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Un documento eccezionale che ci ha lasciato Placido Barbieri: Luserna, il paese dei cimbri, colto dall’obiettivo negli anni ’50.

Placido Barbieri, classe 1916 (quest’anno, il 16 novembre, avrebbe festeggiato i cent’anni), ci ha lasciati nel 2013. Noto soprattutto per l’intensa e significativa attività fotografica, è stato anche un grande appassionato di montagna. Tra i miei ricordi personali, la risalita di uno sconosciuto (all’epoca per entrambi) Vajo Pelagatta, franoso e infido dopo una serie di piogge intense e la scoperta di alcuni angoli per me ancora inediti del Pasubio, come Forni Alti. Oltre a numerose escursioni tra Colli Berici (in particolare a Lumignano e dintorni in cerca di “Ponti di Roccia”), Lessini, Prealpi vicentine e Dolomiti. Dimenticavo: documentò anche fotograficamente la prima (e ultima) salita alla Guglia Leonora (21 ottobre 1979, R. Pegoraro – G. Sartori).
Circostanze in cui ho potuto apprezzare, oltre al “temperamento alpino”, la sua grande sensibilità, la capacità di cogliere l’indicibile in un riflesso luminoso o su un blocco calcareo corroso dal carsismo…

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Placido Barbieri.

Artista Afiap (Artiste fédération internationale de l’art photographique) dal 1960, il primo vicentino a essere insignito di questa onorificenza, venne scoperto da Bruno Bulzacchi, grande fotografo scomparso nel 1972. Quello che Barbieri ha sempre considerato il suo Maestro, scrivendo la presentazione di una mostra di Placido nel lontano 1962 rilevava “lo sforzo dell’artista di non lasciarsi sedurre da un superato vedutismo, né dalle tentazioni di un mal concepito astrattismo”. E sottolineava che “nella fotografia c’è chi vede e riproduce e chi scopre ed esprime”. Barbieri, ovviamente, apparteneva alla schiera di questi ultimi. Oltre alla predilezione per i “contrasti vigorosi”, Bulzacchi ne metteva in evidenza “la fedeltà al motivo umano, inteso non come figura di composizione ma come catalizzatore di una emozione”. Tra le figure importanti per la sua formazione, Barbieri non dimenticava “Laura Lattes, insegnante di italiano sospesa dall’insegnamento con le leggi razziali del 1938 in quanto di famiglia ebrea; conservo ancora il suo libro Le storie di Mirella illustrato da Mirko Vucetich” (pubblicato da Neri Pozza nel 1955).
Raccontava Barbieri:

Le mie prime fotografie sono alcune immagini del Monte Pelmo scattate negli anni Trenta con la macchina fotografica di mio fratello. Nel ‘37-38 ero sul Monte Bianco come caporal maggiore della scuola alpina di Aosta e conservo gelosamente alcune vecchie foto legate a quella esperienza, in particolare alle memorabili traversate sci-alpinistiche. Altri immagini interessanti ebbi modo di realizzarle in Libia dal ‘38 al ‘42.

Per la precisione, a Barce in Cirenaica dove  Barbieri lavorava, con incarichi esclusivamente civili, in una colonia agricola in quanto dipendente della Marzotto e dove conobbe la futura moglie, l’amatissima Mariuccia. L’impegno fotografico vero e proprio per Barbieri ebbe  inizio nel 1952 quando Bruno Bulzacchi, dopo aver visto alcune sue foto, volle conoscerlo:

Da quel momento ho cominciato a maturare. Se non lo avessi incontrato molto probabilmente mi sarei limitato a collezionare immagini di ricordi senza approfondire veramente le possibilità della fotografia.

Due costanti nell’opera di Barbieri sono state la Montagna e la figura umana.

Della montagna ho cercato di cogliere e interpretare non solo il paesaggio ma anche la materia, le “tessiture”, i particolare significativi.

Indicativa della sua ricerca sulla figura umana era stata una mostra del febbraio 1998 in Sala Borsa nella Basilica Palladiana (“La gente della mia gente”). Volti e figure di donne, bambini, scrittori, contadini, scultori, montanari… che non si lasciano ingabbiare nel reportage trascendendo il luogo e la circostanza in cui vennero fissati dalla camera. Tra i più espressivi: la guida alpina Bruno De Tassis, gli scrittori Neri Pozza e Mario Rigoni Stern, l’artista Mirko Vucetich, i pittori vicentini Beghini, De Maria, Albanese, gli scultori Barbaro Remigio di Burano e i vicentini Quagliato e Giordani…

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Gino Soldà.

Emblematica quella famosa di Gino Soldà che risale agli anni settanta. Ritrae l’alpinista nel momento della scoperta di un atto vandalico alla targa sotto la Punta Kennedy, all’attacco di una via impegnativa che Gino aveva aperto insieme al dott. Hans Kraus, medico personale del presidente statunitense (Emmele inferiore, monte Cornetto). 1)
Ha immortalato paesaggi collinari (i Colli Berici in particolare) ormai scomparsi o degradati, personaggi famosi (molti i vicentini illustri: Neri Pozza, Giorgio Sala, Virgilio Scapin, Fernando Bandini, Otello De Maria…) e volti di malgari e pescatori strappati all’anonimato.
Commenta la figlia Elena, soggetto de La pianista (blue jeans e maglione nero con le toppe, con lo spartito del concerto italiano di Bach in mano; la foto  che Placido considerava “la  più bella che ho scattato”):

Mio padre amava l’arte, tutta l’arte. La viveva in modo personale e concreto: Divina Commedia e poesie a memoria, musica, opera lirica, canzoni di Montagna, pittura, scultura. La fotografia era un modo di riportare l’armonia di ciò che aveva conosciuto all’interno dell’obiettivo, l’inquadratura viveva nel pensiero ancora prima dello scatto della macchina. Con grande costanza e umiltà aveva affinato la capacità di osservare, di cogliere il particolare, di costruire una composizione articolata. Pochi scatti, niente usa e getta, e un lavoro in “camera buia”, in soffitta, per far nascere, per far emergere dalla carta bianca l’idea divenuta realtà. Sottolineo che in queste sue ricerche mia madre, si erano sposati nel 1942, era sempre presente, mai succube, nonostante il carattere non facile di mio padre. Insieme queste due persone hanno saputo creare e soprattutto coltivare amicizie, tessere legami; unire insieme persone con semplicità e generosità. Dare e ricevere da tutti cultura e arricchimento spirituale. Una vita vissuta in modo pieno, insieme nella quotidianità, nei viaggi, in montagna… una passione quella per la montagna che loro due hanno saputo trasmettermi.

Nel corso degli anni non sono mancati i riconoscimenti. Le sue foto avevano rappresentato l’Italia a importanti esposizioni internazionali: in Norvegia con la Casetta Bianca, in URSS con La pianista. Nel 1985 era stato invitato  all’Expo in Giappone, a Tsucuba, con una trentina di diapositive proiettate su uno schermo di ottanta metri (Mostra internazionale “Image continue”). Una quindicina di anni fa il direttore della Keith de Lellis Gallery di New York (47 East 68th Street) venne appositamente a Vicenza per acquistare dieci foto del Barbieri. La maggior parte di sapore veneziano: Nasse in laguna, Neve a Burano, Finestre a Sottomarina, In bici a Pellestrina… Recensioni lusinghiere da parte di Fernando Bandini, 2) Neri Pozza, 3) Andrea Zanzotto, Gino Nogara…
Ma, come dicevo, l’altra grande passione dell’artista restava sempre la Montagna. E non solamente come soggetto privilegiato di tante sue fotografie, sia di luoghi (difficilmente il Pasubio o il Baffelan troveranno fotografi così capaci di evocarne atmosfere e segreti) sia di alpinisti. Oltre all’amico Gino Soldà, vanno ricordati Bruno De Tassis, Toni Gobbi, Piero Pozzo, Gianni Pieropan (che si affidò a lui per molte foto della guida Cai-Touring Club delle Piccole Dolomiti ), Ruggero Pegoraro (cugino di Pierino Radin e mio compagno di cordata negli anni settanta)… senza dimenticare che nel 1986, prima di partire per l’ultima infausta spedizione, anche Renato Casarotto passò in via Visonà  per qualche foto. Il servizio vero e proprio venne rinviato al ritorno (a Placido piaceva fare le cose con cura, non improvvisare), ma purtroppo il grande alpinista era destinato a non rivedere più Vicenza. 4)

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Le tre cime di Lavaredo.


Fondamentale per l’iniziazione alpinistica di Barbieri, l’esperienza acquisita con la Scuola centrale militare di alpinismo di Aosta presso l’antico castello “Duca degli Abruzzi”. Nel 1937 (indispensabili le credenziali del CAI) fu uno dei due primi vicentini a potervi accedere. Anche l’altro, De Mori, viene ricordato come un valente alpinista.
“Per quelli che facevano la firma”, mi aveva raccontato Placido, “era predisposta la Compagnia 87, mentre della numero 88 potevano far parte soltanto alpinisti di altissimo livello e guide alpine. L’89 era la compagnia dei sergenti avviati alla carriera militare”. Barbieri venne integrato nella Compagnia Comando.

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Ebbe comunque modo di conoscere molto bene (anche in cordata) i nomi migliori della compagnia 88, quella degli “alpieri”. Tra questi gli alpinisti vicentini Piero Pozzo, Bortolo Sandri e Rugolin, arrivati ad Aosta poco dopo Barbieri. Piero Pozzo, reduce da un incidente di montagna, aveva qualche problema con il piede infortunato. “Alla sera”, ricordava Barbieri, “si andava ad arrampicare insieme. Conservo ancora qualche chiodo e una corda che usavamo in quel periodo”.

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Dopo il servizio militare Pozzo rischiò di perdere la vita per un incidente ben più grave in Pasubio, sulla parete del Soglio Rosso. Invece, come è noto, Bortolo Sandri era destinato a perire sull’Eiger insieme a Menti. Quanto a Rugolin, è ricordato nel mondo alpinistico vicentino per aver aperto la “Via dei tre compagni” sul Cherle.
Barbieri ricordava che

mentre eravamo ad Aosta, Bortolo Sandri ha scalato la Noire de Peteré insieme al sergente Chiara. Durante la guerra, Chiara, proprio come Castiglioni e Soldà, aiutò molte persone a fuggire in Svizzera attraverso le montagne e sembra sia stato ucciso durante una di queste operazioni.

Ben presto dalla provincia di Vicenza arrivarono altri due alpinisti: Italo Soldà, fratello del grande Gino e Carlesso “fortissimo”. In seguito toccò anche “al mio amico Toni Gobbi, a Ermenegildo Cerato di Enego e, due anni dopo, a Rigoni Stern. Anche il “Sergente della neve” verrà fotografato in varie occasioni dal Barbieri . E continuava:

Con noi della Compagnia Comando c’erano alcune guide alpine. Ricordo Castegneri (tra i suoi antenati uno dei primi alpinisti saliti sul Monte Bianco per la via italiana) e Ferro Famil Roberto “Vulpot”, all’epoca la più giovane guida alpina italiana.

Ben presto Barbieri divenne amico di “Vulpot” che però non era ben visto da altri commilitoni in quanto ex guardia di frontiera. Evidentemente alcuni di loro in precedenza si erano dedicati al contrabbando e “forse proprio per questo erano così forti, così allenati. Capaci di marciare trasportando la bocca o la piastra del mortaio”.

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“Bepi malgaro”.

Anche quando era ormai avanti con gli anni, Barbieri conservava ricordi nitidi e precisi di tutti i suoi compagni d’arme: Alfredo Gregotti di Novara (“era figlio del podestà, l’unico con sci di proprietà personale”); Enrico Bussonetto, caporalmaggiore, detto il “Bucio”, di Aosta (“uno di quelli che trasportavano il mortaio”); Francesco Vallazza, classe 1915, di Torino (“è morto l’anno scorso” mi segnalava puntuale in occasione di un’intervista nel 2008); Angelo Marchesi, magazziniere e maestro di sci; Rino Mortoglio di Bardonecchia; il caporalmaggiore Riceputi, bergamasco…
Il loro tenente era “Carlo Mautino detto “Mau” (1903- 1983) del battaglione Aosta e poi del battaglione sciatori “Monte Cervino”. Ferito in Grecia, Mautino partecipò con la “Folgore” alla battaglia di El Alamein. Divenuto generale, dopo la guerra comandò il battaglione “Feltre”. Di tutti loro Barbieri conservava alcune foto, divenute ormai preziose testimonianze. Con molti mantenne a lungo rapporti epistolari.

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“Putei de Venexia e dintorni”.

Superato l’indispensabile tirocinio per impratichirsi con gli sci “vennero le marce! Aspre salite, precipiti discese”, scriveva l’allora giovane ed entusiasta Placido Barbieri nel suo diario che mi consentì di leggere. E proseguiva: “visioni sconfinate di un mondo di sogno, mete dai nomi alpinisticamente altisonanti: Val Toggia, Passo S. Giacomo, Lago Kastell, ghiacciaio dell’Hosand”.
Una delle esperienze più significative fu il “Raid Val Formazza-Aosta” dell’inverno 1938, durato una quindicina di giorni. Gli alpini (tre compagnie, circa duecento persone) partirono il 24 gennaio in direzione del Colle del Nefelgiu (2583 metri) “con cielo sereno e attrezzati di tutto punto: sci, racchette, ramponi…”. Dopo un tratto in discesa, la marcia proseguiva con l’attraversamento del Vannino (2177 metri), il primo di sei laghi ghiacciati. Seconda dura salita, quella della Scala Minoia (2599) e poi un altro bacino ghiacciato, il Codelago.

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“Putei de Venexia e dintorni”.

Raccontava Barbieri: “Nessun indizio di vita, ma solo neve, boschi, picchi e neve. Cammina, cammina, sembrava una favola…”. Arrivati all’Alpe Severo si disposero a dormire “sull’amica paglia” in alcune baite disabitate. Il giorno successivo, superata quota 2310 a passo Buscagna, discesero al rio Bondolero (1995 metri), risalendo quindi al Colle Ciamporino (2191 m). In Val di Vedro la neve era scomparsa e “per oltre quindici km, per giungere a Varzo (560 m), gli sci ballonzolarono sulle nostre spalle già gravate dal peso dello zaino e dell’armamento”. Da Varzo a Macugnaga (Val Anzasca, 1202 m), mentre sul loro cammino troneggiava il Monte Rosa. Sabato 29 febbraio (“il giorno di San Francesco di Sales” annotava Barbieri) ripartivano verso il Passo del Turlo, anche se “la neve turbina gelata, una grigia caligine ci toglie ogni visuale”.

Qui ho capito cosa sia la “morte bianca”. C’era nebbia, freddo. Veniva naturale fermarsi, perdere la cognizione, lasciarsi andare. Per questo forse viene descritta come una morte “bella, serena”.

Arrivarono ad Alagna con il buio. Nevicò anche il giorno successivo e quando ripresero il cammino verso il Colle d’Olen (2871 m) “la neve abbondante e fresca rendeva faticosa la marcia”. Raggiunsero Gressoney la Trinité soltanto verso sera. Dopo un giorno di riposo, di nuovo in partenza “con gli sci ai piedi e lo zaino sulle spalle” verso St Jacques d’Ayas per il Colle della Bettaforca (2676 m). Il 3 febbraio finalmente raggiunsero il Breuil, attraverso il colle superiore delle Cime Bianche (2980 m). Ancora due giorni di sosta prima della meta più ambiziosa: il Chateaux des Dames (3488 m). Qualche legittima preoccupazione al pensiero del “pauroso canalone bianco che porta alla vetta del gigantesco castello di roccia e di ghiaccio”. Fortunatamente il giorno dopo splendeva il sole e la colonna di alpini del Battaglione Duca degli Abruzzi si rimise in marcia.

Il panorama era di una bellezza indescrivibile; il Cervino aveva mutato il massiccio sembiante e si innalzava con l’eleganza di una guglia dolomitica, acuto, strano, nel cielo terso. Oltre il Cervino, svettavano il Rosa, il Breithorn, il Polluce, il Castore, il Lyskamm e la Nordend.

Costretti dalla cornice (di neve e ghiaccio, s’intende) del Colle dello Chateaux (3324 m) a seguire una variante, gli alpini si trovarono nella condizione di dover affrontare alcuni passaggi delicatissimi, dopo essersi tolti gli sci e con l’ausilio di una corda fissa. Dalla vetta “un mare di cime bianche  su cui dominava, vero signore delle Alpi, il Monte Bianco”. Per la discesa, indispensabile l’utilizzo dei ramponi. Poi “si riparte, senza tregua!” Calzati nuovamente gli sci, “giù, giù…senza fermarsi. Quando sorse la luna si correva ancora. Accendemmo le lampade e le lanterne e tutta la valle fu punteggiata di chiare fiammelle”. Fino a una stalla di Bionaz dove “una manciata di paglia fu il nostro guanciale”. Il giorno dopo, finalmente, Aosta.
Barbieri venne congedato nel luglio 1938. Dopo una breve parentesi vicentina dedicata alle arrampicate nelle nostre Piccole Dolomiti, in settembre partì per la Libia con un impiego civile.
Dopo la guerra aveva partecipato praticamente a tutte le Adunate degli Alpini.  Alla prima, “quella di Bassano, dove avevano ricostruito il ponte famoso, andai in vespa”…

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Barbaro Remigio da Burano, pittore e scultore.

N O T E

1) Raccontava Placido che il grande alpinista “assunse un’espressione intensa, in un misto di sorpresa e di rimpianto”. In seguito “Gino mi fece una dedica su quella foto scrivendo: “A Placido, capocordata della fotografia”. Molte volte ci siamo incontrati. A lui e a sua moglie Lena ho scattato le foto di anniversario delle loro nozze d’oro. Una sera, a casa mia, in occasione del mio compleanno mia moglie Mariuccia aveva preparato il mio dolce preferito, il Monte Bianco e poi, a sorpresa, in omaggio a Gino e Lena, aveva confezionato un altro dolce cha aveva chiamato il K2. Ricordo che proprio in quella circostanza ci parlò molto della sua attività di partigiano, durante il periodo della Resistenza: era il comandante Paolo. Ho sempre considerato Gino una figura straordinaria sotto ogni aspetto e dal punto di vista fotografico aveva un viso molto interessante, di grande espressività”. Quella foto è poi servita per realizzare un piccolo monumento in memoria di Soldà a Recoaro, non lontano da dove abitava.
2) “Chi ha visto Barbieri all’opera, conosce i modi del suo lavoro. Quando fa un ritratto chiacchiera, in apparenza sbadato, nell’attesa di uno stato del viso capace di sintetizzare una sostanza interiore. Quando fotografa il paesaggio si affida a lunghe camminate, si sposta in spazi e ore della luce ancora più mutevoli di un viso, non ha di fronte a sé il proprio soggetto, ma vi è in un certo senso immerso. Qui, quello che conta è la disposizione nativa a vedere coi propri occhi e insieme una certa trascendentale sicurezza su quello che la macchina vedrà”(Fernando Bandini, 1986).
3) “Barbieri è un meditativo dall’osservazione lenta, circospetta e affettuosa, ricco di pazienza e di intuito. In una rassegna vasta e complessa come questa di Barbieri, i momenti sono almeno tre: il primo, quello ‘bianco’ trae esempi dall’arazzo; il secondo dei ‘ritratti’ (ed è forse il più felice e il più suo, per una ruvida e spoglia bellezza), tipicamente espressionista, il terzo, vago e divertito, direi quasi divagatorio, è quello degli ‘oggetti’. Vi è, in tutta la sua produzione, una così seria, presente e qualificata nobiltà di gusto e di tratti;una finezza e lucidità nel taglio delle immagini che lo pone senz’altro nella schiera dei nostri migliori fotografi italiani” (Neri Pozza, 1969).
4) Ricordo che Barbieri non trascurò nemmeno la speleologia, frequentando sia qualche grotta dei nostri Colli Berici che il Buso della Rana. Più spavaldamente, alcune voragini da lui scoperte in Cirenaica. All’epoca era in corrispondenza epistolare con Gastone Trevisiol, padre nobile della speleologia vicentina che non lesinava consigli e suggerimenti. Fu anche grande amico di Aldo Allegranzi.
Per la musica, da segnalare la pluridecennale collaborazione con Bepi De Marzi e Carlo Geminiani.
Quasi tutti i dischi dei Crodaioli hanno per “copertina” una sua fotografia (foto di montagna, ça va sans dire). In particolare il primo disco era accompagnato da una bella pubblicazione dove il testo di ogni canzone (Josca, Signore delle cime…) si coniugava con una foto di Barbieri.