Un contributo alla ricostruzione storica di avvenimenti poco noti ma assai significativi: la rivolta contro un potere esoso e irrispettoso delle volontà popolari.

È opinione diffusa che il Veneto sia terra inerte sotto l’aratro della storia, tomba vuota pronta per ogni contenuto. Una più attenta considerazione di alcuni eventi smentisce però l’indifferenza attribuita ai Veneti nei momenti più critici della loro esistenza. La storiografia si sofferma compiaciuta sull’opposizione a domini stranieri, purché questi provengano da settentrione. Il più rigoroso silenzio cala invece sulla resistenza contro occupazioni di estrazione neolatina, quasi che ammetterne l’esistenza possa in qualche modo porre in cattiva luce i successivi momenti risorgimentali. Si dice che esistano luoghi e momenti in cui sia possibile sapere tutto di certi fatti, senza capirne nulla, oppure sapere poco e capire molto. Sui moti antinapoleonici in Veneto si sa poco, eccettuate forse le cosiddette “Pasque Veronesi”, ma la loro comprensione nel giusto senso non manca. Queste righe vogliono essere un modesto contributo alla ricostruzione storica di quei giorni e di quegli avvenimenti. Dopo i preliminari di Leoben, la municipalità di Venezia era riuscita a raccogliere, mediante una votazione a scrutinio segreto, l’aspirazione popolare all’indipendenza. Parigi si sarebbe smentita di fronte al mondo civile, se, una volta conosciuto il risultato di quel pronunciamento, non lo avesse rispettato. I messaggeri veneti latori dei risultati elettorali vennero però prontamente fatti arrestare a Novara e nessuno potè accusare la Francia di non avere onorato le ripetute dichiarazioni di rispetto per la volontà dei popoli. Ad eccezione di una parvenza di congiura, attribuita ad un certo Cercato nella prima metà dell’ottobre 1797, le reazioni alla prepotenza degli occupanti furono soltanto formali: volantini inneggianti all’Austria ed ostentazione di indumenti giallo-neri specialmente da parte degli abitanti di Cannaregio. Il malcontento assume dimensioni di aperta rivolta a Comacchio, nel Ferrarese e nel Padovano a partire dall’aprile 1799. Si ricordano ancora i nomi dei capipopolo che ne furono protagonisti: Filippo Zagoli, Valeriano Chiarati e numerosi religiosi del monastero patavino di S. Antonio. Anche Este, Montagnana, Monselica e Chioggia conobbero estesi fermenti, tanto da scatenare pesanti rappresaglie francesi, che a Chioggia furono in parte attenuate grazie all’intervento del vescovo Sceriman. Tali moti possono tuttavia essere considerati delle semplici prove generali. Nel settembre 1805 Napoleone aveva ricominciato le ostilità e non poco denaro era affluito a Venezia dalla Russia e dall’Inghilterra in funzione antifrancese. Com’è noto, le armi francesi ebbero la meglio ad Austerlitz e, con la pace di Presburgo, stipulata il 26 dicembre 1805, il Veneto venne ceduto alla Francia.

La reazione dei Veneti non si fece attendere. A Crispino, località situata fra Adua e Rovigo, il popolo si sollevò, scatenando l’ira di Napoleone che, con decreto dell’11 febbraio 1806, privò i Crispinesi della cittadinanza. L’11 settembre 1806 il Viceré Eugenio di Beauharnais informava Napoleone che gli abitanti di Orgiano, Trissino e Valdagno si erano rifugiati in armi sui monti con intenzioni rivoltose. La causa di questo atteggiamento popolare sarebbe stata la renitenza alla leva, ma un ruolo determinante va attribuito anche alla preferenza sfacciatamente riservata nell’attribuzione dei posti migliori ad elementi ritenuti fedeli all’Imperatore dei Francesi, benché professionalmente impreparati. Il 13 aprile 1809  l’Arciduca Giovanni d’Asburgo aveva vinto a Sacile contro i Francesi, anche grazie ai 46 generali veneti accorsi a militare sotto le insegne della Casa d’Austria. Questa vittoria su Eugenio di Beauharnais agì come un catalizzatore, ed anche le notizie provenienti dal Tirolo, liberato dai volontari di Andreas Hofer, dovettero avere un peso determinante. Ad Este, Piacenza d’Adige, Solferino, Grange di Vescovana, Villa di Villa, Ospedaletto, Baldovina, Lozzo, Stranghella e Barbona scoppiarono disordini, che degenerarono anche in vendette personali. Il 9 luglio ci fu una battaglia a Mason fra Francesi e contadini veneti; il giorno seguente fu bruciata Molvena per rappresaglia da parte delle truppe; il 17 luglio i Francesi riconquistarono Asiago, procedendo a rappresaglie contro la popolazione civile.

A ragione si può parlare di insurrezione generale in Veneto con la contestuale riapparizione della bandiera di S. Marco. La maggiore presenza di truppe nelle province di Treviso e Belluno evitò in parte il divampare di moti. Rimane tuttavia significativo l’episodio di Preganziol (Treviso), dove numerosi insorti si acquartierarono nella villa del conte Albrizzi, pretendendo l’argenteria padronale per la consumazione del rancio, argenteria che venne interamente restituita dopo l’uso. Com’è prassi comune in occasione di conflitti, l’avversario non ridicolizzabile viene spesso demonizzato o, nella più fortunata delle ipotesi, criminalizzato. Anche i tempi recenti offrono eloquenti e persistenti esempi di sistematica denigrazione non sufficientemente motivata. Nel caso degli insorti veneti (che furono subito denominati “briganti”) non sempre la loro criminalizzazione fu frutto di propaganda. Furono infatti commessi degli eccessi, che andarono dalla vendetta personale all’appropriazione indebita. I fatti di Feltre e Busche, ove si distinsero anche alcune donne, – una certa G. Negrelli si riteneva novella Giovanna D’Arco –  lo confermano. Il 7 luglio la città di Rovigo fu letteralmente occupata dagli insorti ed anche qui avvennero alcune ruberie. Grazie all’intercessione di qualche parroco la refurtiva fu però quasi interamente restituita. C’è da chiedersi a quale strana categoria di “briganti” appartenesse questa gente, che restituiva il maltolto! Nel diario della contessa Negri leggiamo invece che ui Francesi peggio dei briganti defraudavano e non restituivano mai nulla.” Il movimento di rivolta dovette essere molto preoccupante, se tutte le principali strade tra Verona e Padova furono presidiate per disposizione del conte Caffarelli, Ministro della Guerra e della Marina. La repressione francese fu sleale ed indiscriminata al punto che, come autorevolmente riferisce Cesare Cantù, molti giudici si dimisero per non diventare complici di sanguinosi misfatti. Nonostante la concessione dell’amnistia, la “Cronaca Tornieri di Vicenza’ ’ elenca una lunga serie di esecuzioni, disposte dalle Corti speciali di giustizia, che non risparmiarono semplici contadini, rei di essere stati sorpresi con rastrelli, badili e perfino fruste fra le mani. Se si depurano questi atti dalle immancabili iniziative individuali ed irresponsabili di singoli imbrancati con i numerosi cittadini veneti in buona fede, rimane ammirevole ed inossidabile il tentativo di non accettare un potere esoso e privo di rispetto per l’identità dei popoli. A differenza della sollevazione del Tirolo, i moti veneti furono privi di capi degni di questo nome. Ciò avvenne perché Napoleone, avendo resi noti anticipatamente i giochi delle potenze, aveva precluso il coinvolgimento di ingegni e coscienze.