Quattro chiacchiere contro l’Unità d’Italia in compagnia di Nanni Svampa.

Nanni Svampa è, per noi di Etnie, più che un “personaggio”, un amico, un collega e, perché no? un compagno di fede (ci perdoni il termine questo vigoroso anticlericale); e proprio la sua coscienza etnica ci impone di farlo conoscere al nostro pubblico… farlo conoscere sotto questa luce inedita, s’intende, in quanto non vi è chi nel Nord non l’abbia almeno sentito nominare. Se si esclude la trionfale parentesi – ora definitivamente chiusa – con i Gufi, il nome di Svampa è legato a centinaia di spettacoli, trasmissioni radiofoniche e televisive, film, libri di cultura popolare, dischi. A lui si deve la trasposizione di Brassens in milanese, una lingua anch’essa celtoromanza che ha reso perfettamente il vigore del testo francese. Al di là del fatto cabarettistico, va detto, Svampa si è dimostrato uno dei maggiori studiosi della cultura etno- musicologica padana e lombarda in particolare. Non possiamo escludere, maliziosamente, che a questa coscienza non abbia contribuito l’incontro e la collaborazione con gli “etnici”, ma è un fatto che egli ha da tempo aperto le porte, nei suoi spettacoli, a gruppi di “area celtica” (e quindi con una forte connotazione nazionalitaria) laddove altri showmen popolari non si sono mai sollevati dalla mediocrità vernacolare e dalla facile demagogia – stile “classi subalterne” – all’italiana. Ma ora facciamo parlare Svampa…

Qual è la tua posizione nel mondo della cosiddetta cultura popolare?

Devo dire che ho aggiornato le mie conoscenze rispetto alle fonti di studio che avevo una volta, quando mi occupavo in altri termini della questione. Ho così incontrato questi gruppi di giovani – Lionetta, Ciapa Russa, Bes Galili, eccetera – che hanno riproposto la strumentazione antica e un modo di cantare fedele alla vera tradizione benché spesso creativo. Ora io non è che mi occupi solamente di cantare: ho appena registrato “Folkconcerto” per la Terza Rete RAI che rappresenta un’indagine dei nuovi modi di riproporre la musica popolare, dall’osteria alla risaia al nuovo modo colto, discutendo anche a lungo con Sonaglia, l’esperto in studio, sul significato di “popolare”: termine che non necessariamente si identifica con dialettale, e viceversa; popolare è spesso la canzone in lingua italiana… E poi bisogna vedere l’influenza della musica americana, dei rockettari… Insomma, un ragazzo che suona la chitarra non è influenzato dai suoi bisnonni, ma, per bene che vada, da Bob Dylan, per male che vada dal rock decadente.

Parlavamo di una nuova coscienza etnica…

Ti riferisci a me? Ah be’, certo, infatti: da una parte c’è l’incontro con questo nuovo modo di intendere la cultura (e sono cose che senti, cominci a renderti conto che hanno un maggior peso nella rivalutazione del patrimonio etnico del Nord), dall’altra, parallelamente, una situazione sociopolitica che ti fa girare i coglioni, guarda caso…

Comunque, in passato tu nominavi spesso il dialetto: ora, mi sembra, lo dici tra virgolette e specificando – anche sul palcoscenico – che si tratta di lingua.

Va be’, parlo di dialetto perché è un modo di dire: ho sempre sostenuto che si tratta di una vera lingua. Ma, al di là dell’aspetto formale della definizione, mi sembra importante rendersi conto che questo è un patrimonio che nessuno tutela. A Milano cosa abbiamo, ad esempio? Il teatro di Mazzarella e il Festival della canzone meneghina; come dire che non esiste una struttura che si faccia carico di valorizzare e difendere la nostra cultura etnica. Io, portavoce bene o male di queste tematiche, non ho nessun supporto da parte dell’Amministrazione. Gli Svizzeri, perbacco, quelli sì…

Bella forza… I Ticinesi sono padani non sottoposti al governo di Roma.

Sì, ma non è solo quello. Loro non hanno metropoli come Milano e Torino, sono montanari e provinciali nel senso buono; anche da noi la maggiore conservatività la trovi sulle montagne. E poi non hanno l’immigrazione. C’è da dire, comunque, che hanno gli strumenti per tutelarsi, vivendo in uno stato federale: se la Svizzera non fosse tale, evidentemente qualcuno finirebbe per prendere l’egemonia. La loro lingua è il lombardo, e solo di riflesso hanno ricevuto l’italiano come derivato dal toscano. Insomma, quando uno va in Svizzera si sente molto lombardo… Che poi, io dico Svizzera, ma per Svizzera intendo solo il Canton Ticino. Forse nei Grigioni avrei già dei problemi!

Intanto siamo qui…

Ma sta crescendo, nella nostra gente, questo bisogno di autonomia. Non è un rigurgito di razzismo, ma certo, ormai, sono tutti insofferenti alla meridionalizzazione. Non è tanto, forse, un atteggiamento rivolto al singolo immigrato – più o meno onesto, più o meno lavoratore – quanto diretto contro il potere centrale. Il settentrionale si rende conto di non essere tutelato nella propria identità, e subisce ciò come un insulto. Formalmente, se vuoi, la gente si accanisce nel solito odio contro il Sud, ma io sono convinto che il vero bersaglio sia il potere centrale.

Tu credi, insomma, che la soluzione migliore sia l’autonomismo.

Guerra! Una guerra di secessione coi cannoni…

Questo cos’è, il famoso “ma non lo scriva”!?

Ah, ah. No, a parte gli scherzi, ritengo che ogni regione dovrebbe avere lo statuto speciale; come primo passo, naturalmente, per arrivare a uno stato federativo. A Roma però non ci sentono.

E non vedi l’indipendenza della Padania dall’Italia?

Sì, ma non la vedono loro! Quindi, o gli fai guerra, o ottieni l’autonomia con i voti. O almeno lo statuto speciale per le regioni del Nord. Per autonomia, sia chiaro, intendo anche l’autonomia economica e amministrativa, cosicché i soldi, alla fin fine, non prendano nuovamente altre vie di fuga. Quanto a come suddividere amministrativamente il Nord, be’… Tu, quando parli di Padania lasci fuori il Veneto; forse perché c’è la Liga…

No, perché etnicamente…

Ma, io non ci vedo poi tanta differenza, né mi sembra che un bergamasco o un occitano si assomiglino di più solo perché sono celtoromanzi. Quello che conta è rilevare le nostre comuni radici centroeuropee.

Va bene l’autonomia da Roma; ma come fare se la maggioranza degli abitanti dell’eventuale entità autonoma è forestiera? C’è il rischio che Roma continui a comandarti attraverso di loro.

Se però l’autonomia la vuoi veramente, se la senti come una tua necessità, a quel punto prendi in mano le leve-chiave della situazione. Prendiamo i lombardi, ad esempio; se un lombardo vuole vivere la propria autonomia, si deve rendere conto che non può, per far funzionare le cose, escludersi dal tessuto politico come ha sempre fatto il nordico rispetto a Roma. L’altro giorno sentivo di un politico che istigava i giovani del suo partito, giovani del Nord con problemi di occupazione, a inserirsi nei posti di lavoro tradizionalmente occupati dai meridionali. È, come dire, una questione di ricambio. Perché qui è un problema numerico: a meno che non decidiamo tutti di dar retta al Papa e di non prendere la pillola, e di fare una battaglia a suon di figli… Insomma, la maggioranza è quella che è; d’altro canto non è neanche giusto dire: “Adesso fuori!”, discorso che mi sembra superficiale e anche scorretto. L’importante è che le strutture vadano in mano a funzionari in sintonia con il carattere della gente.

L’uno per cento di quanto abbiamo detto è di regola sufficiente per essere tacciati di razzismo.

A me, devo dirti, delle tacciate non me ne frega niente: è trent’anni che cercano di darmi una definizione. In ogni caso non sento questo come un atteggiamento di razzismo, ma come il legittimo desiderio che ciascuno si gestisca a casa propria come meglio crede. E comunque è colpa nostra, sai, se ciò non è avvenuto. Da sempre la classe dirigente del Nord non ha voluto prendere in mano i posti politici, al governo centrale, e di conseguenza questi sono passati ai professionisti di altre zone che ne hanno fatto una delle poche professioni disponibili. No, è inutile che mi dici che il governo ha inteso italianizzare il Nord con funzionari allogeni: se tu non ti candidi, certo che lo fa apposta, prima o poi!

Come concludere?

Be’, io vado in Svizzera, voi fate quello che volete!