ronan bennet intervista

Ronan Bennett, nato a Belfast il 14 gennaio 1956, è uno scrittore ed ex militante dell’IRA. Cresciuto a Belfast, dopo aver vissuto una sofferta esperienza di militanza politica (accusato di appartenenza all’Official IRA) ed essersi laureato in Storia presso il King’s College di Londra, ha intrapreso una carriera di scrittore che non si è mai allontanata dall’impegno civile e dall’esigenza di testimoniare la difficile realtà sociale e politica del suo e di altri Paesi. Ronan Bennett scrive regolarmente per “The Guardian” e “The Observer”.
“Uscire dal carcere non è che l’inizio. Evadere dal proprio passato, questa è la vera sfida”. Ronan Bennett, a causa del suo impegno per la causa repubblicana, ha conosciuto due volte l’esperienza del carcere: a Long-Kesh e a Brixton, negli anni Settanta. Una prima volta venne arrestato con l’accusa, poi risultata infondata, di aver ucciso un poliziotto. Venne condannato all’ergastolo in base alla testimonianza di una persona che in un secondo tempo (al processo d’appello) riconobbe di essersi confusa. Un classico esempio di errore d’identificazione usato strumentalmente per imprigionare i militanti repubblicani. In seguito, trasferitosi in Gran Bretagna, venne nuovamente arrestato per cospirazione e subì un lungo periodo di carcerazione preventiva. Anche in questo caso le accuse risultarono una montatura e il suo processo acquistò una certa notorietà sulla stampa come “il processo a persone non identificate che, in luoghi non identificati, progettavano attentati contro altre persone non identificate”.

Dalla repressione ai colloqui

Qualche tua considerazione sulle recenti dichiarazioni del governo inglese che, finalmente, ha detto di essere disposto a dialogare con il Sinn Féin. Cosa ne pensi?
Le dichiarazioni rese da Major verso la metà di ottobre sono la conferma che senza il Sinn Féin non è possibile trovare una soluzione al problema dell’Irlanda del Nord. Negli ultimi anni il governo inglese aveva sempre cercato una soluzione che escludesse il Sinn Féin.

Puoi riassumere quali sono state le diverse strategie adottate dalla Gran Bretagna?
Per la prima parte di questo conflitto [Ronan si riferisce agli ultimi venticinque anni] la Gran Bretagna ha adottato una politica di sistematica repressione: processi senza giuria, internamento, uso dei proiettili di plastica anche contro manifestazioni pacifiche, la strategia adottata dai Servizi britannici di “sparare per uccidere”, eccetera. Nella seconda fase del conflitto, accanto a questi metodi, hanno adottato anche una strategia diversa, di “soluzione politica”, ma sempre con l’esclusione del Sinn Féin. I vari segretari di Stato per l’Irlanda del Nord hanno imbastito tavole rotonde con i partiti irlandesi, tavole rotonde a cui però il Sinn Féin non poteva partecipare. Questi colloqui venivano sempre salutati con ottimismo dalla propaganda. Ogni volta i media davano l’impressione che ormai la soluzione definitiva fosse a portata di mano.

Questa era anche la tua impressione?
Personalmente, ogni volta ero del parere che tutto si sarebbe concluso con un niente di fatto. Cosa che poi accadeva regolarmente.

I conati di vomito di Major

Quando e perché le cose hanno cominciato a cambiare?
Le cose sono rimaste sostanzialmente inalterate fino a poco tempo fa. Ancora l’anno scorso Major sosteneva che non avrebbe mai parlato con esponenti del Sinn Féin; anzi dichiarò che “solo l’idea di parlare con Gerry Adams mi fa venire il voltastomaco”. A uso e consumo del suo elettorato, evidentemente. Quello che al popolo inglese non veniva detto era che già in quel momento tra il governo britannico e il Sinn Féin si svolgevano colloqui segreti. Proprio mentre Major rilasciava queste interessanti dichiarazioni sul suo stomaco, Gerry Adams rendeva pubblici i documenti che provavano l’esistenza dei colloqui. In un primo momento, superato l’iniziale imbarazzo, il governo inglese cercò di negare l’evidenza. Poi ammise che c’erano stati dei “contatti”.

Come giustificarono la cosa?
Uno dei motivi addotti per giustificare questi “contatti” era che ormai l’IRA sarebbe stata sul punto di arrendersi, di consegnare le armi. A questo punto l’IRA sfidò pubblicamente, ma invano, il governo inglese a fornire le prove, i documenti di quanto andava sostenendo. In compenso furono i Repubblicani a contrattaccare dichiarando che i rappresentanti del governo avevano riconosciuto in sede di colloqui che l’unità dell’Isola era ormai un fatto inevitabile e che bisognava convincere gli unionisti.
Naturalmente il governo negò e il Sinn Féin rese pubblici altri documenti inoppugnabili a sostegno di quanto aveva dichiarato. Per questo ancora in marzo Martin Mc Guinness [dirigente di spicco del Sinn Féin] ha potuto dichiarare alla stampa che in quel momento la politica del governo inglese era di considerare l’Irlanda come unica.

L’IRA non si è arresa

Quanto stai dicendo mi sembra smentisca l’ipotesi che la scelta della tregua in fondo è stato un atto di debolezza dell’IRA, il riconoscimento di una mezza sconfitta…
In effetti si è cercato anche di dare questa interpretazione. Io penso invece che le cose siano andate esattamente nel modo opposto, che la Gran Bretagna abbia capito di non poter sostenere ulteriormente l’occupazione militare delle sei contee, di non poter sconfiggere l’IRA. Per tutti questi anni il governo inglese e i comandanti dell’esercito hanno dichiarato ripetutamente di essere sul punto di stroncare l’IRA, che ogni azione dell’esercito repubblicano era “l’ultimo colpo di coda” [più o meno quanto si dice dei baschi dell’ETA]. Ma da documenti riservati giunti in nostro possesso, risulta che anche allora l’IRA era considerata praticamente invincibile sul piano militare. Questa è una delle ragioni per cui il governo inglese ha dovuto riconoscere che la sua posizione era ormai insostenibile.

Naturalmente non è l’unica.
Un’altra ragione determinante sta nell’evidenza dell’appoggio popolare di cui godono i Repubblicani. All’inizio quelli dell’IRA e del Sinn Féin venivano descritti dalla propaganda come assassini sanguinari, mezzi psicopatici, gente che uccide per una sorta di odio ancestrale. In seguito vennero dipinti come una gang di delinquenti comuni. Certo che come banda criminale devono aver avuto poco successo dato che nessuno dei leader repubblicani ha mai sfoggiato ricchezza e benessere; anzi molti di loro vivono in condizioni di indigenza… In entrambe le versioni i Repubblicani erano presentati come una minoranza che poteva sopravvivere solo terrorizzando la propria comunità.
In ogni conflitto la propaganda detiene naturalmente un ruolo importante. Ma è molto pericoloso finire con il credere alla propria propaganda, come hanno fatto gli inglesi.

Centomila persone al funerale di Bobby Sands

Che cosa li ha costretti a ricredersi?
Molte cose. Per esempio il fatto che Bobby Sands venisse eletto al Parlamento e che un cittadino cattolico su cinque dell’Irlanda del Nord abbia partecipato ai suoi funerali. In seguito la doppia elezione di Gerry Adams e le dozzine e dozzine di consiglieri comunali eletti nelle liste del Sinn Féin. Ci volle un po’ di tempo ma alla fine il governo britannico fu costretto a convincersi che i Repubblicani godevano di un notevole appoggio; che non era possibile trattare senza tener conto di questa fetta dell’elettorato. Questo riconoscimento è alla base del cambiamento di rotta del governo inglese.

Immagino che anche la questione economica abbia avuto un certo peso.
Certamente. Quando ci sono di mezzo i soldi anche gli inglesi cambiano politica. Mantenere l’apparato di sicurezza ormai costa cifre altissime. Inoltre ricordiamoci che in Irlanda del Nord il governo ha foraggiato con miliardi di sterline una economia fallimentare, un vero e proprio “pozzo di San Patrizio”…
Naturalmente questo è avvenuto per ragioni politiche, non certo perché Londra avesse a cuore i bisogni della gente. Il governo cercava così di comprare la lealtà della popolazione, in particolare degli unionisti. Anche per questo in Irlanda del Nord il thatcherismo non ha mai attecchito. I finanziamenti dovevano anche garantire una certa moderazione in politica. Si può tranquillamente affermare che per un quarto di secolo la gente si è presa i soldi restituendo in cambio poca lealtà e non votando più di tanto i partiti moderati. Venticinque anni di questa politica si sono rivelati fallimentari. Sarà poi compito degli storici stabilire con precisione quando e come il governo britannico ha deciso di cambiare politica; resta il fatto incontestabile che ha cambiato atteggiamento sul ruolo del Sinn Féin.

Quanto ha influito sulle trattative la decisione dell’IRA di estendere il conflitto alla Gran Bretagna, attaccando in modo molto pesante (tra gli altri obiettivi) anche la City?
Sicuramente la campagna militare in Gran Bretagna è stata molto efficace, in particolare le due bombe alla City. Ricordo che, dopo la seconda bomba, alla televisione c’erano state dichiarazioni molto allarmate di finanzieri tedeschi e giapponesi che prendevano seriamente in considerazione l’ipotesi di trasferire altrove le loro banche. Evidentemente il governo inglese ha preferito non correre questo rischio.

Allora è tutto risolto; d’ora in poi la strada è in discesa…
In realtà ci sono ancora delle resistenze da parte inglese. Bisogna dire che, nonostante i passi avanti, il governo britannico ha dato prova di poca fantasia ed elasticità nel rispondere al “cessate il fuoco” dell’IRA. Evidentemente è stato colto alla sprovvista e non sapeva cosa rispondere.
La prima cosa che ha fatto è stata quella di infilarsi in un vicolo cieco, mettendosi a discutere se l’IRA avesse o meno usato la parola “permanente” [in riferimento alla tregua, ovviamente]. Major ha ripetutamente dichiarato che non ci sarebbero stati colloqui con Adams se non avesse esplicitamente pronunciato la parola “permanente” e finché l’IRA non avesse consegnato le armi. In un secondo tempo si sarebbero accontentati almeno dell’esplosivo. Questa era ancora la posizione ufficiale dopo la prima metà di ottobre [il “cessate il fuoco” dell’IRA risale al 31 agosto]. L’IRA, come è noto, non ha consegnato un bel niente e alla fine Major ha ugualmente riconosciuto che era tempo di iniziare i colloqui anche con il Sinn Féin.

A tuo avviso, in questo tergiversare, c’è stata solo incapacità politica o anche malafede?
Io penso che da parte del governo inglese ci sia stata anche una certa dose di disonestà rispetto al processo di pace. Ora evidentemente sta cercando di recuperare terreno, di mascherare l’imbarazzo per non aver saputo trovare subito una soluzione adeguata. Quindi, se ti capiterà di leggere le dichiarazioni di qualche ministro sulla presunta vittoria del governo inglese, sai cosa pensare in proposito.

Il tradimento dei chierici in Irlanda del Nord

Questa evidentemente è la posizione del Sinn Féin. E la tua opinione come scrittore? Cosa pensi dell’atteggiamento tenuto dagli intellettuali irlandesi rispetto al conflitto?
Ho parlato come scrittore, non solo come membro del Sinn Féin; come scrittore la cui vita è stata fortemente segnata da quello che accadeva in Irlanda del Nord. I miei libri, articoli, le mie sceneggiature sono stati fortemente influenzati dal conflitto e dal carcere. Non credo che il conflitto sia stato ben compreso dalla maggioranza degli intellettuali nordirlandesi. C’è naturalmente qualche eccezione, ma la stragrande maggioranza ha cercato di evitare ogni coinvolgimento politico. Nel mio caso, invece, l’impegno politico (e le sue conseguenze: il carcere soprattutto) è stato determinante, cruciale. Adesso questo atteggiamento, che finora era stato fatto proprio solo da una minoranza intellettuale, viene riscoperto e rivalutato proprio grazie al processo di pace. Soprattutto da coloro che hanno avuto esperienze analoghe. È come se questi primi mesi del processo di pace avessero dato coraggio alla comunità, e cominciare a credere che vi siano possibilità concrete di una pace giusta ha ridato fiducia anche a molti artisti.

Molti scrittori nordirlandesi sono di origine cattolica e provengono dai quartieri proletari di Belfast o Derry. Cosa è cambiato nel loro modo di scrivere?
Finora, per la maggior parte degli scrittori irlandesi di origine operaia, valeva l’esigenza di doversi in qualche modo “imporre”, anche all’interno della propria comunità. Ora mi sembra che questa idea stia scomparendo. Insieme all’idea che, per poter essere pubblicati, bisogna mettere in luce gli aspetti peggiori della vita in Irlanda del Nord (la violenza, il degrado…). Naturalmente questo non significa passare a una visione idilliaca della situazione. Molti lavori scritti in questi ultimi tempi sono carichi di tensione, come a mio avviso dovrebbe essere tutta la buona letteratura.

Dalla parte degli oppressi, sempre

E della tua produzione letteraria cosa puoi dirci? Come viene accolta dalla critica?
Soprattutto dopo l’esperienza del carcere, nei miei lavori non mi pongo dal punto di vista delle persone di successo, dei “rampanti”, “borghesi”, ma da quello della gente semplice, sfruttata e oppressa (come gli abitanti di West Belfast), gente con problemi quotidiani, piena di dubbi… Un critico sostiene che io scrivo della vita “a un livello basso”; l’ho preso come un complimento. Inoltre, nei miei libri cerco di privilegiare gli aspetti collettivi, solidali (delle lotte ma anche della vita quotidiana) rispetto all’individualismo. Sicuramente questo è dovuto alla mia esperienza nel campo di Long-Kesh. Ricordo bene quando vi giunsi, vent’anni fa, dopo il mio primo arresto. Un prigioniero al suo primo arresto è una delle persone più vulnerabili che esistano sulla terra: improvvisamente gli è stato tolto l’intero controllo sulla propria vita. Quella prima volta per me è stata molto dolorosa… E i primi giorni di isolamento hanno aggiunto paura alla paura. Le cose però sono cambiate quando sono stato trasferito con gli altri compagni prigionieri. Questi erano già riusciti a raggiungere un livello tale di autorganizzazione da aver praticamente escluso l’autorità carceraria dalle celle. Restando uniti, solidarizzando tra loro, difendendosi insieme dalle aggressioni delle guardie, i prigionieri politici erano riusciti a ricreare un ambiente più favorevole anche dentro il campo di prigionia. Era la messa in pratica del vero concetto di solidarietà: io difendo te, tu difendi me. E dentro Long-Kesh la solidarietà tra i prigionieri era tutto fuorché un vuoto slogan. Eravamo in costante protesta e rivolta contro le autorità carcerarie, e questo ci permise di sopravvivere conservando la nostra identità.

La rivolta di Long-Kesh

Tu hai anche preso parte a una delle maggiori rivolte carcerarie degli anni Settanta, conclusasi con la quasi distruzione del campo di Long-Kesh.
Fu una delle esperienze più drammatiche ma anche più importanti. Un secondino era entrato in una cella e aveva cominciato a pestare un prigioniero. Come reazione a quel pestaggio, l’intero campo venne bruciato nel corso di una rivolta.
Naturalmente la reazione fu molto dura, feroce: venimmo attaccati con i lacrimogeni e con proiettili di plastica, ci aizzarono contro i cani… Dopo l’incendio del carcere (nell’ottobre del ’74) rimanemmo per settimane in celle scoperte [senza il tetto ma con il filo spinato], con la neve, praticamente senza cibo e senza coperte… Però posso affermare con sicurezza che nessuno di noi pensò mai di aver fatto la cosa sbagliata. Se non avessimo reagito a quel pestaggio poi ne sarebbero venuti altri; sarebbe potuto capitare a chiunque. Questa è l’etica della solidarietà collettiva che ho ricavato dalla mia esperienza e che cerco di riprodurre nei miei libri.

Qualche critico l’ha definita una visione del mondo e dei rapporti sociali “fascista”.
E la cosa mi ha fatto incazzare parecchio. Si può dire che scrivo male, ma non accetto di essere definito “fascista”. Credo che con questa definizione si sia volontariamente frainteso quello che scrivo, considerandolo una minaccia per l’individuo. È esattamente il contrario: cerco di esprimere la ricerca di una situazione in cui ciascuno possa vivere meglio. Questo naturalmente a volte comporta dei sacrifici. Tornando al carcere, il sacrificio maggiore è stato sicuramente quello pagato dai dieci militanti dell’IRA e dell’INLA dell’81, morti in sciopero della fame per conservare l’autonomia che i prigionieri repubblicani avevano conquistato con le loro lotte. Credo che solo pensare di definire “fascista” questo modo di difendersi dall’oppressione – caratteristico del proletariato irlandese – sia aberrante.

Patsy O’Hara

Tra l’altro tu hai avuto modo di conoscere bene uno dei dieci Hunger Striker, Patsy O’Hara dell’INLA di Derry, con cui hai condiviso per un anno la cella.
Ho conosciuto Patsy quando è entrato per la prima volta a Long-Kesh, nel ’75. Era stato arrestato assieme a un altro compagno… mi pare si chiamasse Brian… per dei proiettili rinvenuti nella loro auto. Quando uno arrivava in carcere, per prima cosa gli si chiedeva che cosa avesse detto alla polizia. Non avevano dato altro che il loro nome. Questo, dati i metodi usati abitualmente dalle forze di repressione (percosse, tortura…), era abbastanza raro e venne considerato un segno di forza, di determinazione. Questa impressione venne poi confermata dal comportamento tenuto in carcere da Patsy e dall’altro compagno. Patsy in particolare era un leader nato, anche se non in modo ostentato; era sempre molto calmo, non alzava mai la voce…
Nonostante fosse molto giovane, si capiva che era molto preparato politicamente. Siamo stati nella stessa cella, la N.14, per circa un anno e abbiamo parlato a lungo di come ognuno di noi fosse arrivato alle sue convinzioni politiche. Sostanzialmente avevamo gli stessi punti di riferimento: “Bloody Sunday” (la “Domenica di sangue”, Derry, 30 gennaio 1972), l’internamento, l’incendio di Long-Kesh… Io sono uscito di prigione prima. In seguito Patsy e Brian vennero assolti [sembra che le pallottole fossero state messe nell’auto a loro insaputa].
Poi Patsy è stato arrestato di nuovo e non ci siamo più rivisti. Quando ho saputo che aveva iniziato lo sciopero della fame, ho subito pensato che sarebbe andato fino in fondo.

Un’ultima considerazione sul rapporto tra la tua esperienza del carcere e i libri che scrivi?
Mi rendo conto che dalle mie parole questa esperienza del carcere può apparire quanto mai tetra… In realtà con i compagni prigionieri c’erano anche momenti di estrema gioia. Contemporaneamente c’erano anche esperienze negative: rivalità personali e politiche, esasperate dalla detenzione… Nei miei libri cerco di ricreare tutto questo, esprimere sia l’impegno che il divertimento. Altrimenti sarebbe solo propaganda.

L’incognita loyalista

Quali sono le tue previsioni a lungo termine? Potrà durare stabilmente questo stato di non-belligeranza? Cosa faranno i loyalisti?
A mio avviso il governo inglese dovrà riconoscere che la sua presenza in Irlanda del Nord è stata un disastro e che il Popolo Irlandese deve poter decidere del suo futuro. Inoltre i protestanti, che sono parte integrante del Popolo Irlandese, dovranno scegliere se intendono restare legati alla Gran Bretagna o piuttosto vivere in una Irlanda unita, portando la loro esperienza, la loro cultura e conservando la propria identità. La prima ipotesi sarebbe un disastro anche per loro. In tutto sono un milione di persone che vivono confinati in un angolino dell’isola. Penso che lo capiscano anche loro e che sceglieranno l’altra possibilità. Personalmente sono molto ottimista sull’eventualità che cattolici e protestanti riescano a trovare un terreno comune. Non dimentichiamo che attualmente la leadership politica protestante è molto screditata. In particolare gode di scarsa considerazione da parte della sua maggiore base elettorale, la classe operaia protestante. I proletari di Shankill Road e delle altre aree unioniste chiamano i dirigenti politici unionisti “la brigata pellicce e gioielli”, dato che si sono serviti della politica per arricchirsi. Lentamente si sta formando una classe politica alternativa che sembra possedere una buona dose di coscienza di classe. Credo che troverà una risposta adeguata nella classe operaia cattolica. Le condizioni materiali di vita sono analoghe: disoccupazione, case fatiscenti… Credo che finiranno per unirsi nella ricerca di soluzioni comuni.

Divide et impera

Mi sembra che anche in passato ci siano state lotte comuni: scioperi, occupazioni…
In passato ci sono stati molti episodi di questo genere, sia agli inizi del secolo che negli anni Trenta e Quaranta. Ma ogni volta gli Orangisti [la classe dirigente protestante] sono riusciti a sabotare queste alleanze. Enfatizzando le differenze tra cattolici e protestanti, discriminando, facendo sì che i proletari protestanti considerassero l’Ulster “roba loro” da difendere dagli attacchi dei “papisti”, gli Orangisti hanno mantenuto saldamente il potere. Ma ormai è tempo che anche la classe operaia protestante si chieda che cosa ha ottenuto in questi ultimi settant’anni di collaborazione con la propria borghesia. Hanno ottenuto case decrepite, invivibili, prima dei cattolici; hanno ottenuto lavori malpagati, prima dei cattolici. Direi che la classe operaia protestante ha fatto un pessimo affare. Dimenticavo: gli è anche stato concesso una volta all’anno, il 12 luglio, di sfilare per le strade di Belfast urlando quanto sono superiori ai cattolici, ma francamente non mi sembra molto.

Da questo punto di vista come giudichi il “cessate il fuoco” delle organizzazioni paramilitari protestanti (UDA, UVF…)? In un primo tempo sembrava che fossero disposti a scatenare la guerra civile, pur di non mettere in discussione lo Stato delle sei contee…
Lo spettro del “bagno di sangue” è stato più volte evocato dal governo inglese come alibi per non fare nulla. Anche gran parte dell’opinione pubblica pensava che i protestanti sarebbero letteralmente impazziti e avrebbero scatenato la guerra civile. Ma c’è una grossa differenza tra ammazzare persone inermi nella loro casa o per strada [in genere le squadre della morte loyaliste scelgono i loro obiettivi tra la popolazione cattolica indiscriminatamente, indipendentemente dall’impegno o dalle simpatie politiche delle vittime] ed entrare nella prospettiva di sconfiggere militarmente esercito e polizia nel corso di una guerra civile.
I gruppi paramilitari protestanti non hanno mai dato prova di esser in grado di ingaggiare una guerra vera e propria. Per questo non sono sufficientemente attrezzati, neanche a livello psicologico. Dovrebbero chiedere alla comunità protestante di sostenerli anche contro la Corona: una situazione insostenibile per gran parte degli unionisti, al limite della schizofrenia. Bisogna poi tener conto delle infinite prove di collusione dei gruppi paramilitari unionisti con la polizia. Si è sempre sospettato che queste bande fossero creature dei servizi segreti, usati come arma di terrorismo di Stato. Ora il governo inglese vuole la pace e non bisogna sorprendersi che anche gli unionisti si adeguino.