Nel centenario della scomparsa, l’Eroe dei due Mondi fa il punto sulle Sue posizioni politiche, leggermente fraintese dalla Storia e dall’attuale reggenza.

Giuseppe Garibaldi

Lo so. È l’anno del centenario. Non ho che da sfogliare un giornale, una rivista, un periodico che, per un verso o per l’altro, subito ti trovo qualche scemenza sul mio conto. Anche per televisione. Fortuna mia che qui a Caprera si prende male. Scemenze.

Un ‘orgia di scemenze. Da destra, da sinistra, dal centro. E ciascuno mi sfrutta per i fini suoi. Ne esco con un’immagine che non mi fa onore per nulla. Fasulla, naturalmente. Così, continuo a venir frainteso.

Da un lato molti — tutti, quasi — stanno riverniciando quella leggenda dell’integerrimo, del trascinatore, del carismatico come dite, dell’EROE insomma, che già mi avevano cucito addosso da vivo, da un altro lato altri lasciano affiorare il suggerimento che io abbia unificato l’Italia con grande entusiasmo, grande irruenza, grande generosità, ma anche con poca intelligenza. Già quella bacchettona della Florence Nightingale aveva detto che io non capivo a fondo le cause per cui combattevo; e, di rincalzo, il mio maestro, il Mazzini, grande esperto in colpi bassi e pugnalate alla schiena (e anche quelle le faceva vibrare dagli altri) aveva scritto a John Morley che io ero «un socialista e un ignorante con faccia di leone e altrettanto stupido». Con maggiore eleganza, l’addetto militare britannico, il colonnello Cadogan, aveva scritto di me in patria: «La sua cultura è modesta e le sue idee, se pur oneste, non si elevano al di sopra dei luoghi comuni generici e banali; una semplicità d’animo caratterizzata da illusioni quasi di fanciullo sulla natura umana». Cioè, un bischero.

Cosi io passo come il bisonte che ha fatto l’Italia penetrandola infoiato dal fondo su fino alla cima.

Poi sono arrivati i colonizzatori, colti e intelligenti, che lavorando di fino, attraverso il rozzo corridoio che io avevo aperto, hanno pianificato, elaborato, ristrutturato, perfezionato, in una parola hanno fatto l’Italia.

Si, guardatevi in giro. Italiani! Nei guai vi avevo lasciato, nei guai vi ritrovo. È il mio centenario. Se almeno, fra le tante scempiaggini e mistificazioni, si levasse una voce a dire: «Qui ci vorrebbe Garibaldi!». Diranno tutto, ma questo non lo diranno mai. Sanno benissimo che se tornassi, come prima cosa li prenderei uno a uno per la pelle del collo e li caccerei lontani dalla cosa pubblica a calci nel sedere.

«Qui occorre un uomo » era la mia ricetta per l’Italia. Continua a esserlo. E quando dico «un uomo» intendo un uomo con qualcosa di più degli altri. Che marci in avanti con spavalderia, improvvisazione, con sano squadrismo. Tanti anni fa, in un mio discorso elettorale avevo detto pubblicamente e a chiare lettere: «Ormai solo un dittatore dal polso d’acciaio può rimettere a posto le cose in Italia». Lo ripeto oggi.

O meglio, lo ripeterei. Poiché nessuno me lo fa dire. Perché hanno il terrore che torni a ripetere quello che già dissi ai miei tempi. Creerei troppi imbarazzi. E mi dipingono un ritratto che non è il mio. In cui dico cose che non ho mai detto, e taccio le cose che ho sempre gridato ai quattro venti e scritto in centinaia di pagine. Quelle preferiscono farle passare come i patetici vaneggiamenti di un vecchio ingenuo e incolto.

Mi obbligano a restare fedele al vecchio cliché. Secondo il quale chinavo il capo e pronunciavo umilmente: «Obbedisco ». Obbedisco, un corno!

Piaccia o non piaccia ho detto e scritto ben altro. E voglio ripeterlo oggi, nel tentativo di salvare una seconda volta — se ancora è possibile — questo disgraziato paese.

E perciò riaffermo, per un ‘ennesima volta, che se si vuole salvare l’Italia non esiste altra via che incominciare a rendere inoffensivo il sistema parlamentare. Scrivete stampatello, come ho scrittoio, che «la dispersione della sovranità in una pluralità di persone è sempre pericolosa». E più che mai in Italia, dove «il sistema rappresentativo è una prostituzione peggiore del più aperto dispotismo». Anzi, è il parlamento stesso «a fungere da paravento a un dispotismo più rivoltante appunto perché più latente». Più strisciante, se preferite.

Io ho sempre avuto, e motivatamente, una profondissima, istintiva sfiducia nella vuotaggine del sistema parlamentare e nei parlamenti in blocco. Sono tutti della stessa razza. Quei di sinistra compresi. Anzi, in certi casi, a cominciare proprio da loro. Il mio amico Depretis, pen esempio, anche lui tutto sorrisetti, collotorto e formulette, non appena al potere si è rivelato come gli altri: infido, corrotto e leccaculo (quello dei Savoia, poi!).

Un altro guaio del sistema rappresentativo si può ricavare dai pericolosi smembramenti che provoca, suo malgrado. Già ai miei tempi avevo avuto motivo di impensierirmi notando, in Sicilia per esempio, pericolosissime tendenze autonomistiche e separatistiche.

Avevo subito capito io, già allora, che l’Italia aveva bisogno di un «robuste et redoutable faisceau».

È vero, l’avevo detto in francese; e gli storici — quei pochi che si sono arrischiati a riferirlo — sempre l’hanno lasciato in francese, tanto li terrorizza la sola parola.

Ma io dei tabù me ne frego. E traduco. «L’Italia ha bisogno di un fascio, temibile e robusto ».

Alt! Non fraintendetemi anche voi. E, soprattutto, non fatemi torto. Ai miei tempi la parola non aveva il significato che avrebbe acquistato in seguito. Sia ben chiaro che io ho sempre parlato di dittatura, mai di tirannia. Ci mancherebbe! Proprio io che ho speso la vita a combatterla. Ho in mente Cincinnato, non Cesare.

Il rischio di una dittatura è che può mutarsi in tirannia, è vero. Ma questo è il rischio di qualsiasi forma di governo; la storia insegna. E poi, la dittatura che io predico e propongo è una dittatura temporanea. Andatevi a leggere i miei scritti. La troverete teorizzata ampiamente e chiaramente.

Un dittatore eletto dal popolo. Ogni due anni. Possibilmente mai la stessa persona. Che, come prima cosa, spedisca a chiacchierare a casa loro deputati e senatori. Governi con il sostegno di soli esperti, mai di politici. E, soprattutto, col sostegno dell’onestà.

Difficile trovare un uomo onesto? Può darsi. È più facile, comunque, trovarne uno da farne un buon dittatore che trovarne mille da farne buoni parlamentari.

E se, una volta scelto, si rivelasse non onesto? Tanto peggio per il popolo che non ha saputo scegliere. Cosi imparerà a proprie spese. Non c’è sistema migliore per imparare. I periodi più belli nella storia d’Italia non sono forse quelli delle dittature? Quelle di Cincinnato e di Fabio, per non fare che un esempio. Lo so. Sono parole al vento. Sono parole che non mi lasciano dire. E quando le trovano nei miei scritti spiegano che scrivevo una cosa, ma ne intendevo un’altra. Bella figura. E se qualcuno riprende pari pari le mie parole gli dicono che è uno sprovveduto che non sa leggere fra le righe; che non sa dire pane al vino e vino al pane. Bella figura anche lui. Italiani! Non date retta. Andate a leggervi il mio testamento spirituale. Vi troverete tutto quanto vi ho, in poche parole, detto ora.

E celebratemi. Celebratemi pure. Ma ricordatevi sempre di questa mia raccomandazione. È la stessa che conclude il testamento politico spirituale che prima di morire vi ho lasciato: sceglietevi l’uomo più onesto d’Italia ed eleggetelo dittatore. Onesto. E, possibilmente, con tutto ancora in funzione.

Due anni. Poi, si vedrà.

(a cura di Pier Francesco Gasparetto)