Ho iniziato la mia carriera di femminista nel 1967, in veste sia di accademica sia di attivista. La nostra visione di questa lotta era radicale e riformista. Credevamo nell’universalità dei diritti umani. Comprendevamo la diversità multiculturale, ma non eravamo relativiste multiculturali. Attaccavamo la misoginia quando la vedevamo, e non giustificavamo uno stupratore, un marito violento o un pedofilo perché era povero (anche le sue vittime di solito erano povere), o era di colore (anche le sue vittime di solito erano di colore) o era stato abusato da piccolo (come le sue vittime).
Come le altre femministe radicali americane, militavo nei movimenti per i diritti civili e pacifisti. Diversamente dalle altre femministe, ho “vissuto un tempo in un harem in Afghanistan”. È questa la prima riga del mio libro, An American Bride in Kabul.  
Strano a dirsi, ho vissuto in un elegantissimo purdah, vale a dire che non mi era permesso uscire di casa senza una scorta maschile. Strano a dirsi, mio suocero aveva tre mogli e ventuno bambini… particolari che il mio occidentalizzato marito si era ben guardato dal menzionare durante il lungo corteggiamento nel nostro college americano.
Ventenne, vedevo donne afghane caracollare nei burqa, camere di deprivazione sensoriale, sacchi da cadavere ambulanti. Questi fantasmi erano costretti a sedere in fondo agli autobus. Accadeva parecchio prima dei talebani al potere. Ricordavo bene queste immagini anche quando criticavo il sessimo, il razzismo e l’omofobia americani.
Dal 1967 al 1975 feci parte della National Organization for Women (NOW), partecipai alle manifestazioni, aderii a un gruppo di autocoscienza femminista, fondai gruppi di studio sulla donna alla CUNY, co-fondai la Association for Women in Psychology e il National Women’s Health Network. Nel 1970, in Florida, feci un durissimo intervento all’incontro annuale dell’American Psychological Association: pretesi un risarcimento per le donne che erano state oggetto di diagnosi sbagliate, patologizzate, drogate e internate dalle pratiche psicologiche e psichiatriche. Duemila persone mi risero in faccia, ma con un certo nervosismo. Qualcuno mi accusò di “invidia del pene”.

phyllis chesler femministe filoislamiche

Cominciai a scrivere Le donne e la pazzia sull’aereo che mi riportava a New York. Il mio discorso occupava i titoli di tutti i giornali. Ero sommersa di proposte editoriali. Alle fine del 1972, Adrienne Rich recensì il mio libro sul “New York Times Book Review”, in prima pagina. L’opera divenne un bestseller, una “bibbia”, un classico.
Organizzai un’indimenticabile conferenza su femminismo e antisemitismo, donne e giudaismo. Per tutti gli anni ‘70 tenni conferenze in Israele, iniziando a collaborare con le femministe di quel Paese. Portai in Israele una delegazione di giornaliste femministe e di sinistra, e raccolsi firme per combattere il sillogismo dell’ONU: “sionismo = razzismo”.
Tra il 1981 e il 2002, pubblicai sei libri femministi. Condussi campagne a favore delle madri che avevano perso la custodia dei figli, di madri biologiche costrette a cedere i propri neonati contro la loro volontà (ovvero la maternità surrogata), eccetera.

Phyllis-Chesler-con-Ayaan-Hirsi-Ali
Phyllis Chesler con Ayaan Hirsi Ali nel 2008.

Posso assicurarvi che l’antisemitismo – l’odio per gli ebrei – non è una novità tra le femministe. Lo incontrai per la prima volta nei primi anni ‘70 tra le femministe e le lesbiche radicali, e con Aviva Cantor e Cheryl Moch cominciai subito a denunciarlo.
Tuttavia, negli ultimi trent’anni si è sviluppato un nuovo “falso femminismo” – come lo chiamo io – un femminismo postmoderno e postcoloniale che attacca furiosamente il cristianesimo e il giudaismo come il maggior pericolo per i diritti delle donne, ma non osa criticare il suprematismo islamico per le medesime ragioni; un “falso femminismo” intersezionale che condanna soltanto l’imperialismo occidentale e si rifiuta di riconoscere la lunga tradizione islamica di imperialismo, colonialismo, schiavismo, razzismo contro i neri, apartheid religioso e sessuale. Un “falso femminismo” di gran lunga più preoccupato dalla presunta occupazione della Palestina di quanto non lo sia dall’occupazione dei corpi, dei volti, delle menti e dei genitali delle donne in tutto il mondo; comprese quelle obbligate a velarsi, minacciate di morte e vittime di delitti d’onore in quei territori contesi.
Le associazioni per lo studio e la difesa della donna – persino molte femministe ebree – non sono soltanto “politicamente corrette”, ma sono diventate “islamicamente corrette”. Sono in genere più interessate al valore religioso del velo che alle mutilazioni genitali femminili, all’obbligo forzato di coprirsi, alla violenza coniugale, alla poligamia, alle spose bambine e ai delitti d’onore in occidente. Non solo queste false femministe hanno tradito le ebree: in nome dell’antirazzismo hanno anche abbandonato donne tribali e immigrate di colore – musulmane, sikh e indù – alla più barbara misoginia. Soprattutto, costoro hanno abbandonato al loro destino le più eroiche femministe dissidenti musulmane ed ex musulmane, sikh e indù, sia nel terzo mondo sia in occidente.
È una tragedia che così tante femministe occidentali siano diventate talmente conformiste… Non hanno più la minima indipendenza di pensiero. Le false femministe sono state persino persuase che l’islam sia una “razza”, non un’ideologia o una religione; che lo schiavismo storico dell’America ai danni degli africani o il regime dell’apartheid sudafricano siano esattamente la stessa cosa della pretesa discriminazione di Israele contro gli arabi palestinesi, compresi i bombaroli antisemiti e terroristi che grondano sangue.
Le fondamentaliste stanno cercando di distruggere quello che le femministe hanno conquistato.
In America le femministe hanno denunciato, condannato, analizzato lo stupro. Noi abbiamo dato il via ai counseling per le vittime di violenza e abbiamo cambiato le relative leggi. Oggi, in occidente,  le femministe professionali – docenti, politiche, giornaliste, attiviste – non offrono alcun aiuto alle vittime di stupro nelle comunità islamiche, né in Medio Oriente né in occidente: troppa paura di essere definite “islamofobe”, “razziste”, “colonialiste”.
Magari noialtre femministe americane non abbiamo la capacità, a livello fisico, personale, di salvare le ragazze violentate dal’ISIS o da Boko Haram. Ma possiamo raccogliere fondi per quelli che lo fanno; possiamo anche chiamare le barbarie (decapitazioni, lapidazioni, crocifissioni, stupri collettivi, distruzioni di opere d’arte) con i loro veri nomi. Siamo infine in grado di capire che i leader – non la gente – dell’Iran e di tutti i califfati in fieri sono pericolosi per l’America e per il sistema di vita occidentale. E nel mirino c’è anche il femminismo american-style.
Noi possiamo aiutare ragazze e donne che vivono qui e vengono picchiate, perseguitate e minacciate di morte dai loro stessi familiari perché rifiutano di indossare il velo o di sposare il loro cugino primo. Il loro sangue non dovrebbe ricadere sulle nostre mani. Dobbiamo creare rifugi o famiglie estese per proteggerle dalla violenza basata sull’onore, perseguendo gli assassini e i loro complici.
La battaglia per i diritti delle donne sta alla base della battaglia per i valori occidentali. È parte integrante della vera democrazia.