La minaccia all’economia e alla comunità friulane ad opera della follia militarista

Si può ben dire che il problema delle servitù militari abbia, da sempre, angustiato le terre del Friuli. Ne fanno fede alcuni interessanti documenti che Tarcisio Venuti ha raccolto per il settimanale diocesano di Udine. (1) Scrive il Venuti: “I Patriarchi di Aquileja, principi e signori del Friuli che, dalla montuosa regione della Carnia, allora paese povero e scarso di abitatori, poche rendite potevano ritrarre, sulla fine del see. XIII, introdussero l’uso di investire a titolo di feudo ministeriale perpetuo, a singole persone o a famiglie del luogo, i terreni della chiesa di Aquileja, così boschivi come prativi, e sedimi di case o di molini, con l’obbligo, per il vassallo, di giuramento di fedeltà e del servizio in tempo di guerra, con soldato armato a cavallo. La classe di questi feudatari era formata da agricoltori e contadini, e teneva un posto di mezzo tra la nobiltà ed il proletariato.

Si chiamano in lingua latina Dienstamanni, o corrottamente, Dinesmanni, nome derivato dalla voce tedesca Dientsman, cioè uomo ministeriale. Nella lingua friulana si dissero Gismans, italianamente Gismani.

La repubblica veneta conservò questa istituzione, che ebbe fine con essa quando, svincolati i beni dai vincoli feudali, cessò anche l’obbligo del servizio militare per gli infeudati.

Il patriarca Giovanni di Moravia, che tanto fece in favore della Carnia, in un privilegio del 9 agosto 1392, tra le altre disposizioni, decretava che i Gismani fossero esenti dall’ufficio di esploratori, dalla custodia dei passi alpini ed altre gravezze e servitù rusticane, tranne che dagli obblighi della milizia equestre.

È da credere che tali prescrizioni non fossero sempre osservate, poiché lo stesso patriarca, sulle lagnanze di un certo Rustolino di Luincis, a nome dei Gismani, e contro le esorbitanze dei Capitani della Carnia, con una sua lettera del 4 agosto 1393, imponeva al Gastaldo della Carnia che facesse rispettare dai capitani suddetti le immunità, ingiungendo al Gastaldo la esecuzione dei suoi comandi”.

In Villotte friulane moderne, di Giuseppe Malattia della Vallata, alle pagine 140-150, vengono riportati questi fatti: “Dai documenti si può apprendere che la repubblica di Venezia li aveva giustamente in concetto di poveri [le popolazioni della Carnia, nda] e, come tali, li esentava dal pagare le solite gravezze. Poveri lo furono sempre questi paesi e, purtroppo, lo sono ancora, malgrado qualche apparenza in contrario. Per la loro lealtà, la Dominante più volte li gratifica col titolo di fedelissimi, ed affida loro il delicato ed importante compito di guardare i passi compresi tra il Cadore e Cividal di Belluno, in tempi di guerra”.

Ed ecco una di queste lettere di esenzione: “Noi deputati della Patria, avendo veduta l’esenzione concessa dall’Ecc.mo Senato alle ville di Tramonz, Pofabro, Frisanco, Barcis, Andreis, Erto e Cimolais, per lo servizio che dette ville prestano pel serenissimo dominio, nel tagliare, in quelle montagne, legnami per la casa dell’arsenale, e custodire, in tempi di guerra, li passi verso il Cadore e Cividal di Belluno […] non abbiano ad essere descritti in detti fuochi di lista, né ascritti per alcuna gravezza ordinaria né straordinaria, giusta la mente ed il privilegio di detto Ecc.mo Senato, in quorum, etc. Utini, die 6 marti 1625”.

Segue un’altra ducale, molto importante ai fini della esenzione: “Ducale a S.E. Tiepolo Catasticat. Aloysio Pisani Dei Gratia Dux Venetiarum Nob. et Sapianti Viro Nicolò Tiepolo Catasticat, nostro in terra – ferma fideli dilecto salutem et dilectionis affectum. Inserte alle presenti vi trasmetemo in copia, due lettere di questo collegio di X Savi, l’una sopra informazioni dell’ora ritornato Luogotenente di Udine, E. Antonio Grimani, l’altra sopra accetta nostra del 29 agosto passato. Confermandosi entrambi ciò, che già contengono le stesse informazioni e lettere, rispetto alle esenzioni di gravezze accordate e mantenute per li loro beni, a comuni di Tremonti di Sotto, Tremonti di Sopra ed altri otto individuati, e cioè: Navarons, Frisanco, Pofabro, Andreis, Barcis, Claut, Cimolais ed Erto, e cioè nella prima lettera, come egualmente in ordine al ritrovarsi pure esenti li popoli Schiavi, secondo le notificate terminazioni de’ Sindaci inquisitori in terra ferma, o fede comprobative, dichiara il Senato che farsi non abbia catasticazione alcuna de’ beni spettanti a riferiti comuni, e così pure agli altri posseduti da essi popoli Schiavi. Ripetto quelli, comprendono le sole ville nominate nelle fedi, e nella regolativa terminazione dei predetti sindaci in quisitori del 24 settembre 1722, e che servì di regola a’ Patti nostri, come d’un maggiore impegno a tutte le sopradette popolazioni, per continuare nella costanza della loro fede. Data in nostro Ducali Palatio, die prima octobris, 3, 1740. Marco Pizzano, seg.”.

L’avvocato Carlo Podrecca su “Slavia Italiana” descrive le esenzioni delle Vallate del Natisone: “La ripetuta ducale 1492,26 settembre, chiama gli Slavi ‘Fidelis nostri incolae montanearum et Convallium Civitas Forijuli’ e li riafferma nei loro privilegi, perché hanno il peso di custodire con sacrificio i passi, tenerli bene in ordine e sicuri contro le genti barbare”.

“Il decreto del 30 settembre 1622 del Provveditore di Cividale”, continua il Podrecca, “ricorda il servizio da loro prestato nella guardia dei paesi confinanti con gli arciducali. Un rapporto del segretario sopra i feudi, approvato con ducale 1628, 3 agosto, dice ‘che tra i fedelissimi, svisceratissimi sudditi di sua Maestà, devono annoverare gli uomini e gli abitanti delle convalli et contrade della Schiavonia, detti di Antro et Merso […] confinanti con gli arciducali, occasione et specialmente nelli ultimi moti dei quali in ogni tempo et Friuli hanno dimostrato con li petti et col sangue la fede vera ed ardente divozione verso questo Ser.mo Imperio’”.

La ducale 1663, 11 aprile, li dice “Fidelissimi populi d’Antro et Merso, situati appo l’Alpi e confinanti con gli arciducali”, e conferma privilegi per “la constantissima fede ed aggravi pesantissimi che sostengono di custodir unquam importantissimi passi in tempo di guerra e di peste a proprie spese”.

Queste attestazioni di conferma di privilegi e di riconoscimenti durarono fino all’anno 1787: “… e sulla dimostrazione che l’unico tributo a cui la Schiavonia si riconosceva pronta e capace, era quello della vita e del sangue de’ suoi generosi figli, a pro dello Stato ed in difesa del suo adorato Principe”.

Il Podrecca elenca anche alcuni di questi privilegi: “Ducale 1455, 16 luglio, conferma precedenti lettere ed esonera gli slavi dalla contribuzione per il legname delle navi. Nel 1668, 21 marzo, vengono annullate le tre precedenti sentenze, e si ordina di non astringere gli abitatori delle convalli a gravezze, e di osservare le loro solite et antique immunità. Nel 1662, 30 settembre, esce un decreto del Provveditore di Cividale che, in base agli ordini del Senato, “fa pubblicamente intendere come gli abitanti delle convalli di Antro et Merso, come da pubblica munificenza, vengano considerali esenti da ogni dazio”.

Le lettere presidenziali del 18 e 28 marzo 1642, commettono di “non doversi molestare le convalli per dazio acquavite”. Nel 1644, 21, abolizione della tassa sul vino, mentre il 5 ottobre 1625 viene istituita l’esenzione dalle gabelle e dal dazio di soldi 15 per macello. Il 3 giugno esce una lettera dei Savi del Senato “che essendo le convalli libere ed esenti da tutte le gabelle, devono essere esenti dalle tasse”. Nel 1660, 13 settembre, i Venti Savi del Senato ordinano al Provveditore di Cividale che siano mantenuti i privilegi delle Convalli, infinite volte confermati dal Senato. “Nel 1663, 11 aprile, conferma delle precedenti: li populi d’Antro et Merso, dichiarati liberi, immuni et esenti da ogni et qualunque gravezza”. Nel 1668, 14 dicembre, “I Venti Savi esonerano le convalli anche dalla contribuzione dei galeotti”. Nel 1722, 10 luglio, ordinanza degli inquisitori di terra ferma che esenta le convalli dal pagamento del companatico. Ancora, 1722, 28 agosto: “Ducale dichiarante non obbligante le convalli a notificazione di beni, né a pagamento di companatico, né di qualsivoglia gravezza”.

È chiaro che queste concessioni della Serenissima vengono date per la contropartita militare che le popolazioni del Friuli sopportavano a causa della sicurezza dei confini della repubblica veneta, che considerava il Friuli una specie di avamposto. Infatti, in Friuli, Venezia costruisce la sua sicurezza, anche mediante le fortezze, come avviene per quella di Gradisca, nelle vicinanze di Gorizia. Quando, nel 1420, il Patriarcato di Aquileja cade nelle mani di Venezia, il conte di Gorizia (la contea di Gorizia, di cui Gradisca fa parte, pur di investitura patriarcale, faceva parte a sé) si reca a Venezia a fare atto di vassallaggio.

Nel 1500 muore Leonardo, conte di Gorizia, senza lasciare eredi; i veneziani, che si attendevano che la contea dovesse passare in loro mani, hanno un momento di esitazione, che permette agli Asburgo di occupare la città, facendo valere i diritti della forza; d’altra parte i veneziani avevano però costruito, alla fine del 1400 a Gradisca, un’importante fortezza (per la costruzione della quale enormi erano state le privazioni della popolazione) che non intedevano perdere. All’inizio del XVI secolo (1508) scoppia la guerra tra la lega di Cambrai e Venezia che, in un primo momento, occupa Gorizia e la fortifica, ma successivamente la perde, assieme al Friuli, che viene tuttavia riconquistato. Gorizia e Gradisca rimangono in mano austriaca – salvo brevi parentesi – fino al 1918. Persa Gradisca, i veneziani decidono di costruire una “delle più forti piazze che l’arte potesse formare, per chiudere agli stranieri l’adito dell’Italia (2). Viene cosi ideata la città-fortezza di Palmanova, a pochi chilometri da Udine, alla cui costruzione e finanziamento concorrono le città della Serenissima e, soprattutto, i poveri paesi della Patria del Friuli. Abbiamo anche i dati finanziari relativi a quella “grossa” (ma inutile militarmente) operazione: su un totale di 137 mila ducati, il Friuli dovette concorrere con una somma di 40.500 (3),

La fortezza, iniziata nel 1593, risulterà un capolavoro di ingegneria, ma non servirà a niente, come molte delle attuali servitù militari.

Oltre che per la costruzione delle fortezze, Venezia si serviva dei friulani per le cernide, gruppi di persone che custodivano il passaggio dei numerosi valichi, facilmente penetrabili, che si trovavano (e si trovano) nella regione. Una politica che, al di là del tangibile risultato di non dover impiegare proprie forze e risorse nella difesa, si traduceva in fenomeno di colonialismo anche militare, che accresceva il disagio delle popolazioni rendendole sempre più povere, come si può rilevare da diversi documenti che ci sono pervenuti.

Nel 1480, ad esempio, a Buttrio, i contadini protestarono per un ordine del Luogotenente di andare a lavorare nelle fortificazioni della Chiusa, mentre nel 1503 il Parlamento friulano (l’istituzione patriarcale che, svuotata di gran parte delle competenze proprie, era stata mantenuta anche dalla Serenissima), indirizzava alla Serenissima una richiesta nella quale si pregava “La Signoria di liberare i contadini dai tanti cariaggi imposti per futilità dall’Arsenale, dalle prestazioni d’opera per le fortificazioni di Monfalcone e dall’obbligo imposto alle cernide di guardare la fortezza di Gradisca anche in tempo di pace, tasse ordinarie e straordinarie pel mantenimento delle milizie” (è forse in analogia con questo che i paesi sedi di esercitazione devono predisporre gli alloggi per la truppa e per gli ufficiali) “e per pagare gli alloggi di queste, per le fortificazioni di Treviso e infinite prestazioni personali, gravose in special modo per la vastità della provincia, che ponevano i contadini in condizioni lamentevoli”. (4)

È vero che, in parte, Venezia cercò di favorire i contadini, ma lo fece perché poteva avere una forza disponibile per tenere a bada i nobili friulani, tutti presi dalle lotte tra le loro casate. Comunque sia, la politica delle imposizioni continuò: secondo il Paschini (5) i Carnici, tra l’altro, erano tenuti a custodire tredici passi a proprie spese, mentre per la costruzione della nota fortezza di Osoppo, i Savorgnani – signorotti locali molto ben visti da Venezia – oltre “a potersi servire per le opere di questa città contadinanza” (6) cercarono di far lavorare alla costruzione della stessa anche i montanari di Forni. Ai montanari friulani venivano tolti i boschi per l’Arsenale di Venezia, ed erano anche costretti “a lavori alle fortezze dentro e fuori la Patria, trasporti del sale, dei roveri, delle robe dei luogotenenti e degli altri nobili veneziani nel loro entrare ed uscire dalla Patria”.(7)

Ed è anche per questi motivi che durante il periodo della dominazione veneta appare nella storia del popolo friulano la piaga dell’emigrazione.

Si può dunque affermare, senza tema di smentite, che “Venezia, per meglio difendere i suoi interessi, ha trasformato il Friuli in un campo di battaglia”.(8)
Del resto, anche le più importanti opere di pubblico interesse sono subordinate o limitate dal prevalere degli interessi militari. L’anno 1866 il Friuli (esclusa Gorizia e la sua provincia, il distretto di Cervignano e della Val Canale, che rimangono all’Austria) viene unito al Regno d’Italia. In quegli anni si assiste a un certo fervore di iniziative, con la costruzione di diverse infrastrutture, soprattutto ferroviarie: i tronchi Udine-Pontebba, Casarsa-Portogruaro-Mestre, Casarsa-Spilimbergo-Gemona, Udine-Cividale, Udine-Palmanova-Latisana-Portogruaro; tuttavia, appunto per l’importanza che l’autorità militare dava ai trasporti per ferrovia, e per la posizione strategica e di confine della regione, queste linee non verranno allacciate con quelle austriache di Cervignano e di Pontebba.

Lo scoppio della prima guerra mondiale trova il Friuli in una situazione di sviluppo economico, rispetto alla precedente situazione: la provincia aveva sviluppate diverse attività economiche, e si può dire che, almeno i primi due anni della guerra, non abbiano recato grossi danni alla sua economia. La regione gode, in un certo senso, da parte della autorità militare di un trattamento che si potrebbe definire di favore: cresce infatti il numero delle costruzioni e delle opere militari, specialmente nel settore delle strade di montagna. Promotore di queste realizzazioni fu il tenente generale Clemente Lequio, che “concepì ed iniziò, col concorso dei comuni, una vasta rete viaria che avrebbe dovuto collegare tutti i comuni della Carnia tra di loro e con il Cadore”.(9)

Lo scopo principale era quello di assicurare la mobilità dei reparti e i rifornimenti delle truppe, ma bisogna riconoscere che il tenente generale Lequio si preoccupò anche di venire incontro alle necessità delle popolazioni locali.

Sempre per esigenze belliche furono create due tramvie, che percorrevano le valli del Bût e del Degano (la Tolmezzo-Paluzza di km 16,5 e la Villa Santina-Comeglians di km 14). I fatti successivi, culminati con la rotta di Caporetto comportarono la distruzione dell’economia e della comunità friulana; la bestialità della guerra colpì ferocemente questa regione, che vide svanire rapidamente una sorta di illusorio “benessere”, precipitando nella povertà più nera, tanto più che il Friuli venne anche colpito dalla seconda guerra mondiale e non riuscì a riprendersi che negli anni Settanta, anche se il terremoto del maggio e del settembre del 1976 rimetterà nuovamente le cose in discussione.

 

NOTE

(1) T. Venuti, Esenti da tasse le zone soggette a servitù militari, su “La Vita Cattolica”, 20.7.1968 pag. 3.
(2) P. Paschin, Storia del Friuli, ed. Aquileja, Udine, 1954, vol. II, pag. 411.
(3) cfr. Francesco di Manzano, Annali del Friuli, aggiunta all’epoca VI, ed. Doretti, Udine, 1879, pag. 176.
(4) P.S. Leicht, Un movimento agrario nel Cinquecento, in Rivista Italiana di Sociologia, fasc. VI, 1908, pag. 831.
(5) P. Paschini, Notizie storiche della Carnia, Tip. Camia, Tolmezzo, 1927, pag, 101.
(6) J. Valvason-Maniago, Descrizione dei passi e delle fortezze che si hanno a fare nel Friuli e la distanza dai luoghi, manoscritto (1509) citato in: A. De Cocco, La posizionedi confine come condizionamento alle attività economiche nel Friuli-V.G., tesi di laurea, Facoltà di Scienze politiche di Trieste, anno acc. 1969-1970.
(7) P. Paschini, op. cit. vol. II, pag. 381.
(8) A. De Cecco, op. cit., pag. 36.
(9) A. De Cecco, op. cit., pag. 50.