Un turista molto religioso si trova per la prima volta a Trieste. Capitato una domenica mattina in Piazza dell’Unità d’Italia, chiede a un passante dove possa assistere a una funzione religiosa. “Non ci sono problemi”, spiega il Triestino. “Se è di fede greco-ortodossa, trova a cento metri la chiesa greca. Proseguendo verso Piazza Goldoni, incontra il tempio serbo-ortodosso; andando verso la posta, trova la chiesa evangelica e, più avanti, c’è la funzione ebraica nella sinagoga, mentre a San Giovanni può assistere alla Messa in sloveno”. E se ne va, lascian- do il turista italiano esterrefatto a chiedersi se Trieste è una città italiana. Questa barzelletta, che si sente raccontare talvolta a Trieste, è naturalmente imprecisa, come del resto tutte le barzellette, ma contiene una sua verità e indica quale crocevia di razze e religioni sia stato il capoluogo giuliano.
Per la città la diversità non dovrebbe costituire, dunque, un problema… E invece non è cosi. La questione nazionale è, da anni, il problema di gran lunga più discusso a Trieste, un problema sul quale la città si è divisa, spaccata letteralmente in due, senza grandi possibilità di comunicazione. La questione nazionale riguarda esclusivamente gli sloveni che sono, a parte la maggioranza di lingua italiana, la comunità più numerosa, quella con le radici più profonde, essendo presente da più di mille anni, ma anche quella che, con caparbietà e tenacia, continua a rivendicare i propri diritti naturali e un’adeguata tutela della propria specificità. Gli altri gruppi nazionali, non autoctoni, si sono pian piano integrati e, pur mantenendo alcuni connotali originali (ad esempio, la specificità religiosa), hanno perduto gran parte di quelle caratteristiche che definiscono un gruppo nazionale. Per questo motivo, per la maggioranza di lingua italiana non costituiscono più un problema.
Del tutto diverso è invece il problema degli sloveni. Arrivati sul Mediterraneo nel VII secolo e insediatisi nei territori dell’odierna Repubblica socialista di Slovenia, in parte della pianura friulana, in parte della Carinzia e dell’odierna regione ungherese, gli sloveni sono stati per circa mille anni sottoposti alla dominazione straniera e inglobati in quel mosaico di popoli che fu l’impero Asburgico.
Per Trieste gli sloveni hanno cominciato a essere un problema agli inizi del nostro secolo, quando, con la crescita culturale, crebbe anche il loro potenziale economico, che arrivò a insidiare quello italiano. Il resto lo fecero le cruente vicissitudini storiche: il fascismo con la sua feroce politica di snazionalizzazione, la lotta di liberazione e la resistenza, gli eccessi delle truppe partigiane dopo la liberazione della città. La dura contesa (per due volte, a distanza di poco più di vent’anni, prima nel 1918 e poi nel 1945) tra l’Italia e la Jugoslavia per le terre giuliane ha inciso profondamente sui destini della gente, sulla loro possibilità di comunicare, rendendo la questione nazionale di difficile soluzione. In particolare, in uno Stato quale l’Italia, che ha sempre nutrito dei sospetti nei confronti delle minoranze nazionali (ma anche nei confronti delle specificità locali, paventando che il decentramento potesse minare un’unità conquistata a fatica) e che, anche quando ha risolto in parte alcuni casi (come quello della minoranza francofona in Valle d’Aosta, o tedesca nel Sudtirolo), lo ha fatto sempre in base a trattati internazionali e mai motu proprio applicando l’articolo 6 della Costituzione.
Gli Sloveni in Italia vivono oggi in tre province (Trieste, Gorizia e Udine) del Friuli-Venezia Giulia, sparsi in 35 comuni della fascia confinaria. Se negli anni passati era il problema degli sloveni della provincia di Udine a rallentare ogni possibile ipotesi di tutela, oggi il problema principale è Trieste. La Lista per Trieste (è una lista civica di carattere conservatore e nazionalista, nata come rivolta contro il trattato di Osimo che nel 1976 ha reso definitivo il confine tra l’Italia e la Jugoslavia) continua infatti a condizionare in modo pesante le forze politiche cittadine con le proprie pregiudiziali antislovene. E la proposta di legge di tutela, varata alla fine del 1989 dal governo, pur limitandosi in pratica a sancire l’esistente, ha suscitato in città un vespaio. Ma il problema nazionale è, a Trieste e nel Friuli-Venezia Giulia, soltanto la questione più dibattuta e lacerante di un problema più ampio: il ruolo che la regione e la città vogliono svolgere in uno scenario europeo che cambia. In un’Europa in cui le barriere stanno cadendo una dopo l’altra, Trieste e il Friuli-Venezia Giulia possono riacquistare nuovamente, grazie alla propria posizione geopolitica, un ruolo baricentrico. Ma a condizione di aprirsi al retroterra, superando quei lacci e lacciuoli che, per decenni, le hanno tenute legate al rimpianto del passato. Riuscire a risolvere la questione nazionale sarebbe un segno importante di questa volontà di aprirsi al presente e a un futuro per certi aspetti ancora denso di incognite, ma sicuramente l’unico a dare delle prospettive.
È un problema, forse prima culturale che politico ed economico, che impone il superamento del passato senza più rimozioni. Ma ciò implica la rivisitazione della storia, la ridiscussione di problemi e periodi difficili, scrostando i sedimenti del tempo. Significa, in pratica, rimettere in discussione la propria identità e le proprie radici, per disegnarne una nuova. Salvo rare eccezioni, la maggioranza di lingua italiana non ha finora voluto affrontare una riflessione di questa portata. E, ogniqualvolta le forze culturali più aperte hanno cercato di impostare il dibattito, la discussione è rimasta monca, chiusa tra le mura della sinistra, senza echi in città anche per colpa di una classe politica sbigottita, preoccupata di non subire troppi contraccolpi dalll’offensiva delle forze conservatrici, e perciò appiattita sulla ricerca di un quasi impossibile compromesso che non scontentasse nessuno. E ha perciò scontentato tutti.
All’analisi e alla riflessione critica si sono preferiti i lamenti, frutto di una cultura dell’assistenzialismo, tesi a presentare Trieste vittima di colpe altrui e non di scelte, o non scelte, proprie. Certo la città nel secondo dopoguerra ha anche subìto, le sue strutture produttive sono state pian piano indebolite e svuotate, poste fuori mercato senza che venissero sostituite da strutture produttive nuove. E anche alcune iniziative di punta quali il Centro internazionale di fisica teorica o l’Area di ricerca scientifica e tecnologica o il Centro di biotecnologie, sono rimaste isolate, avulse dal tessuto cittadino. La minoranza slovena è stata in tutto il dopoguerra molto attiva. Ha ricostruito almeno in parte il proprio potenziale economico e culturale, si è proposta come un attivo anello di congiunzione, ponte e tramite con le realtà del retroterra e con la Slovenia in particolare.
Ma nella tenace difesa della propria identità, nel paziente lavoro di ricostruzione delle proprie basi culturali ed economiche, esposte al costante attacco delle forze nazionalistiche, anche la comunità slovena non ha saputo aprirsi a sufficienza, superare alcuni tabù storici, e proporsi come il vero elemento trainante soprattutto culturale, che avrebbe potuto stimolare il dialogo e il confronto. Tutto ciò ha portato a una lunga paralisi che ha bloccato, tra l’altro, ogni possibile ipotesi di soluzione della questione nazionale. Soltanto negli ultimi tempi, anche sulla spinta degli avvenimenti in Europa, qualcosa si è mosso, sono state avanzate alcune ipotesi di dialogo e di confronto diverso con il retroterra. Sono spinte ancora prudenti, dovute principalmente ad alcuni ambienti economici più aperti. Il problema è se su queste spinte sapranno innestarsi anche forze culturali e politiche, se si riuscirà a far superare a Trieste il suo passato senza rimozioni. Perché è questa la condizione essenziale affinché la città, e con essa la regione, possa avere un presente e, soprattutto, un futuro.

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Una delle manifestazioni organizzate dagli sloveni nella piazza principale di Gorizia, a sostegno dei propri diritti.

Un lungo e faticoso cammino

Gli sloveni che oggi vivono in Italia sono il ramoscello più occidentale del grande albero slavo, il ramo sloveno. Arrivati nelle zone odierne di insediamento neI VII secolo al seguito degli àvari, gli sloveni hanno avuto per brevissimo tempo una propria statualità. Sottomessi dai franchi e diventati cattolici, sono stati sottoposti per circa mille anni alla dominazione straniera e per lungo tempo inglobati in quel grande crogiolo che fu l’impero austro-ungarico.
Nella prima metà del secolo scorso, alla primavera dei popoli europei, anche gli sloveni chiesero una maggiore autonomia da Vienna ma, a differenza delle altre popolazioni che potevano vantare ben diverse tradizioni e riminiscenze storiche, essi basarono le proprie richieste sul fatto di esistere come popolo, di aver conservato una propria lingua e una propria tradizione. E, al netto rifiuto delle autorità centrali, risposero con un grande sforzo culturale, tutto teso a ricostruire quell’identità che nel corso dei secoli era lentamente sbiadita. I poeti egli scrittori divennero gli interpreti più autentici delle aspirazioni nazionali degli sloveni e il libro un’arma estremamente efficace. La rapida crescita culturale coinvolse anche gli sloveni di Trieste e Gorizia (molto meno invece quelli di Udine, che già nel 1866 facevano parte dello Stato italiano) che ebbero un peso sempre maggiore nell’economia e nella politica giuliane, rompendo un equilibrio secolare caratterizzato dal dominio della civiltà cittadina (“italiana”) sulla civiltà rurale (slovena).
Con la rottura di questo equilibrio, i contrasti nazionali, manifestatisi già nel 1848, divennero virulenti agli inizi del ‘900 e si acutizzarono ulteriormente dopo il 1918 con il passaggio delle zone mistilingui sotto la sovranità del Regno d’Italia. Gli sloveni di Trieste e Gorizia videro crollare la speranza di entrare a far parte della neocostruita Jugoslavia, il regno degli Slavi del sud, e si scontrarono con un’amministrazione italiana non preparata né a livello psicologico né culturale all’incontro con le popolazioni alloglotte e allogene.
La situazione precipitò sotto il fascismo, deciso a italianizzare con la forza le terre del nord-est. Già nel 1920 veniva bruciato a Trieste l’albergo Balkan, il maggiore centro culturale e politico sloveno dell’epoca, successivamente vennero chiuse le scuole e cancellati i circoli culturali e sportivi. Gli sloveni organizzarono forme di lotta clandestina e successivamente presero parte attivamente alla lotta contro il nazismo e il fascismo, inquadrati nelle unità dell’esercito di liberazione jugoslavo. Nel 1945 si ripropose il dilemma dell’appartenenza territoriale di Trieste e di Gorizia. La contesa ebbe conseguenze laceranti, acuite da una parte dalla condiscendenza con la quale gli alleati occidentali coprirono le responsabilità dal fascismo, ma anche dalla reazione popolare ai soprusi patiti nel ventennio che talvolta assunse anche forme cruente.
Con il 1954 Trieste e Gorizia divennero definitivamente italiane. Da allora gli sloveni continuano a lottare con mezzi legali e democratici per ottenere una legge di tutela, ma finora inutilmente.

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Quale tutela?

Un trattamento eguale, la possibilità di usare la propria lingua nei rapporti con gli organi dello Stato, della Regione, della Provincia e del Comune di residenza; la tutela anche in campo economico e in particolare la possibilità di incidere sulle scelte riguardanti l’uso del territorio; un’adeguata valorizzazione delle attività sportive e culturali; sono queste, in sintesi estrema, le caratteristiche fondamentali che, ad avviso degli sloveni, dovrebbero essere alla base di un’efficace normativa di tutela e dovrebbero valere in tutti i 35 comuni del Friuli-Venezia Giulia (6 in provincia di Trieste, 8 in provincia di Gorizia e 21 in provincia di Udine), dove vive la minoranza. Questi concetti sono stati difesi anni addietro dai rappresentanti sloveni nell’ambito della Commissione Casandro, una commissione governativa istituita per esaminare il problema della tutela della minoranza slovena.
A questi princìpi si ispirano inoltre alcuni progetti di legge, presentati dal PCI, dal PSI, dall’Unione Slovena, dai Verdi, da DP. Molto più restrittiva, invece, la proposta democristiana, alla quale si ispira anche il disegno governativo. Il progetto di legge varato dal governo Andreotti si limita infatti a sancire l’esistente, prevedendo la possibilità di uso della lingua slovena a livello comunale in alcuni comuni delle province di Trieste e di Gorizia e soltanto in alcune circoscrizioni dei due comuni capoluogo.
Per la provincia di Udine, dove, secondo il governo, vivono popolazioni di generica origine slava, è previsto soltanto “il diritto alla valorizzazione delle proprie iniziative culturali”. Un progetto del tutto insufficiente, che ha come unico aspetto positivo il fatto che, dopo quasi 40 anni dalla firma del “memorandum” d’intesa di Londra con il quale l’Italia e la Jugoslavia definivano in via provvisoria (divenuta poi definitiva nel 1976 con il Trattato di Osimo) il problema dei confini, il governo italiano ha finalmente deciso di presentare una propria proposta di legge sul problema degli sloveni. La legge di tutela globale dei loro diritti è per gli sloveni del Friuli-Venezia Giulia una battaglia irrinunciabile, una questione di principio, di affermazione dei propri diritti, ma anche di affermazione dei princìpi di democrazia e dei diritti civili, sanciti dalla carta costituzionale e dai documenti sui diritti dell’uomo.
Essa non rappresenta l’unico obiettivo da raggiungere. La comunità, pur politicamente articolata, ha fatto notevoli sforzi per costruire una propria base economica e per darsi quelle istituzioni culturali e sociali che sono il presupposto per il progresso e lo sviluppo. Sono nati così nel dopoguerra, raccogliendo l’eredità delle istituzioni soppresse dal fascismo, un quotidiano in lingua slovena, il “Primorski dnevnik”, la scuola di musica Glasbena malica, una miriade di circoli culturali a orientamento laico e cattolico che mantengono viva la tradizione culturale nei paesi, il Teatro stabile sloveno di Trieste, una miriade di circoli e società sportive. In questi e in altri campi gli sloveni vogliono essere il tramite attivo tra lingue e realtà diverse, una risorsa alla frontiera che, sviluppando i legami, contribuisca alla convivenza e promuova la crescita economica e sociale della comunità. Non vogliono essere un corpo estraneo e un peso per la società di cui si sentono in realtà parte integrante. Nello sforzo caparbio in difesa della propria identità e dei propri diritti, la comunità slovena però si è in parte chiusa in se stessa, non riuscendo a iniziare quel processo di integrazione attiva (una visione culturale e politica, secondo la quale la minoranza si inserisce a pieno titolo nella società in cui vive, contribuisce alla sua crescita mantenendo e sviluppando il proprio peculiare patrimonio culturale ed etnico) proposto da alcuni intellettuali.

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