Con la nascita dello “Stato delle autonomie” sancito dalla Costituzione del 1978, molte cose sono cambiate in Spagna per quanto concerne la situazione delle nazionalità diverse da quella dominante castigliana, sempre duramente combattute dal franchismo.

 

Anche se ancora molto c’è da fare, soprattutto a favore di Baschi e Galleghi, e se talvolta una certa impressione di ambiguità, verticismo e schematismo può suscitare qualche inquietudine, non si può negare che l’attuale Statuto di autonomia della Catalogna rappresenti una conquista estremamente positiva: esempio da additare a tutti quegli Stati, come l’Italia e la Francia, che continuano, contro la Storia, nel loro arroccamento centralista sorpassato e vizzo.

È soprattutto nel recupero e nella valorizzazione della lingua, la vera voce dell’“ethnos”, che la politica della “Generalitat” si sta esplicando in modo intelligente e articolato: la conoscenza del catalano sembra estendersi sempre più, anche se, purtroppo, è in questo momento visibile una situazione problematica, che si spera momentanea, per quanto riguarda il suo utilizzo reale, soprattutto all’interno delle comunità immigrate. Nello statico panorama europeo, non tutte le nazioni senza Stato sembrano condividere lo stesso destino di inesorabile decadenza. Tra esse sono quelle comprese all’interno dello Stato spagnolo ad aver compiuto le maggiori conquiste negli ultimi anni, con un prodigioso balzo dalla dittatura centralista di Franco allo “Stato delle autonomie” sancito dalla Costituzione del 1978. Questa riconosce l’esistenza di altre “nazionalità” nel seno dell’indivisibile “nazione” spagnola.

Le quattro nazionalità storiche, non esplicitamente menzionate, sono la Castiglia, la Catalogna, Euzkadi (Paesi Baschi) e la Galizia. Ma un grande processo di decentramento amministrativo, più razionale e più adeguato alle esigenze di una democrazia in rapida evoluzione, si sta estendendo anche alle altre regioni: esistono ora 16 entità autonome, alcune delle quali (come la “Comunità di Madrid”) sono state inventate di sana pianta, per accelerare un incipiente processo di devoluzione, ma anche per frenare le tendenze unitarie all’interno delle nazioni periferiche: per esempio da Euzkadi è stata esclusa la Navarra (che, come curiosità, non è ufficialmente una comunità autonoma, ma è stata costituita in “comunità forale”, riesumando un antico trattato del 1847), mentre i Paesi Catalani sono stati suddivisi in tre regioni autonome: la Catalogna-Principato, le isole Baleari e la Comunità Valenziana.

D’altra parte nel campo delle conquiste linguistiche sono stati compiuti progressi non irrilevanti: l’uso delle lingue delle “comunità autonome”1)è ora costituzionalmente riconosciuto in molte regioni. Tra tutte le nazionalità “riscoperte” è la Catalogna 2) a emergere per l’ampiezza delle sue conquiste culturali. Il catalano è una lingua pienamente standardizzata già fin dagli inizi del secolo: l’ortografia fabriana è la sua varietà standard universalmente accettata, le cui basi furono gettate nel 1913 da Pompeu Fabra 3). Questa lingua, che durante il franchismo ha conosciuto una radicale e vessatoria campagna di emarginazione 4), sta vivendo ora un processo di recupero che la pone all’a vanguardia tra le lingue non ufficiali delle Comunità Europee. Come vedremo in seguito, il carattere d’eccezione le deriva anche dal fatto che ogni anno aumenta il numero di persone che la parlano (o almeno la sanno parlare) ed è quindi una delle rarissime lingue “minoritarie” che, anziché ritirarsi, si espandono. E non si tratta solo di espansione nelle sfere giuridiche e am- ministrative (ufficializzazione), ma anche nel numero di parlanti e tra le persone in grado di comprenderla. Ripercorriamo le tappe di questa potente crescita culturale dal 1978, anno in cui fu approvata la nuova Costituzione.

Nuovi sviluppi della glottopolitica catalana

Diversi articoli della Costituzione spagnola del 1978 riguardano le “comunità autonome”, ma è in particolare l’articolo 3 che conferisce una legittima ufficialità al processo di regionalizzazione in corso. Vi si legge testualmente: “Il castigliano è la lingua ufficiale nello Stato. Tutti gli Spagnoli hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla. Le altre lingue spagnole saranno anch’esse ufficiali nelle rispettive Comunità Autonome, in accordo con i propri Statuti. La ricchezza delle distinte modalità linguistiche della Spagna rappresenta un patrimonio che sarà oggetto di particolare rispetto e protezione”. Ma nell’articolo 2 si legge anche: “La costituzione si fonda sull’indivisibile unità della Nazione spagnola, patria comune e indivisibile di tutti gli Spagnoli, e riconosce e garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la integrano e la solidarietà tra di esse”.

A proposito di quest’ultimo punto, un importante correttivo è però fornito dall’articolo 145: “In nessun caso si ammetterà la federazione tra comunità Autonome” 5). Nel 1979 viene approvato lo Statuto di Autonomia. In esso il catalano è dichiarato “lingua propria” della Catalogna, dovendo però condividere lo status di lingua ufficiale con il castigliano (coufficialità) 6). La Catalogna ha da questo momento un Governo autonomo, la Generalitat, e un suo Parlamento 7).

All’interno di uno dei suoi dipartimenti, quello di Cultura, verrà creata la Direcciò General de Polìtica Lingüìstica, un’istituzione appositamente incaricata di vegliare e di coordinare il processo di recupero della lingua. Nel 1983 viene varata una nuova legge, approvata a pieni voti da tutte le forze politiche: è la “Liei de Normalizzaciò Linguìstica”, che pone le basi giuridiche su cui dovrà operare il processo di diffusione della lingua 8). L’entrata in vigore della legge viene preceduta da una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, condotta con i più disparati mezzi di comunicazione audiovisiva: gadget, spot pubblicitari, adesivi, cartoons, musica, corsi gratuiti per adulti, eccetera. Per raggiungere tale obiettivo, l’appoggio assicurato dai partiti (in realtà alla Generalitat mancavano ancora molte competenze) non ha rappresentato che una prima struttura, alla quale si è presto aggiunta la ben più decisiva adesione di una galassia di associazioni volontaristiche, culturali, sportive, artistiche, pubbliche o private, locali, nazionali o statali, che hanno fornito l’impeto partecipativo necessario alla campagna 9).

Ma neanche questo sarebbe stato sufficiente senza un altro fondamentale requisito: il decentramento dell’opera di propaganda, con la partecipazione alla campagna della quasi totalità dei Comuni (Ajuntaments) interpellati, i quali rappresentavano in ogni caso il 98% della popolazione della Catalogna-Principato. Ogni comune ha organizzato in proprio il supporto logistico della campagna, fornendo apporti creativi, partecipativi ed economici personali. In realtà l’idea di una campanya non era esattamente nata dal centro, per espandersi poi a raggiera come nei processi decisionali della politica classica, ma aveva conosciuto i suoi spontanei esordi proprio in alcuni comuni, l’esempio prototipico dei quali è stato la città di Girona.

Il ruolo dei mass-media

Uno strumento imprescindibile al servizio del recupero di ogni lingua minoritaria sono i moderni mezzi di comunicazione di massa e in particolare la televisione. Nel settembre del 1983 sono state ufficialmente inaugurate le trasmissioni della TV-3, la prima rete televisiva autonoma, dipendente in parte dai finanziamenti della Generalitat e in parte dalle entrate pubblicitarie (la maggioranza degli spot, persino quelli delle grandi multinazionali, sono ora in catalano).

In breve, grazie all’abilità e alla qualificata formazione professionale dei tecnici e degli operatori che vi lavorano, questa giovanissima e dinamica rete è diventata, nonostante le difficoltà, l’ente pubblico televisivo più prestigioso dell’intera penisola iberica. Non solo: la quantità dei programmi e la modernità delle tecniche di ripresa e di presentazione hanno contribuito non poco a stimolare e a svecchiare la stessa TVE spagnola. L’audience si è in breve allargata dalla prima compatta e nutrita schiera di catalanisti ai più svariati settori della popolazione. Il doppiaggio dei grandi serial americani, come “Dallas” (le cui puntate, grazie a un contratto con l’agenzia di distribuzione venivano trasmesse in catalano prima che in spagnolo) 10), ha contribuito non poco alla diffusione della lingua anche tra i settori più refrattari della popolazione, regalandole un alone di prestigio fino ad allora non unanime. Infine è importante segnalare che tutte le partite delle squadre di calcio locali (comprese quelle del Barça e dell’Espanyol), come molti incontri internazionali di diversi sport, vengono trasmessi in catalano.

La lezione realistica che ci viene dalla Catalogna è che per diffondere una lingua di scarso prestigio (il catalano in realtà possiede un “prestigio relativo”) è forse necessario fare leva sugli istinti più conformisti del pubblico audiovisuale 11). D’altra parte, le trasmissioni radio in catalano hanno messo in onda i loro primi programmi già dalla fine degli anni ’70, almeno a livello pionieristico. Ma è solo con la legislazione vigente in materia di trasmissioni radiofoniche re gionali che le piccole emittenti private e quelle minori pubbliche hanno conquistato crescenti fasce d’ascolto. Catalunya-Radio, l’emittente della Generalitàt, continua a espandere il suo pubblico: fondata nel 1983, è passata da 75.000 ascoltatori nel 1984, un anno dopo la sua fondazione, a 244.000 nel giugno 1986 (ascolto triplicato). Quasi la metà delle stazioni private trasmettono in catalano almeno una parte dei loro programmi. Questo tuttavia non può ancora considerarsi un successo pieno ed esistono difficoltà derivate dal persistente uso della lingua dominante presso molte emittenti, le cui fasce d’ascolto non sono certo irrisorie.

La stampa in catalano ha conosciuto un certo rifiorire già con l’inizio di liberalizzazione seguita alla morte di Franco. Il primo quotidiano interamente redatto in lingua catalana, l’“Avui”, è nelle edicole fin dal 1976. Da allora sono proliferati i fogli municipali e “comarcali”12) e anche alcune testate quotidiane a diffusione regionale, come il “Punt Diari” di Girona. Nel maggio del 1987 si è infine verificato il più atteso evento della pubblicistica locale: un’antica testata di fama internazionale. il “Diari de Barcelona”, è stato riportato a nuova vita. Si tratta nientemeno che del primo quotidiano dell’intera Europa continentale, fondato nel 1792, alcuni anni dopo i capiscuola britannici. Allora era redatto in castigliano. Conobbe diversi periodi di crisi (con relative fasi di chiusura) e ora si pubblica interamente in catalano: l’iniziativa della sua rilevazione è stata presa dal Comune di Barcellona.

Se la’“Avui” rappresenta la voce del nazionalismo moderato e conservatore, il “Diari” vorrebbe essere il quotidiano dell’opposizione progressista all’interno del catalanismo, il che rappresenta un indiscutibile strumento di crescita culturale e di coscienza critica per l’intera cultura catalana. Esistono diverse pubblicazioni periodiche (settimanali o mensili) in catalano, ma non sono ancora in grado di competere con le rivali castigliane. Oltre al settimanale barcellonese “El Mòn”, emerge il valenziano “El Temps”, nazionalista, di taglio moderno e dinamico, che nell’impaginazione ricorda molto il nostro “Panorama”.

I libri hanno conosciuto una costante crescita fin dal 1959, anno in cui fu consentita una prima timida liberalizzazione 13). Il problema della scelta della lingua fra gli scrittori catalani è stato affrontato già da tempo seguendo un approccio sociolinguistico 14). Una politica, forse discutibile ma effettiva, è quella dell’acquisto da parte della Generalitat di almeno 200 copie di ogni libro pubblicato in catalano (300 per quelli a tirata minore), che vengono poi immessi nella rete di biblioteche pubbliche e nelle scuole 15). Nell’insegnamento si sono registrati notevoli progressi che vanno ben più al di là di quelle che potrebbero essere le massime aspettative di altre minoranze europee. Oggi il catalano è stato introdotto come materia obbligatoria in tutte le scuole del paese, mentre sono in aumento le classi in cui è usato come lingua veicolare, cioè attraverso la quale vengono impartite le lezioni 16). In alcune scuole (circa il 15%) viene eseguito in catalano tutto il curriculum, a eccezione della materia “lingua e letteratura castigliana”.

Lingua e politica

Durante la dittatura l’intellighenzia catalana conduceva la sua segreta lotta nell’incognito della clandestinità. Da questa situazione di opposizione e al tempo stesso di idealistica attesa, non era possibile a volte scorgere ciò che accadeva nel macrocosmo circostante. Dopo gli anni bui del franchismo sono stati compiuti diversi progressi, ma insieme ai tabù e alle proscrizioni sono cadute anche molte illusioni; le immagini e i sogni di chi poteva osservare solo uno spicchio della complessa realtà si sono a volte frantumati, rivelandosi drammaticamente inadeguati di fronte alla prepotente invadenza di un sociale infinitamente diverso da quello agognato. Tuttavia, proprio in virtù del fatto che la lingua era diventata nel frattempo un valore centrale intorno a cui si sono coagulate le maggiori aspettative della società catalana, le principali battaglie in suo favore sono state condotte all’insegna di un’unanimità presieduta dal realismo.

Tutte le forze politiche hanno appoggiato la battaglia per la lingua e persino la destra ha dovuto riconoscere che le nuove pressioni sociali impedivano di riproporre la vecchia politica anticatalana. Un fattore è determinante nel fenomeno catalanista: nessuno dei partiti politici spagnoli riesce tradizionalmente a ottenere consensi elettorali in Catalogna, almeno fin dal 1909. Così, per esempio, durante la Seconda Repubblica (1932-39) il comunismo, il socialismo, il costituzionalismo conservatore e il repubblicanesimo progressista erano tutti rappresentati da corrispondenti organizzazioni catalane completamente indipendenti (si trattava rispettivamente del Bloc Obrer i Camperol, dell’Uniò Socialista, della Lliga Regionalista e dell’Esquerra Repubblicana de Catalunya). Il fenomeno si mantiene a tutt’oggi e tende anzi notevolmente ad accrescersi, con la lenta scomparsa della tradizionale destra centrista e i trasformismi semantici di questo e altri partiti.Per i comunisti (ex-PSUC) si tratta di uno storico processo di rielaborazione, attraverso una propria visione, del catalanismo che non esclude componenti indipendentiste.

Una delle sfide che il catalano dovrà prossimamente superare sarà il suo riconoscimento come lingua ufficiale nelle relazioni tra le Comunità Europee. A suo favore concorre il fatto che il catalano è la lingua non ufficiale parlata dal maggior numero di persone in seno alla CEE. A tale scopo sono state raccolte oltre centomila firme per una petizione popolare avviata dalla Crida a la Solidarietat 17). A questa iniziativa hanno in seguito aderito tutti i gruppi parlamentari catalani (a eccezione della destra di sempre) e numerosissime personalità della vita politica, culturale e accademica locale 18). Per ora ha ottenuto l’appoggio a titolo personale del presidente del Parlamento europeo, lord Henry Plumb, mentre l’organizzazione promotrice ha annunciato la propria assistenza alle sedute plenarie del Parlamento al fine di intensificare i contatti con tutti i gruppi politici e ottenerne l’eventuale appoggio. Da notare infine che il catalano è stato eletto come lingua ufficiale per le Olimpiadi di Barcellona, che si celebreranno nel 1992.

L’immigrazione

Uno dei principali problemi che si è trovata ad affrontare la Catalogna postfranchista riguardava l’esistenza di un enorme numero di immigrati non integrati nel tessuto socio-culturale locale 19). In realtà, con la crisi industriale del passato decennio, le ondate immigratorie si sono arrestate, conoscendo addirittura il fenomeno dell’emigrazione di ritorno. All’origine delle difficoltà registrate in un primo tempo dalla società catalana per integrare i nuovi arrivati risiedevano, oltre al franchismo con le sue proscrizioni linguistiche, anche gli effetti di una caotica e impetuosa crescita urbana, che aveva determinato il formarsi alla periferia di Barcellona di compatte aree monolingui, virtuali ghetti quasi impenetrabili ai contatti con la società ricettrice. Si è posto dunque fin dal primo momento il problema di evitare un conflitto acuto tra i due gruppi 20).

Tuttavia il “problema” dell’immigrazione si rivelerà presto un falso problema, nonostante il fatto che oltre la metà degli abitanti siano di origine immigratoria. Infatti l’esperienza storica della Catalogna ha finora dimostrato che gli immigrati finiscono prima o poi con l’integrarsi nel tessuto sociale locale, anche linguisticamente. Lo spauracchio del “pericolo dell’imbastardimento” è stato tradizionalmente agitato dagli elementi più reazionari della società locale, ma anche, per ragioni opposte, dai centralisti. Per attendere la conferma di questa tendenza storica, sarebbe bastato aspettare pochi anni. Diverse inchieste, ma soprattutto il censimento della popolazione effettuato nel 1986, hanno confermato infatti una clamorosa avanzata del catalano.

La memoria storica della precedente forza assimilatrice della cultura autoctona ha fornito le basi per un diffuso ottimismo, ma questo è durato solo fino alla fine degli anni ’70, periodo in cui la società catalana ha iniziato a rendersi conto che la portata numerica dell’immigrazione era tale da minacciare seriamente le prospettive di un’integrazione anche parziale. Cominciarono allora a diffondersi articoli e voci allarmistiche sulle prospettive future e sulla salvezza della nazione catalana. Non si trattava però di timori del tutto infondati: appariva ormai palese che nella stessa città di Barcellona il catalano era ridotto allo status di lingua minorizzata, mentre il castigliano continuava ad avanzare su tutti i fronti, nonostante i primi timidi tentativi di plurasmo linguistico. La crisi sociale derivata dalla forte immigrazione ha scatenato accese reazioni soprattutto nei primi anni ’80, come accadde anche in Quebec, ed è stata all’origine della diffusione di un certo tipo di nazionalismo radicale, che vedeva definitivamente minacciata l’esistenza stessa della cultura catalana.

Tuttavia tali allarmanti presagi non generarono reazioni incontrollate e la risposta legata al tradizionale seny catalano fu piuttosto quella di cominciare a studiare seriamente la situazione, per cercare di trovare vie d’uscita onorevoli e non traumatiche. Da quel momento fu però chiaro che il problema della lingua si poneva alle radici di qualsiasi progetto politico volto alla convivenza 21) e come tale andava affrontato con strumenti scientifici adeguati. Già erano attive “scuole” e centri di ricerca sociologici e sociolinguistici che ruotavano intorno al fenomeno dell’immigrazione 22). E, come abbiamo accennato prima, i successi registrati nell’avanzata del catalano sono innegabili. Analizzando i risultati del Censo del 1986, relativi alla Catalogna stricta (Principato), e comparandoli con quelli del Censo del 1981, è possibile estrapolare deduzioni assai ottimistiche (pur senza cadere nel trionfalismo): la percentuale di coloro in grado di comprendere il catalano è aumentata addirittura dal 79,8% al 90,3% (un aumento di oltre il 10%, in soli 5 anni!). Ciò implica che la quasi totalità della popolazione è ora in grado di capire il catalano: solo il 9,4% afferma il contrario, ma si tratta essenzialmente delle fasce di età più inoltrata che tra l’altro non hanno avuto l’opportunità di apprendere il catalano a scuola (il restante 0,3% non risponde). Non disponiamo di dati comparativi circa il 1981, però il censimento del 1986 comprendeva tutti e quattro gli ordini di competenza (orale passiva e attiva, scritta passiva e attiva). I catalanofoni (cioè coloro in grado di parlare il catalano) risultano essere così il 64%. Per quanto riguarda la competenza scritta, coloro in grado di leggerlo sono il 60,5% e coloro in grado di scriverlo il 31,5%. Per confermare la positività di questi dati, basta segnalare che le percentuali sono assai più alte tra le giovani generazioni 23).

Conclusioni

È bene concludere con qualche nota di precisazione. Le possibilità di orchestrare cambiamenti linguistici “dall’alto”, come prova lo stesso franchismo, sono estremamente ridotte, anche in un contesto democratico dove dovrebbe prevalere una maggiore partecipazione politica dei cittadini. I Catalani appaiono quindi ben consci che il dirigismo in politica linguistica avrebbe scarsissime possibilità di prosperare. La scelta di una lingua investe componenti basiche della libertà individuale e nemmeno il quasi orwelliano tentativo di genocidio culturale perpetrato dal franchismo ha potuto influenzare oltre un certo limite i comportamenti linguistici delle singole persone. Con ciò non si vuole affermare che una pianificazione linguistica sia impraticabile o inutile, come alcuni vorrebbero sostenere: i dati che abbiamo fornito sono lì a dimostrare proprio il contrario. Gli effetti sono però riscontrabili generalmente a lungo termine, a misura di generazioni. E seppure per le strade di Barcellona si continui a udire il castigliano, ciò non significa che il catalano non stia effettivamente facendo progressi. Ed è questo il principale scoglio su cui, secondo alcuni critici, potrebbe rischiare di affondare una parte della politica linguistica attuale: sebbene oggi il catalano avanzi su quasi tutti i fronti, non può dirsi che avvenga altrettanto a livello del suo uso quotidiano.

Le percentuali indicate dal censimento non considerano le occasioni di uso effettivo. Una recente inchiesta ha scoperto che il 13% di coloro che nel censimento avevano dichiarato di saper parlare il catalano, non lo usano normalmente 24). Diverse sono le possibili spiegazioni a tale fenomeno: innanzi tutto si tende a parlare ancora in castigliano per una forza di abitudine difficile da modificare; inoltre, in molti ambiti non è avvertita una effettiva necessità di impiegare il catalano, anche a causa del bilinguismo istituzionale; secondo alcuni il rimedio — improbabile per ora — sarebbe una modifica dello Statuto di autonomia nella direzione di un monolinguismo ufficiale (il che non implica necessariamente una “chiusura”, nel senso di proporre una eliminazione del castigliano). Altre tesi meno “catastrofiste” sostengono che il catalano tende a retrocedere solo nelle aree dove esso è già in minoranza (i quartieri periferici di Barcellona) e ciò a causa dell’influenza determinante delle relazioni informali inter-personali (reti di amicizie, parentela, club, ecc.) che frenano qualsiasi tentativo di catalanizzazione “dall’alto”. Altri infine riconducono questa crisi all’esaurimento della funzione simbolica del catalano come strumento di coesione e di opposizione di fronte al franchismo, con il parallelo insediarsi di un governo autonomo a maggioranza centrista-liberale che ha fatto propria la rivendicazione catalanista 25).

Ma questa crisi è reale o solo momentanea? Diverse analisi sociolinguistiche, molte delle quali ancora in corso, cercano di determinare le reale portata del fenomeno e la sua evoluzione, considerando ciascuna delle suddette ipotesi. Solo attraverso un’integrazione profonda di discipline tanto varie come la sociologia, le scienze politiche, la linguistica, la demografia, le scienze dell’educazione e delle comunicazioni di massa, sarà possibile superare l’attuale “crisi” di apparente retrocessione del catalano parlato. I progressi entusiasmanti registrati in questi ultimi anni lasciano comunque spazio a una serena speranza.

 

NOTE

1) Si tratta di gallego, basco e catalano (che comprende anche la varietà ufficialmente definita, per motivi politici, “valenziano”). Cfr. Rafael Ninyo, Cuatro idiomas para un estado, Madrid, Cambio 16, 1977. A queste lingue si vorrebbero ora aggiungere anche il bable o asturiano (Asturie) e l’aragonese (parlato in una piccola zona pre-pirenaica dell’Aragona). Inoltre in Catalogna, nella piccola valle d’Aran, gode di un riconoscimento ufficiale anche l’aranese, una varietà guascona di occitano.

2) Secondo i nazionalisti, il termine Catalogna si riferisce solo a una parte, sebbene quella con maggior peso demografico ed economico, dei Paesi Catalani: così vengono definiti i territori nei quali si parla tradizionalmente la lingua catalana. Questi comprendono, oltre al “Principato” (cioè la Catalogna propriamente detta), anche il Paese Valenziano, le Isole Baleari, una piccola “frangia” dell’Aragona meridionale, a cui bisogna aggiungere il Rossiglione (in Francia), lo Stato di Andorra e infine la città di Alghero, in Sardegna. Complessivamente vi abitano quasi 10 milioni di persone, di cui oltre 7 sono catalanofoni. Le stime più recenti, ottenute dalla comparazione di tre dati censuali regionali, ascrivono a oltre otto milioni e mezzo (8.623.202) coloro in grado di comprendere il catalano. La distribuzione è la seguente: 5.287.200 nella Catalogna (Principato), 2.775.007 nella regione valenziana e 560.995 alle isole Baleari. Mancano ancora dati affidabili sulle altre regioni catalanofone (Avui, 21 aprile 1988, pp. 1-3)

3) Alle Norme Ortografiche del 1913 seguirono la Grammatica Catalana del 1918 e il Dizionario Generale della Lingua Catalana del 1932, a opera dello stesso Pompeu Fabra.

4) Cfr. Francesc Ferrer i Girones, La persecuciò politica de la llengua catalana, Barcelona, Edicions 62, 1986.

5) Constitucion española – Regulamento del Senado (1982), Madrid, Publicaciones del Senado.

6) Aina Moll, a cura di (1983), Por la normaliza- ciò lingüística. Opuscolo edito dalla Generalitat de Catalunya.

7) Lo Statuto di Autonomia afferma che la Generalitat, cioè le istituzioni di autogoverno, è formata dal Presidente, dal Governo, dal Parlamento e dal Tribunale di Giustizia (quest’ultimo non è ancora in funzione, mentre i trapassi di competenza agli altri organismi sono già stati completati da tempo).

8) La llei de normalizaciò lingüística a Catalunya, (1983). Opuscolo edito dalla Generalitat de Catalunya.

9) La campanya de normalizaciò lingüística, (1983). Barcelona, Generalitat de Catalunya.

10) È del maggio 1988 la notizia di un accordo triennale tra la TV3 e la società Reteitalia (una filiale del gruppo Fininvest Media di Berlusconi), in virtù del quale, oltre al celebre feuilleton Dallas, potranno essere trasmessi altri telefilm e sessanta lungometraggi. Si prevede infine la coproduzione di show d’intrattenimento serale formato esportazione per altre reti europee.

11) Nel fare paragoni estensivi e longitudinali con altre lingue minorizzate, i precedenti del Québec e delle Fiandre vengono incontro a tale ipotesi.

12) 12 Le comarche sono le tradizionali amministrazioni locali caratteristiche della Catalogna, precedenti all’arbitraria introduzione delle “province” imposte per decreto da Javier de Burgos nel 1833 e dipendenti dalla figura di un “governatore civile”, mera protesi locale dell’autorità centrale.

13) Si è passati così dai 790 libri pubblicati nel 1975 ai 3754 titoli del 1986. La produzione editoriale è aumentata di sette volte rispetto al 1965. Il mercato potenziale comprende i circa cinque milioni di catalanofoni con sufficiente competenza passiva scritta. Cfr anche Francesc Vallverdù (1979, ried. 1986), La normalizaciò lingüística, Barcellona, Edicions Laia.

14) Frances vallverdù (1968), L’escriptor català i el problema de la lengua, Barcelona, Edicions 62.

15) Se da una parte è evidente il vantaggio derivato dall’incoraggiamento a scrivere e pubblicare in catalano, il rischio sottostante implica che la qualità delle pubblicazioni, non potendo affidarsi al mercato, difficilmente tenda a eccellere. La politica dei finanziamenti limitati, ma sicuri, non costituisce infatti uno stimolo abbastanza forte affinché gli scrittori diano il meglio delle proprie potenzialità creative.

16) Daniele Conversi, L’insegnamento in Catalogna, in “Riforma della scuola”, 1, 1987, pp. 28-35. Joan Guitart i Agell, La normalizaciòn lingüística de la enseñanza en Catalunya, in “Perspectivas”, 62, 1987, pp. 319-325.

17) Si tratta di un importante movimento di rivendicazione dei diritti linguistici di cui fanno parte diverse fondazioni culturali, entità civiche, sportive, associazioni pubbliche e private di diverse tendenze politiche, imprese, ecc. La Crida si è distinta in passato per clamorose azioni in difesa del catalano.

18) Da notare che fra i firmatari c’è addirittura il nome del Ministro della Difesa spagnolo, Narcis Serra, un catalano. In questa e in altre circostanze è stata ed è tuttora determinante la presenza presso le corti madrilene di un nutrito gruppo di pressione catalano, che opera dall’interno delle principali forze politiche spagnole. Il documento rivendicativo è stato firmato dalla gran parte delle personalità di spicco della vita locale: cantanti, attori, rettori di università, monaci di Montserrat, storici, musicisti, editori, poeti, sportivi, sindaci, rappresentanti di movimenti alternativi, ecologisti…

19) Cfr. Daniele Conversi, L’integrazione degli immigrati a Barcellona, “Etudes Migrations/Studi Emigrazione”, 90.

20) Il progetto di creare due comunità antagonisticamente contrapposte in base alla cultura d’origine e di strumentalizzare gli immigrati come bastioni e braccio dell’imperialismo castigliano, è stato una vecchia aspirazione (regolarmente fallita) della destra. Per i catalanisti invece l’unico vero conflitto rimane quello tra la Catalogna e il potere centrale. E per la sinistra tale conflitto si articola anche in base a lealtà di classe che non coincide affatto, come vorrebbero far credere gli spagnolisti, con una pretesa contrapposizione tra residenti catalani e immigrati “spagnoli” (che in realtà sono quasi tutti di provenienza andalusa).

21) Neanche la classe politica in tutto il suo ampio spettro di tendenze e partiti ha potuto ignorare tali imperativi. Le decisioni essenziali in questo campo, come la “Legge di Normalizzazione Linguistica”, sono state plebiscitariamente approvate con l’adesione di ogni forza politica parlamentare.

22) Per una rassegna globale degli studi di sociolinguistica catalana svolti fino al 1978, cfr. Francesc Vallverdù, Aproximaciò crìtica a la sociolinguìstica catalana, Barcelona, Edicions 62, 1980. Sulle implicazioni teoriche di questa scuola cfr. Daniele Conversi (1985), Diglossia e conflitto nella sociolinguistica catalana, in “La critica sociologica”, estate 1985, n° 73.

23) Nella fascia d’età dai 10 ai 19 anni, le percentuali salgono nettamente: lo capiscono il 96,9%, lo sanno parlare il 78,1%, lo sanno leggere l’80,6% e infine lo sanno scrivere ben il 62,7%. La bassissima percentuale di incomprensione del catalano (2,8%) mantiene una correlazione positiva con quella degli insuccessi scolastici.

24) “Diari de Barcelona”, 28 febbraio 1988.

25) Se il catalano non rappresenta più un simbolo di resistenza, alcuni arrivano alla paradossale conclusione che “si stava meglio contro Franco”. E l’approdo ultimo è ancora una volta l’indipendentismo radicale, stavolta di ispirazione basca. Si tratta per ora di fenomeni marginali, data la tradizionale aspirazione dei Catalani alla stabilità e alla pace sociale.