È proprio nel cantone d’origine che la lingua ladina grigionese sta scomparendo.Tra le cause, l’emigrazione e l’invasione economico-culturale degli svizzeri tedeschi.

L’attuale area ladina è quanto rimane di un’altra area ben più vasta, che si stendeva da Trieste al San Gottardo e al lago di Costanza, spezzata poi dalle penetrazioni tedesche e italiane. Oggi di essa possiamo distinguere tre zone: la prima è quella orientale o furlana, sottoposta da secoli alle pressioni linguistiche del veneto e dell’italiano; la seconda è la zona dei ladini dolomitici della provincia di Bolzano – che godono di una certa protezione derivante dalla tutela accordata alla “pericolosissima” minoranza sudtirolese – e dei ladini trentini e bellunesi, per nulla protetti e quindi in via di italianizzazione galoppante; la terza zona, quella che ci interessa in questa sede, si trova all’interno della Confederazione svizzera, nel cantone dei Grigioni: il cantone, appunto, sede da millenni dei Retoromanci.

Come i fratelli ladini abitanti in territorio italiano, le popolazioni delle valli grigionesi vivono, in meravigliosi luoghi di montagna, in un isolamento che ha determinato la loro peculiare vicenda. A partire dalla fine del secolo scorso la bellezza stessa del paesaggio è stata sfruttata dal turismo, anch’esso protagonista, sovente negativo, della storia romancia.

Ritrovamenti archeologici, testimonianza di una civiltà progredita, dimostrano che le valli erano popolate almeno fin dall’età del bronzo; erano quei montanari che i Romani, a partire da Tito Livio, chiamavano “Reti” e che si mostrarono tanto eroici contro i grandi antenati degli odierni impiegati di ministero (sic transit…) da meritare i complimenti di Orazio e di Ovidio.

Varie ipotesi si sono proposte sulla storia etnica dei Grigioni. Etruschi secondo Livio, etruschi ma provenienti da est e non da sud secondo Mommsen, celti nell’opinione di Carlo Salvioni, sangue misto ligure, veneto-illirico, celta e romano secondo uno studioso locale, Federico Pieth, i Reti apparivano, nell’ipotesi di Peidar Lansel, uno dei più grandi poeti indigeni, il risultato della fusione dei primitivi etruschi con gli illirici sopraggiunti dall’Adriatico.
Come si vede, poco è concesso alla colonizzazione romana anche se è innegabile che l’elemento latino si inserì nel tessuto linguistico precedente, dando vita ad una nuova lingua, il ladino appunto.

Un momento importante nella storia dei Grigioni fu l’843 d.C., anno in cui il trattato di Verdun assegnò la diocesi di Coira alla Chiesa metropolitana di Magonza, staccandola da quella di Milano. Da allora iniziò la lunga storia dell’influenza germanica sui Retoromanci che arriva fino ai nostri giorni, i giorni del turismo elitario di S. Moritz, sfortunatamente oggi troppo poco “San Murezzan”.

Il latente atteggiamento di diffidenza verso l’Italia crebbe quando, sotto il fascismo, la politica irredentistica spaventò gli svizzeri reclamando i territori “italianissimi” del Ticino e dei Grigioni con l’argomento che nelle valli di questo cantone si parlavano dialetti dell’italiano, esattamente alpino-lombardi, sulla scia di quanto il celebre linguista Ascoli (sia pure in buona fede) aveva dichiarato.

Così, nel 1938 il romancio divenne per volontà del popolo svizzero quarta lingua nazionale (575.000 voti a favore contro 53.000 contrari): l’anti-italianismo di allora servì, in fondo, da molla per sensibilizzare la democratica Svizzera sul problema della quarta lingua.

Emigrazione

Ma il riconoscimento del romancio come lingua nazionale fu un fatto – oggi lo si può dire – platonico: ben altra cosa sarebbe stato riconoscerne il ruolo di lingua ufficiale della Confederazione… Certe cifre potrebbero trarre in inganno; dal secolo scorso la popolazione romancia è aumentata ma, rispetto alla popolazione dell’intera Svizzera, è cresciuta dieci volte più lentamente. I Romanci oggi dovrebbero essere 110.000, invece rimangono in 50.000, di cui 18.000 fuori del tradizionale territorio e nelle grandi città della Confederazione, soprattutto Zurigo, dove sono chiaramente sottoposti a un considerevole processo di glottofagia; i figli degli immigrati spesso non parlano più la lingua della loro terra d’origine, e si pensa che la comunità romancia dovrebbe scomparire nelle grandi città in poco tempo se non fosse rinsanguata da continui arrivi dalle valli grigionesi.

Ecco, dunque, una delle risposte al perché della crescita irrisoria dei Romanci: l’emigrazione. Un’emigrazione continua, all’interno della Svizzera, ma anche verso le megalopoli dell’Europa settentrionale e del Nordamerica; un’emigrazione che allontana le persone più giovani, le sole che potrebbero affrontare con energia i più ingenti problemi; un’emigrazione causata talvolta dalla negligenza di chi controlla le leve del potere economico svizzero. Come nel caso di Domat.

Questo villaggio non lontano da Coira, pure esposto da secoli alla germanizzazione, aveva conservata intatta la sua cultura romancia sino alla vigilia della seconda guerra mondiale, periodo in cui iniziò la sua industrializzazione. Essa provocò un massiccio insediamento di maestranze di lingua straniera (quasi tutto svizzeri tedeschi) in un luogo che — allo sbocco delle due valli del Reno – era e resta un passaggio obbligato per tutti gli emigranti romanci della Surselva, Sutselva e Surmeir, i quali almeno in 15.000 transitarono di lì senza fermarsi! Alcune centinaia di operai della zona hanno sì trovato lavoro a Dumat, ma che cifra è questa in confronto ai 3.500 stranieri? Non si può non pensare che le officine di Domat siano state paracadutate con macchine, operai e direttori, senza curarsi molto dei Romanci e tanto meno del loro habitat culturale… Anche l’altra industria tradizionale dei Grigioni, il turismo, non reca che pochi benefici alla popolazione romancia. Infatti, i grandi capitali alberghieri sono nelle mani soprattutto di svizzeri-tedeschi, e ciò concorre a quella pressione germanica di cui abbiamo parlato prima. A tale proposito, c’è chi vorrebbe veder attuata una maggior apertura nei confronti del turismo italiano e francese: non per bieco sentimento anti-germanico, ma semplicemente perché l’appoggio e la simpatia di genti neo-latine potrebbero far ritrovare ai Romanci parte della identità perduta. Ovviamente ciò non basterebbe a salvare il romancio: i problemi incombenti sono enormi, ed enormi devono essere i mezzi con cui affrontarli.

In tutta Europa, ahimè, assistiamo a un regresso complessivo delle lingue minoritarie e dei cosiddetti dialetti. Ci sono governi che combattono queste culture in modo aperto e sfacciato, come il francese; il governo di Roma adotta invece le silenziose tattiche di una discreta italianizzazione, lenta ma inesorabile.

In questo amaro contesto ci si era abituati a guardare alla Svizzera come ad un modello: non solo ivi convivono quattro diverse etnie, ma di esse sono rispettate le lingue madri, oltre che le relative grandi lingue letterarie. Il franco-provenzale resiste, anche se in regresso, accanto al francese ufficiale in Romandia, mentre nella Svizzera tedesca l’alemannico è parlato nelle più svariate situazioni, in buoni rapporti col tedesco letterario in cui scrisse il grande Gottfried Keller. Analogo discorso per il Canton Ticino e per le altre valli omoetniche dei Grigioni: Francesco Chiesa ha scritto in lingua italiana, ma è nel territorio svizzero che la lingua celto-padana, nella sua varietà lombarda, resiste meglio, cosicché un comasco può seguire programmi nella sua lingua madre solo attraverso la radio e la televisione della Svizzera italiana.

Il canto del cigno

Questa situazione per certi versi idilliaca ha fatto un po’ passare in secondo piano i problemi del romancio: nel senso che si è pensato che la tutela nei suoi riguardi fosse più che sufficiente. E invece non bastano poche ore di radio e di televisione, non basta che l’istruzione si svolga in romancio solo per i primi tre anni e nei successivi si riduca via via sino a scomparire.

Per salvare e potenziare il romancio occorre attuare, secondo l’incisiva proposta di Jean-Jacques Furer (autore di un pamphlet, appassionato e ricco di dati, dal titolo premonitore: La morte del romancio, Coira, 1981), questo impegnativo programma:

1) riconoscere il romancio come lingua ufficiale della Confederazione, del cantone dei Grigioni e di tutti gli enti di pubblica utilità;

2) insegnare soltanto in romancio nei comuni romanci, con la possibilità di conseguire la maturità in romancio;

3) fondare una università romancia dove i romanci possano studiare nella loro lingua;

4) creare una radio ed una televisione puramente romance.

Forse ad alcuni questo programma può apparire utopico; ma non io è. Certo, bisogna combattere l’idea che il romancio sia inutile (altra importantissima causa della stasi numerica di questo popolo) di fronte al tedesco, lingua utile per antonomasia; per fare ciò occorre approntare quella serie di rimedi sopra elencati che costano molto, economicamente parlando. Non bastano certo i 605.000 franchi che la Confederazione ed i Grigioni passano annualmente alla Lega romancia: come può, quest’ultima, sostenere l’intera rete di scuole infantili, pubblicare dizionari e manuali tecnici, e, in breve, salvare una lingua e una cultura minacciate? Nonostante ciò, la letteratura romancia è oggi vitale, sia dal punto di vista quantitativo che della qualità (ma anche la nuova poesia d’oc e la moderna poesia romagnola sono vivissime in luoghi dove quasi nessun giovane parla più la lingua dei suoi nonni: spesso, prima di esalare l’ultimo respiro, le lingue hanno un meraviglioso canto del cigno…).

Quale tipo di romancio dovrebbe venire adottato per queste misure? Esistono ben sei varietà di romancio: il ladino alto o putèr, il ladino basso o vallàder, il ladino di Val Monastero o jàuer, tutti e tre parlati nell’Engadina; il romancio alto o sursilvan e il romancio basso o sutsilvan, parlati nelle valli renane; infine il romancio dell’Albula e del Giulia detto surmiran, parlato nel centro del territorio romancio.

Secondo Jean-Jacques Furer, la varietà da scegliere dovrebbe essere il sursilvan poiché è la lingua scritta dalla maggioranza della popolazione: naturalmente esso sarebbe rimpiazzato dall’interromancio quando un giorno verrà creata questa lingua.

Il parere di Guido Calgari, scrittore e docente ticinese, profondo esperto di tutte le realtà letterarie svizzere (ed a cui si deve la preziosa monografia su Le 4 letterature della Svizzera, ed. agg. Sansoni – Accademia, 1968) è che la lingua unificata dovrebbe sorgere dall’espressione di un grande scrittore in lingua romancia che eleverebbe, quindi, la parlata da lui usata a rango di lingua comune. Ed egli, ticinese, mostra nei confronti del popolo e della iingua romanci un atteggiamento comune a quello, già espresso, del 95% degli svizzeri, cioè una grande simpatia per questa minoranza; poiché lo svizzero è sempre andato fiero del pluralismo che caratterizza e nobilita il suo paese.

La morte della quarta lingua nazionale sarebbe guardata nel mondo come una sconfitta per tutta la Svizzera: sarebbe la caduta di una delle quattro braccia della croce della sua bandiera.
Morirebbe la “Svizra”; e la “Schweiz”, la “Suisse” e la “Svizzera” non avrebbero più lo stesso significato dopo la scomparsa della loro sorella più piccola.
Sarebbe, come dice Furer, il principio della fine per l’intera Confederazione.

Poche speranze dal censimento federale

L’Ufficio federale di statistica ha sfornato i dati del censimento del 1980, che documentano il numero dei parlanti la lingua retoromancia in Svizzera. Il numero rotale, 51.128 persone, sembra consolante: rappresenta formalmente un incremento di 789 unità rispetto al 1970, che era di 50.339; si tratta, in sé, di un aumento dell’ 1,5 per cento, ma è un aumento subdolo, che nasconde la verità.

Vediamo perché l’incremento è falsamente consolante: prima di tutto perché il destino della lingua romancia si gioca nel territorio grigione, anzi nel territorio ancestrale romancio, la Ramontschia: è lì che la madrelingua è andata indietro. Non conta ciò che avviene nel resto del Paese: infatti gli emigrati romanci, pur essendo in molti casi produttori molto validi di cultura, sono destinati nella grande maggioranza all’assimilazione ad un’altra lingua, alla seconda o al più tardi alla terza generazione.

In secondo luogo va notato che stavolta, in occasione del censimento, si sono registrati come retoromanci un certo numero di friulani (il loro diritto di farlo non è di oggi, è vecchio di decenni; ma prima non era stato propagandato, e quindi lo si era usato poco): ora, i friulani sono sì dei ladini anche loro, ma non sono romanci in senso stretto e quindi il loro apporto culturale alla “quarta Svizzera” non ha forza, non serve a rinsanguare la lingua, a irrobustire la minoranza ladina di Svizzera, o vi serve pochissimo, alla stessa maniera che l’apporto degli immigrati italiani non porta forza, se non in qualche caso particolare, alla minoranza ticinese.

Ebbene, il numero dei friulani registrati, quindi dei “retoromanci non svizzeri”, è stato questa volta forse di 1.500 unità: se vi si aggiunge un certo numero di naturalizzati (qualche centinaio), si deve concludere che il numero di cittadini svizzeri di madrelingua retoromancia-ladina dei Grigioni è calato sotto le 50.000 persone, anzi è più prossimo alle 49.000 unità. Di queste poi, solo 30.200 vivono all’interno del loro territorio tradizionale: è questo il dato preoccupante, doloroso, uscito dal censimento. E a questo aspetto che devono ora rivolgersi gli studi e gli interventi della Ligia Romontscha e delle altre società romance, del Governo grigione e del mondo politico e amministrativo federale.

Pochi mesi fa è nata a Laax una nuova società culturale per il sostegno alla lingua, la “Fundaziun retoromana Piaci a Spescha”.

Vediamo ora qual era nel 1980 la presenza romancia nei Cantoni d’emigrazione, che documenta la diaspora dalle vallate del Reno e dell’Inn ma, ripetiamo, comprende un certo apporto friulano.
I retoromanci “nel resto della Svizzera” erano 15.111, contro i 12.483 del 1970: si è avuto un aumento del 21 per cento. Le comunità più significative sono quelle di Zurigo (5.608 contro i 4.706 del 1970), di San Gallo (1.919 contro i 1.482 del 1970), di Berna (1.181 contro 876), d’Argovia (959 contro 723), di Lucerna (642 contro 525). Nel Ticino i retoromanci sono passati dai 368 del 1970 a 505.

A questi incrementi negli altri Cantoni fa ovviamente da rovescio amaro della medaglia la diminuzione nel Cantone d’origine, dove i romanci sono passati da 36.017 a 32.878 (il 5 per cento di meno) e si è fatta più massiccia la presenza tedesca: non solo quella storica, tradizionale, ma anche quella legata al boom turistico degli ultimi anni. La nuovissima industria delle vacanze è praticamente nelle mani di gente non legata alla cultura romancia, gente che finora si è mostrata poco disposta ad integrarsi al piccolo mondo neolatino retico, anzi poco disposta a rispettarlo.