In un angolo ancora incontaminato dell’Amazzonia peruviana, il “popolo del giaguaro” è un prezioso gioiello etnico minacciato dalle multinazionali del petrolio

Per raggiungere il popolo Matses la prima tappa è Iquitos. Quindi si deve atterrare ad Angamos con un idrovolante, infine per visitare il primo villaggio Matses è necessario navigare con piccole piroghe il rio Galves.
Iquitos non è altro che un denso reticolo di strade che si incrociano e si perdono nell’immensa solitudine della selva amazzonica. Quando l’oro si chiamava caucciù, Iquitos, il più remoto porto fluviale della grande selva peruana, era terra di commercianti e avventurieri. Oggi l’èra della gomma è finita e restano solo i miraggi di una ricchezza facile, legata ai nuovi traffici e ai nuovi commercianti.
A Iquitos resiste la pelle dura e antica della vecchia città coloniale, il fascino discreto della frontiera e soprattutto l’inguaribile solitudine in cui l’ha confinata la foresta.

La foresta

Nella foresta amazzonica tra Perù e Brasile alcune etnie sono riuscite ad adattarsi pagando con l’isolamento la propria sopravvivenza. Nella regione più remota vive uno sparuto gruppo di individui che per continuare a esistere praticano rituali antichissimi: sono i Matses, i migliori raccoglitori-cacciatori che si conoscano in Amazzonia; gente orgogliosa e indipendente, che secondo le popolazioni vicine sarebbe in grado di muoversi come il vento e di parlare agli animali.
Per raggiungerli bisogna spingersi fino al confine con il Brasile e risalire il rio Javari, la cui sponda sinistra è brasiliana mentre la destra è peruviana. È un fiume di modeste dimensioni che si deve percorrere fino al rio Galves, uno stretto canale nella valle del Javari.
Si tratta di un territorio in cui vivere è difficilissimo, i giaguari vagano numerosi e la malaria e la febbre gialla sono parte integrante del ciclo vitale. La terra dei Matses va anche soggetta a forti e frequenti precipitazioni che fanno salire rapidamente il livello dei fiumi, causando periodiche inondazioni. Spesso le loro case su palafitte vengono invase dalle piogge tropicali.
Proprio le precipitazioni costanti tutto l’anno hanno costretto questo popolo a inventare un metodo di coltivazione del tutto particolare. Siccome la giungla non brucia facilmente, i Matses dissodano il sottobosco e abbattono gli alberi attorno all’area coltivabile per far penetrare la luce.
Pur essendo fondamentalmente raccoglitori e cacciatori, possiedono tecniche agricole rudimentali e alcuni di loro coltivano yucca, canna da zucchero e banane.

Chi sono

La parola matses nella loro lingua significa “persone”. Altro nome con cui viene chiamato questo popolo è Mayoruna, che in lingua quechua significa “gente dell’acqua”. Ma la denominazione che più si addice ai Matses è “popolo del giaguaro”, sia per i loro tatuaggi, sia per le decorazioni del volto che ricordano i baffi e i denti dell’animale.
Entrati in contatto con “l’uomo bianco” per la prima volta negli anni ’60, da allora soffrono delle malattie introdotte dai coloni. I rapporti con l’esterno li espongono pericolosamente a patologie contro cui non hanno difese immunitarie. Non bastasse, i Matses devono difendersi anche dalla Pacific Rubiales, una multinazionale petrolifera che ha già avviato esplorazioni nel loro territorio, cioè in un’area che è stata proposta come riserva per le popolazioni incontattate.
Nonostante le forti pressioni esercitate dalla Pacific Rubiales, i Matses continuano a opporsi fermamente alle attività petrolifere di questa multinazionale fin dal 2008, cioè da quando il governo peruviano ha creato 5 lotti di esplorazione che si sovrappongono ai loro territori.
Per procurarsi il cibo, tutti i villaggi matses dipendono dall’abilità dei cacciatori-raccoglitori, legata a sua volta alla capacità degli sciamani di comunicare con gli spiriti delle piante e degli animali. Il capovillaggio Pablo mi spiega che, se volessi imparare le diverse proprietà curative delle piante, dovrei dormire con loro per poter “sognare” come prepararle e utilizzarle. È quello che fanno i Matses. Dicono che se la pianta non vuole svelarsi, un uomo non otterrà mai il potere di curare, anche se qualcuno gliene spiegasse le tecniche…

Un allucinogeno “istituzionale”

Due tra le più efficaci medicine, usate per propiziare la caccia e la pesca, sono il nù-nù e il sapo. Il primo è una polvere verde allucinogena costituita da foglie di tabacco della selva mescolato con la cenere della corteccia di un albero chiamato macambo. Una quantità eguale di foglie essiccate e cenere viene posta in una canna di bambù e pestata con un bastoncino fino a ridurla in polvere. La miscela viene quindi infilata in un tubo e soffiata nelle narici. Il risultato è un’esplosione a livello organico: il naso e gli occhi bruciano e la visione si offusca, mentre il polso arterioso galoppa selvaggiamente. Si tratta di una potente medicina che serve per comunicare con gli spiriti degli animali e delle piante, per celebrare una buona caccia, ma anche per scacciare il ricordo di una brutta giornata.
La capacità di vedere il futuro e di parlare con gli animali è abbastanza comune tra i Matses. E poiché essi sono soprattutto cacciatori, non sorprende che considerino lo spirito del giaguaro il più potente nella loro gerarchia: osservandone e ammirandone la forza, l’astuzia e l’abilità nella caccia, lo onorano adornando il viso con tatuaggi simili al suo ghigno. È l’orgoglioso marchio distintivo dei Matses.
Gli uomini portano anche lunghe stecche di palma fissate al labbro superiore per imitare i baffi del giaguaro, mentre le donne le tengono sul labbro inferiore e nel naso. Assomigliando al felino, essi credono di riuscire ad assorbirne lo spirito. Gli uomini dipingono anche il corpo e la faccia con il rosso dell’urucù, tracciando spesse bande sulla fronte e intorno agli occhi per assicurarsi l’invisibilità.

La caccia e la pesca

I Matses sanno che chi caccia indiscriminatamente prima o poi rimarrà senza prede. La foresta, nonostante i suoi pericoli, è per loro l’alleato principale, che va amato e rispettato. Le prede più frequenti sono varie specie di uccelli, scimmie e roditori, colpiti dopo appostamenti e inseguimenti di svariate ore e grazie alla perfetta imitazione dei loro versi.
Rispetto alle nostre abitudini, le loro tecniche di pesca sembrano appartenere al mondo della magia… Per prima cosa devono faticosamente localizzare e strappare le radici velenose di waka e barbasco, poi aspettare con pazienza che smetta di piovere, analizzare la corrente del fiume e individuare un’ansa adatta per pescare, cioè dove l’acqua è stagnante e non troppo profonda. A questo punto triturano le radici e spargono il veleno vegetale nell’acqua finché, nel giro di qualche minuto, i pesci più piccoli cominciano a venire a galla. Tocca poi alle donne raccoglierli e colpire con un machete gli esemplari più grandi, che il veleno riesce solo a stordire. A volte per ottenere poche prede i Matses trascorrono ore e ore accucciati sulla riva.

Il rito del sapo

In occasione di un’importante battuta di caccia, i Matses non possono fare a meno del sapo. Il termine indica una grossa rana arborea, ma anche la droga secreta dall’animale, una sostanza resinosa che si conserva su un’asta di legno e si diluisce con la saliva.
La rana sapo viene catturata di notte. È facile individuarla perché non gracida ma emette un verso gutturale simile all’abbaiare di un cane. Raccolta con delicatezza, viene tenuta legata per tre giorni durante i quali si ricava la droga sfregando il dorso dell’animale con un bastoncino. La sostanza viene poi spalmata su un’asta piatta dove, se ben conservata, si mantiene per più di un anno… sebbene, visto l’uso frequente, la data di scadenza difficilmente venga raggiunta!
Quando il tramonto comincia a infuocare il cielo, gli indios cercano uno spazio ai margini della foresta e danno inizio al rito del sapo. Grattano il veleno con un bastoncino e lo sciolgono con la saliva, quindi provocano una piccola ustione sul braccio con un ramoscello rovente. Spellata la bruciatura, il sapo liquido viene applicato sulla piaga: l’area ustionata non supera per dimensioni la capocchia di un fiammifero, ma l’effetto è sconvolgente. A contatto con la droga, il corpo comincia subito a scaldarsi, dando la sensazione di bruciare dentro. Si suda, il polso accelera, il cuore martella. L’impressione è che ogni vena, ogni arteria si dilatino per favorire la corsa precipitosa del sangue. Si perde il controllo delle funzioni corporali, fino a defecare, lacrimare e sbavare. Il pulsare tumultuoso del sangue sommerge ogni altro rumore. Il dolore è così insopportabile che si desidera morire. Poi arrivano i crampi allo stomaco e si vomita con violenza. Infine si crolla al suolo esausti e si perde conoscenza.
Ma l’uomo che si risveglia ha in sé una nuova forza esplosiva: potrà restare senza cibo e correre nella selva per giorni e giorni senza stancarsi, riuscirà ad avvistare gli animali prima che siano loro a scorgerlo. Tutto gli sembrerà più grande e nitido e i suoi occhi vedranno nel buio senza alcuno sforzo.