foto di Manuela Macori

Più vicina alle stelle, così si può definire l’isola di Makatea, il cui cielo splendente ha una luminosità unica, grazie alla sua lontananza dal mondo e all’abbandono in cui versa. Abbandono, sì, perché quest’isola – elevata, non un atollo –  appartenente all’arcipelago delle Tuamotu (che vanta altre 77 formazioni madreporetiche a forma di anello irregolare) ha avuto un passato glorioso.
Makatea in reo ma’ohi, la lingua tahitiana, significa superficie corallina tormentata, e di rocce ben aguzze se ne possono trovare a volontà passeggiando appena fuori dal piccolo villaggio sull’altipiano. Le sue bianche falesie calcaree si avvistano sin da 20 miglia di distanza quando si arriva con il mercantile, ché non esiste altro modo per arrivarci se non a bordo di una sudicia imbarcazione.

La sua peculiarità orografica è la laguna interna “rialzata” a circa 100 metri d’altezza dai movimenti tettonici generati dalla formazione dell’isola di Tahiti. La superficie del piccolo altipiano si presenta come una bacinella, corrispondente all’antica laguna, piena di depressioni riempite di fosfati originati dal guano e dai cadaveri degli uccelli che vivevano in gran numero sull’isola. Per reazione chimica, il guano agisce sul calcare corallino generando un fosfato tricalcico ad alto tenore. Il minerale si presenta sotto forma di sabbia di fosfato oppure in strati solidi duri come roccia.

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Estrazione dei fosfati in una foto d’epoca.

Gli operai che lo estraevano a mano, scavando con pala e piccozza, erano pagati per il numero di carriole che riuscivano a riempire ogni giornata di lavoro. Una volta piena – circa 100 chili di materiale – correvano tenendola bene in equilibrio su un lungo percorso di tavole, per poi svuotarla su uno dei numerosi nastri trasportatori che avrebbero versato il carico nei vagonetti. Un operaio poteva estrarre fino a 5 tonnellate al giorno. I vagonetti arrivavano al porto trainati dalla locomotiva: Makatea è l’unica isola della Polinesia Francese ad avere una strada ferrata!

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Il treno di Makatea.
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La gettata Saibert.

La linea ferroviaria di 7 chilometri e una funicolare, dove i fosfati viaggiavano dentro i panieri sospesi, permettevano di superare il dislivello fino al porto; qui, un lungo sistema di passerelle, la gettata Seibert soprannominata “il coccodrillo”, caricava il materiale direttamente sulla nave in attesa fuori del porto in acque sicure, non potendosi accostare alla piattaforma di corallo che circonda l’isola.

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Il nastro trasportatore.

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Lungo questi 106 metri di struttura metallica posta 50 metri sopra il livello del mare, costruita nel 1954 e costata ben 120 milioni di franchi, transitavano ogni ora 500 tonnellate di materiale.
La compagnia mineraria CFPO possedeva una propria nave, La Cholita (120 t), comprata nel 1903,  che sostituì nel 1920 con L’Océanien (308 t) e infine con L’Oiseau des Îles, un veliero a tre alberi di 400 t che trasportava la manodopera reclutata per l’annualità, caricando 160-180 persone per viaggio, da Makatea a tutti gli arcipelaghi della EFO (Établissements français d’Océanie), ma anche verso le Isole Cook; serviva a rifornire l’isola di mercanzie e vettovaglie. Erano necessarie 12 ore per navigare da Tahiti a Makatea, oggi ne bastano 6. L’ultimo battello in servizio sarà L’Oiseau des Îles II, una nave da cabotaggio di 48 metri.

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La funicolare.

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Nel 1933, estraendo il materiale a 50 metri di profondità, venne scoperta una falda freatica, il cui pompaggio si effettuava mediante la grande pala eolica (abbattuta dall’ultimo ciclone).
Makatea fu probabilmente scoperta il 13 febbraio 1606 dal navigatore Pedro Fernandes de Quiros. Venne soprannominata “isola della guarigione” dal navigatore Roggeven il 22 luglio 1722, grazie alle erbe che aveva potuto cogliere per combattere lo scorbuto. Nel 1820, Bellingshausen vi catturò 4 indigeni durante il suo passaggio, dei 200 che allora vivevano sull’isola, da lui stesso descritti come laboriosi.
Migliaia di uomini di tutte le razze hanno lavorato a Makatea, gli operai raggruppati a seconda della loro comunità d’origine. Fu l’unico sfruttamento di tipo industriale nella storia della Polinesia: per la prima volta venne introdotto il lavoro a salario con orari fissi che la maggior parte degli abitanti delle isole polinesiane ancora non conosceva.
“Si lavorava 8 ore al giorno. Si cominciava alle 6 e si terminava alle 16.30”, racconta Viritua, un anziano lavoratore della miniera. “Faceva molto caldo in cantiere, e un uomo a turno era incaricato di distribuire l’acqua. Prima non si godeva il giorno di riposo settimanale, in seguito abbiamo ottenuto il sabato”.

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I convogli trasportavano anche i lavoranti.

Iniziò così un nuovo modo di nutrirsi e vestirsi: ogni cosa veniva acquistata in negozio, dove c’era tutto l’occorrente per sopperire alle necessità dei lavoratori e delle loro famiglie. Questi disponevano di elettricità, di un ospedale con medici e infermieri (necessario per i frequenti incidenti), di una scuola, di campi sportivi e persino di una stazione radio. Fu un fenomeno di acculturazione… ammesso che di cultura si possa parlare… avvenuto attraverso il lavoro, nella pura tradizione paternalista o meglio colonialista dell’epoca, al tempo stesso efficace e rassicurante.
Nel momento di massima attività furono impiegate circa 3000 persone. Un solo gendarme doveva garantire l’ordine e – per quanto questo storico personaggio sempre vestito di bianco fosse rispettato – le baruffe scoppiavano con frequenza, anche grazie alle bevande alcoliche, proibite ma vendute sottobanco dai commercianti cinesi.
I principali acquirenti dei fosfati erano l’Australia e la Nuova Zelanda, che li scambiavano con grano e prodotti alimentari, e anche Honolulu e l’India.
Il 1966 fu l’ultimo anno di sfruttamento, dopo ben 60 anni. L’isola aveva fornito 11,2 milioni di tonnellate del suo prezioso materiale e il cantiere si arrestava alle porte del villaggio di Vaitepaua; l’attuale casa del sindaco, la più bella abitazione dell’isola, è stata costruita sul terreno bonificato, riempiendo i buchi con materiale di riporto.
Tutti i macchinari furono ceduti al Territoire, lo Stato, che li lascerà in abbandono. È ancora possibile vedere i binari ai lati della strada principale, i vagonetti, la locomotiva e gli attrezzi necessari alle lavorazioni meccaniche che, come in un film, vengono coperti dalla foresta. Solo la centralina telefonica venne recuperata dal direttore delle Poste, perché più moderna di quella di Papeete. Oltre a questi cimeli arrugginiti, l’isola conserva migliaia di buchi dove l’acqua stagna, creando l’ambiente ideale per le larve di zanzara. Oggi non è più possibile distinguere le cavità artificiali da quelle naturali, che a mano a mano vengono ripopolate dai deliziosi kaveu, i granchi della palma da cocco. La passerella metallica, considerata nel 1928 come una delle realizzazioni più ardite nel suo genere, una volta diventata fatiscente e pericolante, venne fatta scomparire con l’impiego di 500 chili d’esplosivo.
Oggi si ventila un nuovo progetto estrattivo a opera di una società australiana, comprensivo della bonifica finale di tutta la superficie scavata, passata e futura. Il progetto osteggiato da alcuni (“Quello che che è uscito dovrà ritornare”, affermavano gli anziani).
Vedremo se l’isola di Makatea riuscirà a trovare una sua nuova dimensione.

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Il porto di Makatea.

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La leggenda della principessa spagnola

La grotta della principessa, un anfratto scosceso di Makatea, ospita il sarcofago di una principessa spagnola realizzato in legno di uru, l’albero del pane.
Tutto cominciò in una lontana notte di plenilunio. Sulle alte falesie che sovrastano il passaggio di Temao, i paumutu – gli abitanti dell’arcipelago delle Tuamotu – assistevano attoniti alle manovre della grande piroga senza bilanciere: erano ben lontani dall’immaginare che si trattasse di un brigantino pirata. Per quanto riuscivano a scorgere da lontano, gli uomini a bordo indossavano strani indumenti, e questo provocò panico generale fra gli aito (guerrieri) dell’isola, che iniziarono a pregare e a invocare l’onnipotente atua ma’ohi (dio) affinché venisse in loro aiuto: bisognava respingere gli strani intrusi apparsi dal nulla.
Gli dèi Ta’aroa, Maui, Vahine nui te hau rai, ascoltarono gli aito di Makatea e, anche se nulla lasciava presagire una tempesta, un’incredibile pioggia iniziò a scrosciare dal cielo, i pu’a hiohio (mulinelli) cominciarono a far risuonare i feo, le rocce calcaree circondate da buchi enormi. La pioggia si divertiva a riversarsi a secchiate e i patiri (tuoni) diventarono sempre più assordanti. In mezzo a questa improvvisa tempesta, scosso dalle altissime onde, il brigantino pirata venne sollevato, scagliato sullo zoccolo di corallo ed inghiottito dal mare, nell’oscurità più assoluta.
Dall’alto delle falesie i paumutu riuniti intorno al loro vecchio tahua (sacerdote) ringraziarono il loro atua di averli salvati. La notte aveva ritrovato i suoi colori carichi di intensità e le stelle brillavano, splendenti più che mai.
Un mormorio, spinto dalla brezza leggera dell’oceano, salì dalle pareti delle falesie: il suono lancinante di una voce lontana che pronunciava parole incomprensibili risuonava attraverso i feo. Le foglie dei kaha’ia (Guettarda speciosa) si misero a tremare, i kaveu (granchi delle palme da cocco), spaventati, si infilarono il più profondamente possibile fra le rocce. Sorpresi da questo mormorio, pensando che provenisse dai varua ino (fuochi fatui) dei cattivi spiriti di quegli uomini arrivati sulla piroga senza bilanciere, i paumutu con i capelli ritti dal terrore fuggirono a nascondersi nelle grotte.
Rimase da solo sull’enorme massiccio roccioso di Makatea un ragazzo di circa quindici anni, Moana i tu rai mai (Moana venuto dal mare), approdato sull’isola qualche anno prima sul dorso di un mao (squalo); non si sapeva molto di questo giovane che il dio Ta’aroa aveva salvato dal mare, soltanto che apparteneva a una dinastia di ari’i (nobili) del lontano atollo di Fakarava.
Moana i tu rai mai ascoltò a lungo quella voce che sembrava chiamarlo. Pensava a sua madre, la cui voce udiva a volte di notte, la madre che avrebbe tanto desiderato rivedere. Decise di scendere la falesia aiutandosi con delle nape, corde di fibra di cocco intrecciata. Una volta arrivato sul papa (roccia piatta e dura), scoprì il corpo di una donna. Era bella, incredibilmente bella, con lunghi capelli e occhi straordinariamente belli. Moana i tu rai mai avanzò esitante verso la donna, i cui lamenti si addolcirono. Abituato a sollevare carichi pesanti, Moana i tu rai mai non ebbe alcuna difficoltà a portarla fino ai piedi della falesia, al riparo delle onde. La vegliò tutta la notte, dandole di tanto in tanto un sorso di komo viavia, l’acqua di cocco.
Alle prime luci dell’alba, mentre il sole iniziava a brillare di uno splendore trasparente, la sconosciuta si mosse. Il suo primo gesto fu di sorridere, un sorriso scintillante che Moana interpretò come gesto d’amicizia. Anche se si capivano solo a gesti, camminarono per il bordo del mato mato fino al sentiero che portava al villaggio. Gli abitanti dell’isola, nascosti dietro le palme da cocco, spiavano i movimenti del ragazzo e di quella grande donna bianca sconosciuta. Vincendo la paura, i puamutu si avvicinarono fino a toccare il corpo di lei. Non si seppe mai da dove fosse venuta; si era capito che la sconosciuta (era la prima volta che incontravano una donna bianca) non poteva essere che una ari’i vahine, una nobile. Se era arrivata fino a lì, era perché il dio ma’ohi lo aveva voluto, salvandole la vita dalla furia del mare, Fu così che la bella sconosciuta divenne la principessa dell’isola. Gli abitanti di Makatea recuperarono gli enormi forzieri dal battello affondato, pieni di inestimabili tesori.
La principessa visse giornate felici sull’isola. Alla sua morte, il suo corpo venne mummificato, secondo l’usanza locale, e trasportato a Momu, dall’altra parte dell’isola rispetto a Temao. A fianco della sua urna erano stati posati gli effetti personali, i forzieri carichi di oggetti di valore e altre quattro urne. La leggenda dice che le quattro persone che dividono con lei la grotta sono i suoi guardiani, tra i quali il suo fedele amico Moana i tu rai mai. Oggi questa principessa spagnola veglia sul tesoro di Makatea, e si dice che chiunque voglia impadronirsene verrà colpito dalla sua maledizione.
La leggenda è basata su una storia vera, quella di una ragazza spagnola, la figlia di Don José Andia y Varela, al comando della nave spagnola Le Jupiter che navigava insieme a L’Aguila comandata da Don Domingo de Bonechea. Il 6 novembre 1774 al largo di Makatea il capitano morente avrebbe affidato sua figlia alle cure degli abitanti dell’isola, affinché la giovane potesse vivere lì tranquilla piuttosto che soffrire il rollìo del battello per ancora chissà quanto tempo. Aveva con sé dei bauli pieni di magnifici vestiti e qualche oggetto particolare, come uno specchio dorato. Un piccolo tesoro! Si racconta di come la giovane si sia ristabilita dalla sua malattia e abbia vissuto in pace a Makatea fino alla sua morte.