Sui grandi giornali ufficiali – Corriere in testa – continuano a comparire articoli in cui c’è un grande stracciar di vesti per la fine di Mare Nostrum e l’avvio di Triton. La nuova operazione, finanziata con 2,9 milioni di euro al mese, prevede il pattugliamento non oltre le 30 miglia dalle coste italiane e questo, secondo gli straccianti, sta aumentando i naufragi e i decessi. L’unico sistema “umano”, secondo loro, sarebbe dunque il ritorno al servizio traghetti da costa a costa. Le soluzioni di altri Paesi come l’Australia (sbarchi assolutamente vietati e zero morti) non vengono neppure prese in considerazione: troppo facili. Non si capiscono le lamentele, comunque, visto che la vedetta della Guardia Costiera che si è fatta bistrattare dagli scafisti a metà febbraio si trovava a 50 miglia nautiche da Tripoli, ovvero 107 da Lampedusa, ovvero 77 fuori dalle acque territoriali.
Ma come fa certa gente, in una situazione spaventosa come l’attuale, a implorare sempre più immigrati, sempre più sbarchi? Negli ultimi giorni, poi, costoro sembrano entrati nel panico alla prospettiva che un conflitto possa rallentare o interrompere un flusso al quale, per motivi che come sempre ignoriamo, hanno affidato le loro carriere professionali. Tuttavia, almeno un concetto pseudo-logico e pseudo-geopolitico sono riusciti a tirar fuori: jihiadisti e clandestini non c’entrano nulla, non hanno alcun rapporto. Purtroppo sono gli unici a crederlo: i commentatori dei quotidiani britannici e americani sono giunti a conclusioni opposte già da tempo. E adesso abbiamo persino un documento semiufficiale dell’ISIS a stabilire quanto questi sbarchi contribuiranno a scavarci la fossa.
Si tratta di un “saggio” jihiadista in arabo, Libia: porta d’ingresso strategica per lo Stato Islamico, individuato e tradotto dalla Quilliam Foundation. Vi proponiamo di seguito la descrizione, l’analisi e il riassunto del saggio a cura della Quilliam.

Alla luce del recente video sull’esecuzione di 21 cristiani copti egiziani su una spiaggia libica da parte di militanti dell’ISIS, l’attenzione internazionale si è concentrata sulla Libia quale nuovo regno dell’attività jihadista. In realtà, lo jihadismo non è una novità per il Paese. Da lungo tempo questa terra è stata un fiorire di instabilità, un luogo in cui gruppi jihadisti, milizie tribali e bande criminali hanno lottato per l’egemonia, in una situazione di stallo apparentemente irrisolvibile tra il governo con sede a Tobruk, riconosciuto a livello internazionale, e il Congresso Generale Nazionale con sede a Tripoli, che reclama la propria legittimità a spese del governo Tobruk, con il quale è di fatto in guerra.
La situazione in Libia non si limita a questa duplicità, come si tende a far credere. In realtà è assai più complicata. Varie milizie hanno proliferato in un Paese sempre più frammentario dopo il rovesciamento di Mu’ammar Gheddafi quattro anni fa. Alcune di esse sono jihadiste, altre no. Alcune sono affiliate ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico, altre non lo sono. Questa incredibile complessità del panorama libico va assolutamente presa in considerazione da parte dei politici e degli analisti.
In mezzo a tale confusione, l’ISIS ha individuato un’opportunità, subito capitalizzata dalla diffusione di A Message Signed with Blood to the Nation of the Cross, il video dell’esecuzione prodotto dall’Al Hayat Media Centre dell’ISIS. Subito dopo la sua uscita, l’attenzione dei media internazionali si è spostata da Siria e Iraq alla Libia, dove la presenza del gruppo era stata a lungo motivo di contesa. In ogni caso, la sua esistenza nel Paese è stata annunciata senza ambiguità, e ora non è più possibile fingere che non sia così: gli jihadisti che operano sotto la sua bandiera ora vantano un considerevole sostegno a Derna, Sirte e an-Nawfaliyah, la prima città essendo la loro attuale base operativa.
L’istituzione della succursale libica non è un evento inaspettato. Da un mese a questa parte era evidente che alcuni gruppi jihadisti in Libia, dopo aver giurato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato califfo dell’ISIS, stavano ricevendo assistenza dall’organizzazione. Tra le altre cose, le operazioni di propaganda erano quasi interamente delegate alla centrale ISIS.
Inoltre, si moltiplicavano le voci secondo cui dirigenti del gruppo, come il giurista Turki al-Bin’ali e l’ex emiro della provincia di Anbar, Abu Nabil al-Anbari, si erano più volte recati in Libia.
Durante questo periodo c’è stato un flusso costante di immagini e messaggi audio proveniente della Libia (foto di convogli armati con le bandiere nere e assembramenti da’wah inneggianti al cosiddetto Califfato), materiale entusiasticamente diffuso dai sostenitori dell’ISIS al fine di esagerare le doti di ubiquità e potenza del gruppo. La recente diffusione del filmato con l’esecuzione di massa, tuttavia, è la prova regina che tale sostegno non è affatto un fenomeno di superficie. Sembra semmai che il contingente libico dell’ISIS sia allineato con il comando centrale del gruppo più intimamente di quanto si sia supposto.
Alla luce di quanto esposto, è imperativo cercar di capire le motivazioni dell’ISIS in Libia. Perché investire tanto tempo e fatica per stabilirvi una presenza? Perché non concentrare tutte le risorse – finanziarie, militari, logistiche – attorno alla sede del califfato, in Siria e Iraq? Si è a lungo sospettato che i burocrati del gruppo abbiano guardato alla Libia come fonte potenziale di risorse, considerata la sua ricchezza patrimoniale, la posizione strategica e l’immensa quantità di armi ancora presenti dopo la deposizione di Gheddafi. Ora, grazie a un documento circolato tra i sostenitori il mese scorso, pare proprio che questi sospetti siano fondati. In gennaio, un importante sostenitore dell’ISIS che afferma di trovarsi in Libia ha messo in rete un breve saggio: Libia: porta d’ingresso strategica per lo Stato Islamico.
L’autore (che lasceremo anonimo per non regalargli notorietà) spiega i motivi per cui la jihad dell’ ISIS deve diffondersi nel Paese. È importante sottolineare che il documento, rimasto finora non tradotto dall’arabo, non è inteso per un pubblico occidentale. Il suo contenuto non è un tentativo di intimidazione. È destinato piuttosto a una audience jihadista regionale, scritto per convincere altri jihadisti della necessità di assistere la missione in Libia. Anche se il testo non rappresenta una tesi ufficiale dell’ISIS sull’importanza del Paese per il califfato, descrive la mentalità del jihadista ISIS in Libia. Insomma, fa luce sulle considerazioni fondamentali, sulle motivazioni e sulle intenzioni della branca libica del gruppo.
Mentre è importante non accettare il contenuto del saggio come sacrosanto – dopo tutto non è che propaganda destinata a reclutare jihadisti – è imperativo che noi si capisca cosa rende la Libia una meta attraente per i militanti islamici. Solo così riusciremo a renderci conto di quanto sia grave la situazione attuale.
Nel documento, l’autore:
• Apre con un’espressione di gratitudine a Dio per aver portato l’ISIS in Libia, nonché agli jihadisti che hanno mostrato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi lo scorso anno.
• Lamenta il fatto che molti sostenitori dell’ISIS hanno frainteso e sottovalutato l’importanza critica della Libia come una nuova “provincia” del califfato.
• Sostiene che, se la Libia fosse adeguatamente sfruttata, “la pressione sul territorio del califfato in ash-Sham e in Iraq” potrebbe essere alleviata significativamente. Fatto non secondario, la Libia potrebbe essere la chiave per la difesa contro la “coalizione crociata”.
• Elenca le condizioni che la rendono così importante. Parla di posizione geografica strategica della Libia, il fatto che “sta a guardia del mare, del deserto, delle montagne e di sei Paesi: Egitto, Sudan, Ciad, Niger, Algeria e Tunisia”.
• Rileva che “ha una lunga costa che si affaccia sugli Stati crociati meridionali, raggiungibili con facilità anche da una barca rudimentale”. Pertanto, le opportunità offerte dallo sfruttamento dei canali che gestiscono il traffico di esseri umani rendono la Libia una formidabile piattaforma per attaccare gli Stati europei e linee di navigazione.
• Si attarda parecchio a descrivere l’abbondanza in Libia di armamenti leggeri, medi e pesanti, sia quelli finiti nelle mani dei rivoluzionari, sia quelli accumulati da Gheddafi durante il suo regno, quando aveva “sperperato tutti i proventi del petrolio della Libia – oscillanti tra i 30 e i 45 miliardi di dollari all’anno – per l’acquisto di armi”.
• Richiama l’attenzione sul fatto che “un trasferimento di queste munizioni dalla Libia al Mali consentirebbe ai locali gruppi jihadisti di conquistare oltre due terzi del Paese in un breve lasso di tempo”.
• Invita urgentemente gli jihadisti a dirigersi in Libia il più presto possibile, prima che l’arsenale cada nelle mani dei crociati.
• Ribadisce che la Libia ha un potenziale enorme, ma deve essere sfruttato in fretta in quanto non durerà per sempre. Se deve rappresentare “la chiave per l’Egitto, la chiave per la Tunisia, il Sudan, il Mali, l’Algeria e il Niger”, allora i sostenitori dell’ISIS devono mobilitarsi subito e agire in fretta.

Un paragrafo in particolare – corredato di piantina – ci riguarda da vicino, e si potrebbe intitolare Come lo metteremo in tasca a quei fessi al di là del mare.

Aggiungete a ciò il fatto che [la Libia] ha un lungo litorale e guarda sugli Stati crociati del sud, che possono essere raggiunti con facilità anche da una barca rudimentale, e notate che la “immigrazione illegale”  verso questa costa è massiccia, qualcosa come 500 persone al giorno, dando una stima bassa. Secondo molti [di questi immigrati], è possibile e facile passare attraverso i controlli della sicurezza marittima e raggiungere le città. Se questa opportunità fosse anche solo parzialmente sfruttata e sviluppata strategicamente, si potrebbe far esplodere un pandemonio nell’Europa meridionale. È anche possibile che si arrivi alla chiusura delle linee di navigazione se verranno attaccate le navi e le petroliere dei crociati.

Mappa-ISIS
Una delle mappe che corredano il documento jihadista: le isole siciliane e maltesi come ponte per attaccare le città del sud Europa.

 

N O T E

Il documento della Quilliam Foundation è stato tradotto a cura di “Etnie”.