Pierluigi Mozzetti, chi era costui? Alla domanda di stampo manzoniano ben pochi sono in grado di rispondere.
Mozzetti nasce a Venezia nel 1868 da una famiglia proveniente dalla provincia di Treviso. Nel 1887 si laurea in giurisprudenza a Padova e di lì a poco inizia la sua attività storico-culturale collaborando con la “Gazzetta di Treviso”. In seguito lo troviamo tra i fondatori della benemerita associazione culturale Tarvisium-Venetiae, promotrice nei primi anni del Novecento del restauro dell’imponente Leone Marciano sulla porta Santi Quaranta a Treviso. Negli anni successivi la sua firma compare anche sul “Giornale di Treviso”, sulla “Gazzetta trevisana” e sul quindicinale “La Marangona”.

Pierluigi Mozzetti
Il leone di San Marco sulla Porta Santi Quaranta, Treviso.

Pierluigi Mozzetti, tuttavia, merita di essere ricordato soprattutto come principale animatore del “Comitato Veneto per il Decentramento e le Autonomie” nel 1896, e del “Comitato Viva San Marco!” nel 1912.
Dalla “Gazzetta di Treviso”, già nel novembre del 1894 ha l’ardore di domandare ai veneti: “Di fronte al movimento che si solleva nelle altre Regioni d’Italia fino a quando voi dormirete?”
Dopo pochi mesi, precisamente nel marzo 1895, nella vicina Lombardia nasce il “Comitato Lombardo pel Decentramento e le Autonomie”: questo dà un’ulteriore spinta al Mozzetti, il quale l’anno successivo (1896) stampa Il programma del comitato veneto per il decentramento e le autonomie. Il progetto dedica – accanto al ruolo dei comuni e delle province – ampio spazio al dibattito in corso sulla necessità di istituire la Regione come “unione di molte province per tradizioni, interessi, posizione affini”.
Già, ma Regione è

il tremendo spauracchio dei moderni bigotti dell’unità nazionale, i quali arricciano il naso al solo sentirla, quasi che la realtà che essa esprime non esistesse diggià ab antiquo, in genito nell’istessa costituzione fisica dell’Italia, e quasicchè il constatare amministrativamente le differenze, gli squilibri che distinguono in suddivisioni la nostra penisola corrispondesse addirittura a richiamare l’odiato straniero.

E allora invece di Regione c’è chi tenta di far passare compartimento, sul modello del francese departement. E su questo Mozzetti insorge:

Noi Veneti non dobbiamo nè possiamo intanto adattarci a subire una parola, che può forse non sembrare del tutto impura dove fiorì la repubblica cisalpina, ma che non ha corrispondenza alcuna nè nella convenienza nè nell’essenza delle cose, nè nella convenienza dei fatti.
Quale parte d’Italia può vantare nè suoi fasti la gloriosa ed immacolata Storia della nostra Serenissima di S. Marco? È risalendo a quelle invidiate, ma giammai emulate memorie, che si fortifica, si consolida il pensiero anche moderno; per cui fonte di ammaestramenti ed argomento di imitazione ai pubblici amministratori, nel limite delle mutate contingenze, può essere il ricordo del passato.

E più avanti:

Il sempre compianto Minghetti fino dal 1861 [ha] messo fuori la proposta, che Egli voleva già innestare nella revisione della legge comunale e provinciale che l’Italia venga amministrativamente divisa in Regioni essendo questa la forma da Lui ritenuta la più consentanea, la più conveniente alla molteplicità ed alle enormi differenze esistenti nella nostra penisola per suddivisioni fisiche del territorio, per antichissime diverse consumanze, per lingua, per fortunatamente distrutte variate dominazioni politiche.
Questa idea dell’illustre statista ottenne largo consenso dai migliori di quel tempo, fra i quali il Ferrari ed il Cattaneo, ma le insorgenti aspirazioni unitarie ed il timore di danneggiarle la fecero abbandonare; resta ancora a vedersi con quanto vantaggio della Nazione.

Si passa poi alla condanna del centralismo romano:

Intanto le leggi italiane, accumulatesi l’una sull’altra con progressione geometrica, ispirandosi al più accentuato sistema di accentramento hanno portato nelle mani del Governo tutta la somma delle pubbliche funzioni e dei pubblici uffici, ed hanno di continuo trattato alla stregua tanto il settentrionale Veneto, che la quasi Africana Sicilia, costringendo quindi o quello o questa (ma specialmente quello) a subire tiranniche imposizioni di inadatti e pessimi provvedimenti.
Dagli orari e dalla durata dell’anno scolastico, alle misure di precauzione per l’igiene, ed a molte disposizioni della stessa legge provinciale e comunale, si ha una intera legislazione fatta a favore di questa e di quella Regione ed estesa coattivamente a tutto il Regno.

E infine una proposta che assomiglia a quella elaborata dalla Fondazione Agnelli un secolo dopo:

Tutti sanno che le regioni della penisola, una più, una meno a seconda che si suddivide in due o tre parti l’ex Regno delle Due Sicilie, sono undici: Piemonte, Liguria, Veneto, Lombardia, Emilia, Toscana, Marche ed Umbria, Lazio ed Abbruzzi, Napoletano, Sicilia, Sardegna, e ad ognuna di tali Regioni dovrebbe corrispondere quel gruppo di Province destinato a formare un nuovo corpo locale. Ogni esclusione od ogni inclusione forzata sarebbe una cosa anti-naturale e dannosa.

Quali riflessioni si possono trarre a oltre un secolo di distanza? Soprattutto che i tentativi di riappropriarci della nostra identità e dei nostri diritti sono da sempre presenti nella nostra storia di veneti, anche nei periodi meno esaltanti: riusciremo dopo così tanto tempo a ottenere, finalmente, quelle minime forme di autonomia che ci spettano e che la storia ci assegna?