti come Nàfplio (prima capitale dello stato greco), Volos, Kalamàta, l’isola di Siros, Kavàla.

La scuola smirniota

Cronologicamente è la più vecchia e quindi precede quella pireota. E anche se è impossibile fissare, sia pure in modo approssimativo, un anno d’inizio della canzone popolare smirniota, si ritiene non essere troppo lontana dalla realtà una data intorno al 1840-1850, forse anche un po’ prima.
È accertato comunque che nei cafè-chantant a Smirne aperti negli ultimi vent’anni del 1800 vengono eseguite, tra l’altro, anche canzoni popolari, che costituiscono poi il programma centrale nei concerti del primo complesso di musica popolare fondato nel 1898, chiamato “Ta Politàkia” (I Piccoli di Costantinopoli) e diretto dal fanariota Vassìlis Siderìs. È questa medesima orchestra popolare che, alcuni anni più tardi, assumerà il nome di “Estudiantina Smirniota” e diverrà celeberrima e capostipite di numerose altre estudiantine in tutta l’area micrasiatica, e non solo.
Nel suo organico acquisiscono grande fama musicisti come J. Paschàlis detto Tsangàris, J. Savarìs, P. Vaindirlìs, A. Peristèris.e canzoni che le varie estudiantine eseguono costituiscono una nuova soluzione artistica del tutto affrancata dall’eredità della musica demotica, sia nella sua struttura formale che nella parte strumentale, nella sostanza dei versi e nella espressione musicale.
E fino all’anno in cui viene imposta la censura preventiva in Grecia dalla dittatura di Joannis Metaxàs, i complessi musicali e i cantanti della “scuola smirniota” si avvalgono di tutti gli elementi tecnici propri della cultura musicale greco-orientale: ritmi, organico orchestrale, misure e sopra tutto scale, le cosiddette vie, di gran lunga più complesse e articolate delle “scale” occidentali e caratterizzate da svariati micro-spazi, inconcepibili (e fors’anche inudibili) per l’orecchio europeo.
Con la catastrofe militare del 1922 insieme con la moltitudine di profughi riversàtisi in Grecia dopo incredibili peripezie attraverso distruzioni e morte, giungono e si stabiliscono ad Atene e Pireo quasi tutti i migliori autori e cantanti della “scuola smirniota”: Panajotis Tùndas, Vanghèlis Papàsoglu, Kòstas Skarvèlis, Dimìtris Semsis detto Salonikiòs, Dimitris Atraìdis (1900-1970), Jannis Dragàtsis detto Ogdondàkis, Grigòris Assìkis (1892-1967), Manòlis Chrissafàkis, Spiros Peristèris, Lefthèris Menemenlìs, Vanghelis Sofronìu, tra i primi, e Andònis Dalgàs, Kostas Karìpis, Anghèla Papàsoglu, Kostas Tsanàkos, Jorgos Vidàlis, Rosa Eskenàsi (Sara Skinazy, 1883-1980), Rita Abatzì, Marika Frantzeskopùlu (1895?-1978?), tra i secondi.
Enormi mutamenti sociali avvengono dopo il 1922 (distruzione di Smirne e “rientro” di almeno 300.000 greci delle coste micrasiatiche) e il 1924 (Trattato di Losanna 4) e scambio di popolazioni, con l’arrivo di circa 1.300.000 greci da Costantinopoli e dalla Tracia orientale). Il fenomeno della proletarizzazione assume ritmi sempre più serrati e rapidi, in maggior profondità negli ambienti dei profughi. 5)
Nuove tematiche vengono ad aggiungersi nella composizione delle canzoni popolari rebetike, che  acquisiscono rinnovato e poderoso impeto con il reciproco assorbimento da parte delle due “scuole” dei loro migliori elementi costitutivi. Eccezionale è quindi la diffusione della musica rebetika sopra una base popolare ad amplissimo raggio e malgrado il continuo ostracismo da parte ufficiale.
Gli autori smirnioti per la prima volta scrivono canzoni sull’hascisc verso il 1923 e continueranno a farlo fin verso il 1937, sempre sulla base delle vie orientali. 
Ormai però la durata della “scuola smirniota” si trova agli sgoccioli: la canzone smirniota viene irreversibilmente assorbita e assimilata dalla canzone pireota; ugualmente l’orchestra popolare smirniota intorno al 1935 si dissolve così che l’organico classico composto da violino, uti, sanduri o kanonaki o lira costantinopolita viene sostituito da un organico molto diverso, composto da busuki, baglamàs e chitarra.
Con la fine della seconda guerra mondiale il percorso della “scuola smirniota” si può dire concluso; d’altronde, sono morti quasi tutti i suoi migliori rappresentanti, uccisi dai tedeschi o eliminati dalla fame o spariti per morte naturale. Ma già la censura, in precedenza, aveva contribuito a “sfoltire” drasticamente la presenza musicale smirniota in Grecia. E poco prima della metà del 1900 la canzone micrasiatico-greca cessa definitivamente di produrre. La sua opera costituisce nel suo insieme un archivio di rara ricchezza musicale, forse ancora non pienamente conosciuto.

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: uti.

La scuola pireota

La canzone popolare greca “metropolitana” appare verso il 1860 nel quadro di una evoluzione in ambiente urbano della canzone demotica. Dal punto di vista della musica, infatti, tale canzone è ampiamente tributaria della procedura e della forma demotica. La versificazione invece cambia sostanzialmente nel quadro di un complesso di tematiche affatto diverse e per la prima volta concepite.
Anche qui l’iniziale produzione è in prevalenza anonima, come per la precedente canzone demotica, per cui molte composizioni sono “vaganti” nei vari ambienti marginalizzati e fuori società, sopra tutto i porti e i quartieri “eccentrici”.
È questo il primo periodo di vita della “scuola pireota”, che giunge più o meno fino al 1925.
Suoi migliori esponenti sono i musicisti e cantanti Anghelos Stamos, Andònis Sakellarìu (1889-1963), Jorgos Katsaròs (1888-1997), Marìka Papaghìka (1890-1943) – i tre ultimi si stabiliscono nei primi anni del ‘900 e fanno carriera negli Stati Uniti – Amalia Vaka, la Signora Kula, eccetera.
Un secondo periodo può individuarsi nel periodo 1925-1940, caratterizzato dal totale affrancamento delle canzoni popolari (rebetike) dalle memorie demotiche. I testi delle canzoni acquisiscono grande sobrietà espressiva e linearità sintattica: sono testi di pretta estrazione popolare per un impatto immediato e una comprensione facile da parte di tutti i destinatari. Per altro verso la musica abbandona le inflessioni dei modi orientali e si crea una propria, inconfondibile e unica qualità, sì che le canzoni che ne scaturiscono rappresentano i più originali, i più perfetti, i più rispondenti e begli esempi di canzone rebetika: in sostanza la vera canzone rebetika.
È la sua epoca d’oro, quando in essa si fondono i migliori caratteri della musica smirniota per dar luogo a un’invenzione artistica di elevata e insuperabile, nel suo genere, configurazione.
Markos Vamvakàris(1905-1972), di certo la voce più genuina del mondo rebetiko, costituisce in certo modo lo spartiacque tra le concezioni rebetike della “scuola” smirniota e di quella pireota, e si presenta comunque come il capostipite di una generazione musicale rebetika che concluderà la sua avventura creativa verso gli anni ‘50. Peraltro, è Vamvakaris il primo a registrare in disco, nel 1933, canzoni interpretate dal busuki.
La genialità di Vamvakaris va di pari passo con le straordinarie ideazioni di Stelios Kiromìtis (1907-1979), Apòstolos Chatzichrìstos, Dimitris Gogos detto Bajadèras (1903 o 1904-1985), Jovan Tsaùs, Sotìris Gavalàs, Jorgos Batis (1885 o 1889-1967), Stellàkis Perpiniàdis, Anestos Deliàs o Artemis, Stratos Pajumtzìs, Stelios Chrissinis (1916-1993), Nikos Màthessis detto Trellàkias (1907-1975), Minos Matsas (1903-1970), personaggio di fondamentale importanza nel campo della canzone rebetika, prima, e popolar-leggera, poi, forse il più influente dirigente di società discografiche dell’epoca; Jàkovos Montanaris o Jakumìs (1892-1965), Kostas Tzòvenos (1899-1985), Kostas Rùkunas o Samiotàkis (1903-1984) e altri ancora.
In questo secondo periodo (nel 1934) avviene altresì la definitiva trasformazione dell’orchestra rebetika che, abbandonati gli strumenti “importati” dalla scuola smirniota e comunque familiari anche alla canzone demotica, adotta e sfrutta nel migliore dei modi le possibilità sonore del busuki a tre doppie corde, del baglamàs (una specie di busuki molto più piccolo, dal suono più morbido e acuto) e della chitarra.
Infine si registra un terzo e ultimo periodo che va dal 1941 o 1945 (negli anni della guerra ogni attività musicale rebetika cessa completamente a livello pubblico) ai primi anni ‘50. Ormai spariti quasi tutti gli esponenti della “scuola smirniota o micrasiatica”, la scena è occupata esclusivamente dai rappresentanti della “scuola pireota o greca”.
Dal punto di vista musicale le canzoni – che vieppiù perdono le reali connotazioni rebetike e si conformano alle richieste di un nuovo genere di canzone chiamato “popolare leggero” intimamente connessa con preponderanti interessi finanziari delle case discografiche e quindi con le ragioni del mercato e del commercio, oltre che con una campagna di europeizzazione sempre più avvolgente e invadente – si adattano completamente a modalità di impostazione occidentale, semplificazioni melodiche e ritmiche, armonie travasate dalla pratica compositiva europea.
Vassìlis Tsitsànis (1915-1984), Jorgos Mitsàkis (1921-1993), Jorgos Rovertakis (1911-1978), Jannis Papaioànnu (1913-1972), Gheràssimos Kluvàtos (1914-1979), Apòstolos Kaldàras (1923-1990), Stavros Tzaunàkos (1925-1974), Manòlis Chiòtis (1921-1979), Kostas Kaplanis (1920-1997), Jorgos Muflusèlis (1912-1991), Babis Bakàlis (1920-2007), Marika Ninu (1918 o 1922-1957), Anna Chrissàfi (1921-2013), Pròdromos Tsaussàkis (1919-1979), Sotirìa Bellu (1921-1997), Panos Gavalàs (1926-1988), Litsa Charma, Mery Linda, sono i compositori, autori e cantanti che vanno per la maggiore in questo terzo periodo che coincide peraltro con le ultime manifestazioni della più che centenaria stagione rebetika.

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: kanonaki.

Le fasi storiche

Dopo aver passato in rassegna i contenuti dei due indirizzi principali dell’ispirazione rebetika in una cronologia per così dire onnicomprensiva e unificata che copre un periodo di circa un secolo fino al 1950, proviamo a riassumere le fasi storiche e cronologiche di questa esperienza musicale vista nella sua unitarietà. A questo proposito si possono riconoscere quattro grandi fasi, ciascuna con sufficienti impronte proprie.

Fase I, dal 1900 al 1922              

Lasciata per ovvii motivi in disparte una produzione ancora poco definita fino all’ultimo quarto del XIX secolo, nei primi anni del decennio 1890-1900 la canzone popolare precorritrice di quella rebetika acquisisce forma e sostanza concrete traendo spunto dalla matrice demotica mediante un originale adattamento delle particolarità tematiche utilizzate, incentrate su argomenti legati al duro mondo della prigione, alla vita degli strati più bassi del popolo e a tutto il corredo di sentimenti che vi si riferiscono.
Tre sono le zone dove si sviluppa: le coste dell’Asia Minore con Smirne come centro, la parte della Grecia libera dalla occupazione turca e gli Stati Uniti d’America.
A Smirne nasce la caratteristica “canzone smirniota”, frutto prezioso di una “scuola” il cui contributo, progresso e irradiazione è enorme e imprescindibile. Smirne dà altresì i natali alle prime formazioni strumentali e vocali che, oltre a un repertorio di musiche di varia provenienza occidentale, interpretano e “lanciano” le prime canzoni popolari,10 come si sentono nei rioni poveri e depressi.
Nei porti del nuovo Stato greco – Pireo, Patrasso, Nàfplio, Ermùpolis nell’isola di Siros – nei bassifondi cittadini e nelle carceri, squarci di brevissime poesie, sintatticamente semplici se non ingenue, musicate da anonimi compositori vengono cantate e ripetute nei quartieri perimetrici dei “tuguri popolari”, costituendo i primi abbozzi di canzone popolare.
Infine, in diverse città degli Stati Uniti (Chicago, New York, Michigan, eccetera) un’autonoma corrente musicale greca si manifesta in ritmi veloci fruendo dei contributi offerti da autori provenienti non solo dalla Grecia nella prima ondata migratoria dal 1893 al 1905, ma anche dall’Asia Minore, in cerca di fortuna. Sono canzoni di stile demotico e canzoni popolari che raccontano la nostalgia, le pene e le speranze degli emigranti in quella terra lontana e straniera.
Strumenti come il sanduri, l’uti, il kanonaki, il zurnàs, il clarinetto, la lira, riproducono i suoni delle musiche smirniote, mentre il busuki, il tamburàs (progenitore del busuki e, a sua volta erede dell’antica e bizantina pandura o panduris), il baglamàs interpretano le composizioni degli autori nelle regioni greche. Quanto agli organici strumentali che si esibiscono negli Stati Uniti, quasi tutti gli strumenti predetti sono regolarmente presenti.
Questa prima fase potrebbe chiamarsi in linea generale periodo di formazione della canzone rebetika. Specie nelle parole delle canzoni l’influsso della poesia demotica notevolmente si attenua e una nuova espressività prende piede, legata a nuovi generi di stimoli che le rapide variazioni demografico-sociali provocano.
S’inaugurano nuove tipologie di personaggi derivate dalla nascita di nuove sensibilità. Gli autori creano canzoni gran parte delle quali, sopra tutto nel primo decennio del 1900, vengono trasmesse unicamente per via orale, sì che la loro paternità oltre a essere spesso ignota, non essendovi nessuna certezza a chi appartenga la composizione, nei migliori dei casi è testimoniata solo in (eventuali) scritti di contemporanei che ne parlano precisando anche il nominativo dell’autore.
Elencare i compositori e i parolieri di questo periodo potrebbe risultare ozioso e poco produttivo, in particolare per quelli che agiscono in territorio greco, dove le “celebrità” praticamente non esistono e tutti navigano in una specie di aurea mediocrità.
Non così invece per autori e cantanti che lavorano negli Stati Uniti e in special modo in Asia Minore, favoriti anche dalla possibilità materiale di partecipare a non poche registrazioni.            Nella  prima “generazione rebetika” americana notiamo, oltre ai citati Jorgos Katsaròs (1888-1997), Andònis Sakellarìu (1889-1963), Marika Papaghìka (1890-1943) e Amalìa Vaka, anche Jannàkis Ioannìdis, Tetos o Theòdotos Dimitriàdis (1895?-1968?), Leonìdas Smirniòs, Dimosthènis Zattos, Markos Melkom-Alemsarian (1895-1963), Maria la Smirniota.
Molto più importante dal punto di vista della produzione artistica (musica e parole) e della fama guadagnata (anche successivamente in Grecia, dopo la catastrofe micrasiatica del 1922) è l’apporto di Smirne. 6)

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: tre suonatori di zurnàs.

Fase II, dal 1922 al 1937 (1940)

Questa fase inizia con gli effetti negativi dell’“invasione” di circa 1.300.000 profughi dall’Asia Minore. Certo, il livello culturale e il livello di vita ai quali sono abituati questi profughi sono alti, incomparabilmente più alti di quelli che trovano rientrando in patria. Solo che, purtroppo per loro, gli abitudinari elevati livelli vengono a cozzare con l’estrema povertà in cui da un giorno all’altro si trovano sprofondati, senza casa e senza lavoro, addirittura guardati con occhio torvo dalle popolazioni locali con le quali d’un tratto sono costretti a convivere.
Le difficoltà da superare sono interminabili, per tutti, compresi quasi tutti i grandi compositori, autori e cantanti smirnioti che provano a ricominciare la loro carriera in un’atmosfera sociale che nulla ha in comune con quella conosciuta e lasciata a Smirne. Miseria, isolamento e umiliazione sono il trittico che guida la loro ispirazione almeno nei primi cinque anni dopo il 1922.
Non migliori sono tuttavia le condizioni dell’elemento locale da tempo nel vortice delle perturbazioni demografico-sociali che le ondate di urbanizzazione selvaggia provocano sin dagli anni ‘10 e seguenti, ulteriormente aggravate dagli effetti della guerra balcanica (1912-1913), quando grandi masse di contadini incrementano disordinatamente i tessuti cittadini, da una parte rimanendo privi di patrimonio agricolo e dall’altra estromessi dalla attività di guadagno nelle loro nuove residenze.
Nella cornice di questo comune denominatore la canzone smirniota-greca incontra quella pireota-greca: tutt’e due s’incanalano così in un solco parallelo reciprocamente influenzandosi. Chiaramente però la forma smirniota di canzone (popolare) rebetika possiede ben superiori pergamene e quindi la sua prevalenza qualitativa impone uno sviluppo nel senso più proprio alla sua natura. Ciò non vuol dire che la struttura della canzone smirniota non adotti volentieri le più interessanti innovazioni che trova nella canzone locale.
La preponderanza della musica micrasiatica-greca continua fino al 1934. Sono dieci anni di successi trionfali per i complessi smirnioti nei quali i tradizionali strumenti come l’uti, il sanduri, il kanonàki, la lira costantinopolita, la chitarra esprimono in modo perfetto le più belle melodie che l’anima greco-orientale di Smirne ha creato nel corso del tempo.
Si segnalano i menzionati Panajotis Tundas, Vanghelis Papàsoglu, Jannis Dragàtsis detto Ogdondàkis, anche  Dimitris Semsis detto Salonikiòs, Kostas Karipis, Grigòris Assìkis, Kostas Skarvèlis, Dimitris Barùssis o Barùs o Lorenzos (1880-1955).
È questa anche l’epoca in cui fa la sua apparizione, nella canzone rebetika, l’hascisc e il luogo prediletto di consumo e di godimento, il tekès. Nulla di strano perciò se la nuova tipologia “hascìscica” si propaga a macchia d’olio (offrendo in compenso una moltitudine di commoventi composizioni annoverate tra le più belle di tutta la letteratura rebetika) ove si consideri che in quegli anni estremamente duri simile “soluzione” era ritenuta l’unica che permettesse una bensì temporanea, nondimeno necessaria “evasione” dalle angustie della vita, e senza con ciò ipocritamente dimenticare quanto fosse tale “soluzione” favorita dalla politica statale sugli stupefacenti. 7)
Nel 1934 l’apparizione del complesso “Il famoso quartetto del Pireo” composto da busuki e baglamàs rivoluziona l’assetto dell’orchestra rebetika e nel contempo rappresenta il principio della disgregazione del complesso-tipo smirniota. Da quel momento in poi l’assimilazione e l’inglobamento dei procedimenti musicali smirnioti da parte delle nuove formazioni strumentali pireote assumono cadenze sempre più incalzanti, significando altresì la lenta ma inesorabile scomparsa dello “stile” micrasiatico.
Fino all’imposizione della censura nel 1937 la canzone rebetika vive la sua epoca classica, l’epoca della sua più pura e speciale produzione: sono composte canzoni della più alta qualità, che diventano patrimonio di tutto il popolo greco e che tutti conoscono anche oggi, dopo ottant’anni! Più canzone popolare di questa…
L’intervento della censura e il successivo sconvolgimento generale della guerra mondiale creano i presupposti per l’inizio della decadenza della canzone rebetika. E le ragioni della censura abilmente nascoste dietro lo schermo delle sostanze stupefacenti, in realtà intendono colpire la tradizione popolare che si sta dilatando con forza (notoriamente nemica di ogni pedissequa occidentalizzazione), e perfino le sue scaturigini demotiche e per estensione anche il movimento operaio che alla vigilia del conflitto comincia a rivendicare diritti mai riconosciuti, per affrontare e risolvere le profonde tensioni di una esasperante proletarizzazione.
In questi anni della massima gloria e dell’imposto declino della canzone rebetika molte sono le figure di musicisti e cantanti di irripetibile valore: oltre ai citati Markos Vamvakàris, Anestos Deliàs, Jorgos Abàtis o Batis, Stratos Pajumtzìs, Sotìris Gavalàs, Stelios Kiromìtis, Dimitris Gogos detto Bajadèras, Ioànnis Eitzìdis detto Jovan Tsaùs, Michalis Jenìtsaris, Apòstolos Chatzichrìstos, Stellakis Perpiniàdis, non possono passare sotto silenzio Dimitris o Kallìnikos o Tsùssis Arapàkis (1895?-1965?), Vanghelis Gripàris, Jorgos Kamvìssis, Sossos Ioannìdis (1895?-1984).

 

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: lira.

Fase III, dal 1937 (1940) al 1950

È l’epoca del silenzio e della dissoluzione. La musica rebetika (tarpate le ali della canzone smirniota “orientale” e della canzone pireota “hascìscica”, uccisi o morti per stenti i migliori esponenti della musica micrasiatica-greca, ridotti a tacere i geniali autori della “scuola pireota” proprio negli anni nei quali era legittimo e logico attendere che esprimessero il meglio di sè) si avvia verso una gravissima sterilità creativa, condotta com’è alla conclusione della sua parabola da molteplici fattori, alcuni obiettivamente inevitabili, altri appositamente congegnati negli stessi circoli musicali.
Nel medesimo tempo, dunque, durante il quale la canzone rebetika procede verso la sua eclissi come realtà produttiva, paradossalmente si amplia la base popolare sulle cui esperienze la canzone stessa potrebbe in prosieguo di tempo costruire un rinnovamento tematico e le linee direttive di una nuova ispirazione.
Alla fine della guerra mondiale, infatti, le traumatiche vicissitudini della guerra civile che seguì subito dopo suscitano una fortissima corrente migratoria interna con un altro ampio spopolamento della campagna e delle cittadine agricole e un corrispondente caotico urbanismo che investe le due più grandi città, Salonicco in minor misura e Atene in maniera esorbitante sia sul piano dell’aggregazione urbana sia su quello della coesione sociale.
Nuovi quartieri squallidi, nuove periferie desolate sorgono, si moltiplicano i comuni satelliti per ospitare altre masse della moderna proletarizzazione ed emarginazione; ulteriore terreno, teoricamente, per sviluppi espressivi rebetiki, già iniziati timidamente durante gli anni tristi dell’occupazione tedesca con le piaghe del mercato nero, del collaborazionismo e delle fucilazioni.
L’orchestra rebetika pireota domina il campo musicale, mentre non rimane più praticamente nulla di “memoria smirniota”. Non ci sono più canzoni “hascisciche”. Rimangono solo i temi dell’amore, della povertà, della tristezza, dell’indifferenza sociale, della disoccupazione, della miseria, della morte. E ottimi compositori (i quali ormai adottano le modalità di composizione occidentali) creano ancora una musica originale che va direttamente, almeno negli anni fino al 1950, verso le aspettative popolari. I citati Jorgos Mitsàkis, Manòlis Chiòtis, Jannis Papaioannu, Kostas Kaplànis, Apòstolos Kaldaras, Jorgos Muflusèlis, Jorgos Zambetas (1925-1992), Vanghelis Perpiniadis (1929-2003), figlio di Stellakis Perpiniadis, Christos Sirpos detto Christàkis (1924-1981), Theòdoros Polichandriotis (1920-2005), Babis Bakàlis, Akis Panu (1933-2000) e sopra tutto Vassìlis Tsitsànis, il massimo esponente della nuova generazione “rebetika”, compongono e registrano canzoni che rimangono come classiche del generale repertorio “popolare”.

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: baglamàs.

Ma proprio in questo frangente in cui le possibilità di rinascita del genere rebetiko sembrano acquistare reali dimensioni, avviene l’esatto contrario: due eventi di capitale importanza sopravvengono ad alterare irreparabilmente le iniziali prospettive e imporre nuove direzioni alla cultura musicale in Grecia.
Contemporaneamente, da una parte una prepotente e risoluta politica di europeizzazione della musica e diffusione di strumenti come il pianoforte, il contrabbasso, la fisarmonica, la batteria e strumenti a fiato occidentali nelle orchestre di musica popolare, e dall’altra una velenosa campagna di calunnia e di denigrazione della produzione rebetika, pongono le condizioni non solo per la rapida marginalizzazione della più genuina espressione di quest’ultima, ma ugualmente per la sua degenerazione in una marea di deprecabili “succedanei” e caricature nell’industria della cosiddetta canzone popolare leggera; di cui una fase si riscontra nella contraffazione della canzone che prende il nome di archondorebètika, letteralmente “rebetiko del (o per il) signore”, questi inteso come il ricco, o più propriamente il nuovo ricco, sbucato dalle macerie delle guerre (mondiale e civile); senza mai rendersi conto, peraltro, che il pomposo termine archondorebetis è del tutto contradditorio giacché i suoi due componenti si elidono a vicenda, non potendo evidentemente essere rebetis un signore, un ricco, e viceversa!

 

Fase IV, dal 1950 in poi

Così, con la fine della guerra civile (1949) e gli inizi degli anni ‘50 compaiono i primi esempi di canzoni pseudo-rebetike, chiamate “popolar-leggere” o appunto archondorebètike.
Il nuovo tipo di musica si diffonde rapidamente in tutti gli strati sociali, ma sopra tutto negli ambienti dei “ricchi di guerra” e post-guerra, quelli che dalla guerra avevano saputo trarre grossi vantaggi nel mondo delle finanze e poi nella scala sociale. È la fine della vera canzone rebetika, che intorno al 1955 cesserà di produrre originali creazioni.
La responsabilità di questa “morte” (comunque preannunciata sin dal 1945 con le vistose alterazioni tecnico-musicali che produceva una “occidentalizzazione” a briglia sciolta) va suddivisa in più parti, ognuna con quote variamente proporzionali:

  1. l’eccessiva commercializzazione attraverso un enorme numero di luoghi di divertimento (chiamati busukia, plurale di busuki), sempre stracolmi di gente che si ubriaca di rumore, musica, fiori, piatti rotti e whisky dopo sette anni di astinenza per vari eventi bellici;
  2. le sfrenate registrazioni discografiche con enormi flussi di danaro;
  3. gli stessi autori rebetes che per la maggior parte acconsentono, dietro lauti compensi, a degradanti concessioni formali ed estetiche rendendosi complici dell’intensivo sfruttamento di ogni composizione “battezzata” come rebetika, ma in realtà pseudo-rebetika;
  4. il tentacolare sviluppo di una categoria di cantanti-autori fasulli, che depredano a piene mani e fanno proprie, cambiando titoli e versi, canzoni la cui paternità non può essere difesa non esistendo più parenti dei compositori che possano dimostrare di aver legittimo interesse alla proprietà delle composizioni.

In simile atmosfera quelli che vengono chiamati “epigoni della canzone rebetika”, Vassilis Tsitsanis in testa, proseguono un cammino con non pochi compromessi e non senza anodine “licenze” artistiche che irrimediabilmente si risolvono in sostanziali deviazioni, che solo pochi, se non nessuno, all’epoca, hanno valutato nelle loro esatte misure.
Perciò con notevole esitazione, a nostro parere, andrebbe presa l’affermazione di Gail Holst secondo la quale si deve a Tsitsanis se le canzoni rebetike riuscirono a ritrovare nel dopoguerra il loro successo d’anteguerra. Se è vero che da un lato un certo “stile rebetiko” Tsitsanis riesce a riprodurre nelle sue migliori canzoni del periodo iniziale, dall’altro è indubitabile che a queste canzoni manca il vero afflato rebetiko e – checché se ne dica e per quanto si voglia lodare la genialità, innegabile, di Vassilis Tsitsanis – da quegli anni (più o meno 1950) in poi nulla avrebbe più potuto “risuscitare” o ricreare il “fenomeno rebetiko” del periodo 1924-1937. Le canzoni di Tsitsanis sono bellissimi, cantabilissimi brani di musica scritti con grande sapienza tecnica, con parole che sono anni luce lontane dalle “parole rebetike”, e nel solco di una produzione di largo consumo, e non solo popolare; insomma canzoni che di per se stesse definiscono la radicale diversificazione dalla matrice e genitrice rebetika.

canzone rebetika
Strumenti tradizionali: busuki.

D’altronde, lo stesso Tsitsanis in una intervista limitava, palesemente sbagliando, le canzoni “popolari” di Vamvakaris, cioè quelle degli anni ‘30, al preponderante tipo delle canzoni dell’hascisc e della prigione e implicitamente si attribuiva il titolo di primo creatore di quella che egli chiamava “neonata canzone popolare” (un altro significato della parola “popolare”?) che quasi si considerava obbligato a comporre come reazione ai temi della droga e del carcere, rilevando in questa opera il suo “rivoluzionario contributo” e fingendo di ignorare che all’epoca di Vamvakaris (fino allo scoppio della guerra) le canzoni dell’hascisc e quelle della prigione rappresentavano una modesta percentuale, come comprovato in competente sede.  Così con la “neonata canzone popolare” Tsitsanis sembra avallare d’autorità la nascita con lui della “canzone popolare di successo o commerciale”, che nessuna attinenza però ha con la canzone rebetika vera e propria.
Dal punto di vista, infine, della “sonorità”, l’allontanamento dal “suono” rebetiko si compie con l’alterazione del suo strumento principe, il busuki (inserimento della 4a corda, potenziamento elettrico, acrobazie tecniche, eccetera). E questo stesso busuki da dolce strumento (a 3 corde) che era, fisicamente quasi timido. di estrema tenerezza, diventa un vero bombardamento di suoni; da discreto che era, quasi pudico, diventa luccicante di colori e di riflessi, volgare e sguaiato. E negli anni ‘50 l’espressione di moda “andare ai busukia” sostituiva la più dimessa ma sentita “andare ai rebetika”.
 La canzone archondorebetika è il primo scalino verso, da una parte, il genere musicale chiamato canzone popolare leggera (ελαφρολαικό) e dall’altra la cosiddetta canzone popolare d’arte (έντεχνο).
Mediante queste soluzioni musicali la tipica canzone popolare, cioè quella che sboccia presso la gente del popolo e si rivolge al popolo, inteso come “strato più basso” del popolo, si scinde in due filoni principali paralleli: il primo produce una canzone “popolareggiante” in modo eccessivo, molto orecchiabile, con melodie di facile presa, e costituisce la grandissima massa di canzoni di largo consumo popolare, inglobando in pratica tutte le classi sociali (quindi: popolare uguale largo successo di mercato); il secondo produce canzoni composte da musicisti di educazione classica (Chatzidakis, Xarchakos, Theodorakis) in un oculato amalgama di modi canzonettistici occidentalizzanti ed elementi della canzone rebetika tipica (con buona pace per la contraddizione in termini: come fa, infatti, una canzone “popolare”, cioè “incolta”, a essere nel contempo ”dotta”, “d’arte”?) e con particolare accentuazione di sonorità elleniche, quasi in esasperato rilievo, ciò che conduce a un vastissimo successo di pubblico.
Entrambi i filoni, che nel complesso formano la nuova “mentalità musicale” della popolazione greca, sono naturalmente sostenuti da un enorme dispiego di forze economiche incanalate in una rete di giganteschi interessi commerciali e discografici. Entrambi i filoni però, anche se a onor del vero hanno offerto saggi di grande bellezza melodica e poetica identificandosi con il diffuso, spontaneo “senso di grecità” che pervade in ogni occasione il cittadino greco, non possono ovviamente intendersi come “seguito” o “evoluzione” della canzone rebetika, ma delineano un nuovo tipo di canzone, una nuova tipologia musicale che contempera disparate modalità musicali tecnico-estetiche in composizioni di rapida orecchiabilità e appunto rispondenti alle esigenze socio-politiche dei tempi. Così l’originale canzone rebetika, conclusa la sua parabola produttiva alla fine degli anni ‘40, “violentata” e “seppellita” negli anni ‘50 e ‘60, ritorna in auge non più come creazione ma come “ricerca del passato” negli anni ’70, e come ritrovamento dell’anima popolare greca negli anni ‘80. 8)

canzone rebetika
Michaīl “Mikīs” Theodōrakīs.

Tuttavia, l’opera di “nobilitazione” della canzone rebetika intrapresa da Chatzidakis negli anni ‘50 dando inizio alla citata “canzone d’arte”, apparentemente benemerita, Dinos Christianòpulos ha modo di fortemente censurare, intuendone per primo le nefaste conseguenze, quando verifica che detto compositore “è stato il primo ad aprire la strada alla corruzione della canzone popolare”, tra l’altro alterando “la sua struttura aspra e riducendola in un che di dolciastro”. E pochi mesi più tardi, ampliando il discorso per comprendere anche Theodorakis, constata che i due musicisti “anziché seguire l’esempio di Skalkòtas assimilando i motivi popolari, che proprio essi stessi avevano riscoperto, si appagano con la loro capacità di offrirci svariati sciroppi popolareggianti”.
Nella medesima direzione Ilìas Petròpulos aggiungerà senza mezzi termini che Theodorakis e Chatzidakis, veri e propri becchini, hanno seppellito la canzone rebetika. D’altra parte, lo stesso Chatzidakis confesserà più tardi in che modo il suo intervento sulla canzone rebetika abbia contribuito al disfacimento di quella.
Comunque sia, la canzone rebetika, superata una breve eclisse alla fine del decennio 1980, con gli anni ‘90 ritorna nell’interesse generale, in particolare dei giovani. Vengono organizzati appositi ambienti di ascolto, dove complessi che riproducono organici degli anni passati ripropongono le indimenticabili sonorità della canzone rebetika classica, fino alle invenzioni di Tsitsanis degli anni anteguerra e dei suoi più dotati contemporanei e le caratteristiche interpretazioni che le avevano rese celebri.
Tuttora, nel secondo decennio del 2000, questi complessi attirano sempre il favore di giovani e meno giovani, i primi affascinati dallo spirito di libertà e indipendenza dei rebetes e delle loro musiche del cuore, i secondi per rivivere intramontabili memorie che hanno nutrito e segnato per sempre la loro vita.          

Storia e “mitologia”        

È luogo comune affermare che tutto ciò che “suona” come orientale è turco, e altresì che tutto ciò che è manifestazione di stile turchesco è per forza di cose orientale. E mentre suoni e cadenze mediorientali vengono piuttosto classificati come arabi tout court generalizzando sul fattore razziale, quando si tratta di espressioni turche, e addirittura anatoliche, il giudizio si riporta automaticamente e solo su un carattere prettamente “orientale”, come se l’essere turco s’identificasse nella sostanza con l’essere orientale, e viceversa.
In questo grave equivoco cadono tutti, con rarissime eccezioni, e non solo occidentali ma anche greci!
Esempio ne è Gail Holst, per la quale non sembrerebbe che la musica popolare greca (non specifica se di origine smirniota o pireota) possegga caratteri propri, echeggiando invece, secondo la studiosa australiana, arie turche, che in certa misura ne formano il sostrato. Afferma dunque la medesima che, accanto alla “musica popolare greca per secoli si udiva la musica turca” in quelle regioni e città dove viveva “una notevole parte di popolazione greca”, per significare che la canzone rebetika riflette analoga musica turca, che poi assimila e in certo modo “grecizza”. In parole povere, la  musica popolare (poi rebetika) greca non è una creazione autonoma e originale, ma “copia” o “trasforma” musiche turche adattandole al proprio carattere.
È chiaro che una simile concezione da una parte risulta troppo superficiale e dall’altra – e più importante – vuole ignorare i veri termini storico-culturali attraverso i quali ebbe origine e si svolse la musica orientale greca, per quanto concerne la produzione micrasiatica, precursore del tipo e ciclo rebetiko, e nel contempo vuole ugualmente ignorare del tutto le fonti e il “colore”  nettamente greci della produzione che si sviluppò nei territori dello Stato greco dal trentennio successivo alla sua istituzione (1832) fino all’arrivo dei profughi smirnioti (1922) e degli espulsi costantinopoliti.
È troppo facile, e fors’anche viene illogicamente spontaneo, affibbiare all’elemento greco delle coste micrasiatiche un’influenza, se non addirittura una derivazione turca. Ed è sin troppo facile asserire che tutto quello che sta incluso nella regione geografica ora denominata Turchia è turco, o almeno risente di inevitabili influssi turchi.
Si dimentica con molta facilità che le coste micrasiatiche dell’Egeo sono state sin dai primi tempi storici abitate da razze greche e che la Ionia non solo diede luogo a luminose creazioni architettoniche, specchio visibile del puro concetto ellenico dell’armonia, ma produsse anche uno dei fondamentali dialetti del ceppo greco.
E si dimentica infine che molto, molto prima dei turchi su quelle stesse coste erano i bizantini i primi e legittimi eredi delle tradizioni musicali greche antiche.
È vero, non vi sono dubbi che l’eredità musicale bizantina comprendeva non solo elementi dell’antichità greca, ma altresì non poche infiltrazioni di origine arabo-persiana, oltre certamente a consistenti espressioni provenienti dalle varie genti che fino all’arrivo in Asia Minore dei turchi abitavano nella regione e avevano le loro musiche popolari (e non erano certamente turchi!).
L’amalgama di tali contributi produce quello che viene chiamato “carattere orientale”, tipico della regione più vasta intesa come “oriente”, riscontrabile non solo nella musica ma anche nella poesia, nella filosofia della vita, nell’artigianato, nell’arte, nell’architettura. Un amalgama che fa parte integrante della cultura micrasiatica tradizionale e che trova nelle popolazioni greche ivi installate nei secoli passati e in quelle successive, più tardi emigrate, nei secoli XVI e XVII, i loro ideali destinatari e assimilatori, in una singolare e ammirevole durata di tempo, senza soluzione di continuità almeno dall’inizio del secondo millennio.
Sono pertanto le genti turche che, occupando l’Anatolia e poi giungendo fino alle coste egee dell’Asia Minore, trovano in loco diffusa l’“aura orientale” già preesistente, nella quale possono anche aver inserito alcune caratteristiche della loro particolare provenienza mongola, quindi tutt’altro che “orientale”, anche se nel corso del tempo avranno acquisito svariate tradizioni musicali da popoli stanziati nell’Asia centrale, anch’essi però del tutto estranei alla “natura orientale” tipica nell’arco est del Mediterraneo.
E se poi la terminologia della musica smirniota fino al 1922 (in Asia Minore) e fino a dieci anni dopo in Grecia era in prevalenza turcheggiante (e ai turchi a loro volta derivata per gran parte dagli arabi), ciò era dovuto semplicemente a ragioni tecniche di comprensione generale, oltre che ovviamente di uso in regioni politicamente turche. Non bisogna perdere di vista il fatto che le accordature strumentali e gli indirizzi modali utilizzati in quella che viene chiamata “musica turca”, ma anche nella musica “greco-orientale” degli smirnioti e costantinopoliti dei secolo XIX e XX, trovano i loro predecessori e ispiratori nella cultura bizantina e prima ancora nell’arte musicale greco-antica attraverso il filtro arabo.
Di conseguenza crediamo erri ancora la Holst quando sostiene che “gli elementi turchi sono più evidenti nelle vecchie canzoni rebetike e nella musica del caffè-aman, laddove utilizza il termine “turco” a sproposito (sarebbe stato molto più corretto dire “orientale”), nuovamente saltando a piè pari secoli di storia e di diverse influenze, come or ora esposto, e confondendo il significato di “orientale” con quello di “turco”.
In ultima e definitiva analisi pertanto non risulta che esista in Turchia o altrove una musica rebetika analoga e parallela a quella greca o che di quest’ultima sia la matrice. La musica rebetika3 è unica ed è greca. Ed è sentita come propria dal popolo greco nella sua stragrande maggioranza.
Contemperando l’indole della canzone demotica e la dottrina della musica ecclesiastica bizantina con lo spirito orientale della grecità ionica dell’Asia Minore, la canzone rebetika trova la propria identità e, nelle provocazioni dell’ambiente urbano e urbanizzato, si eleva nella coscienza e nella pratica di vita a nuova struttura poetico-musicale popolare, nel tempo ultima acquisizione patrimoniale che va ad arricchire la cultura ellenica nella sua millenaria sperimentazione.
Oggi la canzone rebetika non solo è atto vivente e storia, diletto e nostalgia: andando ben oltre ha raggiunto gli universali e stupendi spazi di una mitologia, sia pure tra virgolette. Ma è una mitologia più attuale che mai. E fors’anche di nuovo una dolce consolazione dell’anima in tempi truci di crisi politica, economica, umana e spirituale.

 

canzone rebetika

 

N O T E

1) Nel linguaggio musulmano è il luogo dove un uomo cerca di innalzarsi a uno stato di “santità”: è una specie di “monastero islamico” o anche “mausoleo” (Petròpulos).
2) Daìs è il pallicaro, l’uomo audace e virile che sfida i pericoli e i divieti.
3) Seretis, dal turco siret, indica l’uomo facilmente irascibile, intrattabile, che non scherza.
4) Con il Trattato di Losanna (1923) in pratica la Grecia perde tutti i territori ottenuti con il Trattato di Sèvres(1920): Smirne e una larga fascia costiera e dell’entroterra nell’Asia Minore, nonchè la Tracia orientale.
5) Non si può evitare di ricordare l’insensibilità, la malafede, la vigliaccheria, l’incuria e l’atteggiamento di sufficienza dello Stato greco nelle sue varie articolazioni di potere verso questi profughi greci dell’Asia Minore, i quali proprio a causa di quello Stato e della sua delittuosa politica di conquista degli anni 1919-1922, e sopra tutto dopo il Trattato di Losanna, da possidenti e benestanti si sono trovati a essere nullatenenti e straccioni, da titolari di una cultura e civiltà superiori si sono trovati a essere derisi e offesi, calpestati e disconosciuti (e, colmo dell’ironia, ritenersi fortunati di non essere stati massacrati dalle orde turche sui lungomari di Smirne).
E quanti di questi profughi (tanti!) con in mano la sola arma della dignità umana e nel cuore la trepida (e sempre tradita) attesa del legittimo patrio affetto, si sono trovati a fronteggiare da un lato le abnormi creazioni da parte dello Stato di sedicenti organismi umanitari di assistenza e sistemazione civile, specie della famigerata “Banca dei beni scambiabili” (Τράπεζα ανταλλαξίμων) per la gestione delle proprietà turche a favore (!) degli stessi profughi greci, e dall’altro la propria completa ignoranza delle astuzie burocratiche e dei cavilli legislativi e amministrativi messi in opera dalle autorità centrali e dai loro uffici periferici. Nessuno ha mai calcolato e quantificato di questi profughi le atroci delusioni e la lunga, lunghissima attesa di irrealizzate promesse e di un decente futuro che almeno in parte compensasse i beni perduti nella patria di nascita, στην πατρίδα, come solevano esprimersi con tenerezza, ben più greca, lì all’estero, della grecità della Grecia stessa.
E nessuno ha mai parlato e denunciato (e se l’ha fatto, nessuno lo ha sentito) la beffa per di più subìta da moltissimi di questi profughi, i più sprovveduti e ingenui, ai quali non solo non è mai stato dato in gratuita proprietà, in cambio dei beni forzosamente abbandonati e presi dai turchi, un sia pur piccolo appezzamento di terra prelevato dalle immense proprietà lasciate dai turchi, ma addirittura sono stati costretti a sobbarcarsi all’onere di comprare dalla predetta famigerata “Banca dei beni scambiabili”, con danaro acquistato a costo di ben immaginabili gravissimi sacrifici, un modestissimo per forza di cose terreno o un minimo alloggio…
Questo è stato l’affetto della Madrepatria per i suoi profughi più bisognosi e meno “traffichini”. E ne rimane ancora qualcuno che ne testimonia la verità riaprendo le vecchie piaghe della sofferenza e della delusione, anche se purtroppo il tempo via via elimina anche questi “fastidiosi” testimoni.
Sul cattivo trattamento dei profughi micrasiatici e costantinopoliti da parte del governo greco, v. anche Marula Kliafa, Da Seifullah a Tsitsanis, vol. 1-3, ed. Kedros, 1996-2000: “ai profughi non furono dati né abitazione, né pane, neppure una parola di consolazione”.
6) Per “catastrofe micrasiatica” si suole intendere il tragico complesso di avvenimenti verificatisi dopo il fallimento della spedizione militare greca in Asia Minore e la sconfitta dell’esercito greco, che dovette abbandonare alle violenze e distruzioni turche non solo Smirne e tutte le città a maggioranza greca sulle coste micrasiatiche, ma sopra tutto la popolazione greca stessa, lasciata in balia della vendetta turca e dell’indifferenza totale dei Paesi occidentali, pur spettatori delle stragi e della disperazione delle genti greche abbandonate e disfatte. Enorme ne è la responsabilità del governo greco di allora.
7) È del 1921 la legge sugli stupefacenti votata in Grecia. Una legge però posta in atto solo nel 1937 con l’avvento al potere della dittatura. Non si può quindi non notare il fatto che volontariamente lo Stato abbia tenuto quasi inoperante la legge durante ben 16 anni: infatti, non può essere che in pratica inoperante una legge la cui applicazione prevedeva un carcere di… 3 giorni per chi venisse sospreso a fumare hascisc, con la possibilità di abbreviare o cancellare la “pena” tramutando la prigione in una multa pecuniaria non proprio insostenibile.
8) Theodorakis, In merito alla rebetomania, le cause e le sue conseguenze, in volume Star System, ed. Kaktos, Atene 1984. Continua il compositore nella rotta intrapresa dieci anni addietro e mentre condanna “l’incredibile campagna a favore della canzone rebetika”, sentenzia che fonte della musica rebetika è la musica orientale, in seguito alla quale “alcuni strumentisti greci hanno cominciato a mettere parole greche su canzoni turche e a poco a poco, sempre nell’ombra della musica turca, a comporre essi stessi le loro prime canzoni”. Theodorakis, molto probabilmenmte  influentazo da una linea ideologica imposta, persevera nell’errore quando afferma acriticamente di dubitare che nel ventennio 1925-1945 queste canzoni (rebetike) siano diventate “possesso del popolo greco lavoratore”. E, terminando la sua censura, non esita, questa volta perorando pro domo sua (come fatto da Chatzidakis), ad asserire che la crescente “rebetomania” consiste in una “malattia della Grecia post-dittatoriale al fine di annullare la canzone popolare d’arte”. Sono dichiarazioni, queste di Theodorakis, che, mentre da un lato osservano sicuramente la linea politica seguita dal Partito Comunista Greco in merito al rebetiko, dall’altro si pongono contro un generale interesse verso questa musica che l’apparato statale esalta con ogni possibile mezzo di comunicazione di massa nei quali la produzione rebetika viene proiettata ai più alti livelli di ascolto e di visione attraverso un grande battage pubblicitario, continui programmi radiofonici e televisivi, presentazioni concertistiche e retrospettive.