Il popolo Sateré Mawé vive al confine tra gli stati di Amazonas e di Pará del Brasile, lungo il corso del Rio delle Amazzoni nel municipio di Maués.


In questa terra si trovano oggi meno di diecimila indios, sparsi in circa ottanta villaggi: è il “santuario ecologico e culturale della pianta guaranà, dove, contro ogni tipo di pressione esterna, i Sateré Mawé salvaguardano l’ultima banca genetica naturale della lianaoriginale, nata dall’occhio del bambino divino. Un’area forestale grande come l’Umbria, posta al centro dell’Amazzonia brasiliana. Il territorio non è segnato sulle carte: al suo posto si trova un perimetro di foresta indicato come “terra indígena” e denominato Andirà-Marau, che letteralmente significa “terra dei pipistrelli e delle rane”.
È dal guaranà che questo popolo trae il suo orgoglio etnico, e soprattutto, la misteriosa saggezza politica che lo caratterizza. È proprio questo orgoglio che ha permesso ai Sateré Mawé di resistere fino a oggi.

Troppo vicini alla civiltà

Il popolo Sateré Mawé è una delle centinaia di etnie indigene che vivono nella più grande foresta primaria del mondo. Nell’ultimo secolo hanno sofferto la relativa vicinanza di Manaus, la capitale dell’Amazzonia brasiliana, che ha attirato i giovani indigeni alla ricerca di opportunità economiche e ha irradiato la cultura dei consumi, impossibile da soddisfare nei villaggi della foresta. A Manaus si è così creata una folta comunità di indios amazzonici che svolgono lavori umili e vivono nelle baraccopoli delle periferie, senza un futuro e culturalmente sradicati.
Il popolo Sateré Mawé, lentamente e inesorabilmente, si sta estinguendo, con la conseguenza che le sue terre, una volta svuotate, rimarrebbero una riserva indigena solo sulla carta. Quindici anni fa alcune figure guida della comunità decisero di provare a fermare questo lento declino a partire da una lettura molto peculiare della globalizzazione. L’ipotesi di partenza era che la liana di guaraná potesse diventare il simbolo di una rinascita culturale e allo stesso tempo una fonte di reddito per gli indigeni che continuavano a vivere nella foresta.
Secondo la tradizione, l’esistenza stessa dei Sateré Mawé è attribuita alla pianta. Una leggenda narra che un bambino fu ucciso e, dopo che la madre Uniaì lo ebbe sepolto, dalla terra crebbe un rampicante i cui frutti erano identici agli occhi del piccolo. A sua volta il bambino rinacque da questa pianta – il guaranà, appunto – e divenne il capostipite dell’intera stirpe Sateré Mawé.

La pianta preziosa

Il guaranà, come già detto, è la materia prima di quella parte di foresta: motivo di orgoglio e fonte di entrata per le famiglie, favorite anche dalle politiche di lotta alla povertà introdotte dal governo Lula. I semi sono più comunemente utilizzati sotto forma di bevanda, ma anche come ingrediente per il pane. La fondazione Slow Food Foundation for Biodiversity ne ha segnalato il pericolo di estinzione e si è adoperata per preservare il tradizionale metodo di produzione e per proteggere le terre dove si coltiva. Il grido di allarme è stato raccolto dal governo brasiliano e dalla Fundação Nacional do Indio (FUNAI), che stanno cercando di proteggere e migliorare le piantagioni lungo il Rio delle Amazzoni.
Consumata come bevanda rituale, la pianta dovrebbe ispirare le parole che creano l’armonia tra le idee, i desideri e le intenzioni dei partecipanti al convivio. Si tratta di una liana legnosa della famiglia delle sapindaceae che nella foresta raggiunge altezze di oltre 12 metri. I semi, spolpati e torrefatti in un forno d’argilla, sono artigianalmente trasformati in bastoni e poi grattugiati, mescolati con la manioca e disciolti nell’acqua. Per l’alto contenuto di caffeina, il seme di guaranà è ricco di fosforo, potassio e vitamine B1, B2, PP ed E. È uno stimolante di cui i cacciatori Sateré Mawé non possono fare a meno, prima di iniziare una battuta. Inoltre è fondamentale nei rituali, in particolare in quello della tucandeira.

 

Un rito di iniziazione maschile

Tucandeira è il nome brasiliano di una formica di grosse dimensioni (circa 2 cm), il cui addome termina in un pungiglione che provoca dolore, gonfiore, arrossamento, febbre e brividi. Il suo nome nella lingua Sateré Maué è wty’ama. Dal termine brasiliano deriva quello della danza tipica che accomuna tutti i gruppi Sateré Mawé. La tucandeira è di fatto una prova di forza e coraggio per il ragazzo che sta per passare all’età adulta. Attraverso questo rituale, un Sateré Mawé riconosce le proprie origini, leggi e usanze; e dall’adolescenza in poi dovrà ripeterlo almeno una ventina di volte per poterne trarre i benéfici effetti. Tutta la popolazione partecipa al rito e osserva come i candidati lo affrontano. È un momento importante per conoscersi, incontrarsi, contrarre futuri matrimoni.
La tucandeira è anche un rito propiziatorio, attraverso il quale l’indio può diventare un buon pescatore e cacciatore, avere fortuna nella vita e nel lavoro, essere un uomo forte e coraggioso. La gente si riunisce molto volentieri per questo rituale, che oltre all’aspetto festivo e ludico è anche l’occasione per rievocare il mito cosmogonico dell’origine delle stelle, del sole, della luna, dell’acqua, dell’aria e di tutti gli esseri viventi. Ancora oggi questo rituale continua a essere seguito tra i Sateré Mawé nelle case e nei villaggi che costeggiano i fiumi Marau, Andirá, Mirití, Majurú e Urupadí.
La danza si svolge solitamente nei mesi di ottobre, novembre e dicembre (l’estate amazzonica). Inizia nel pomeriggio e si prolunga fino a notte fonda. Si catturano le formiche giganti, che in genere vivono nelle buche del terreno o in alberi cavi, e si infilano in un bastone di bambù vuoto, chiamato tum-tum. Le formiche vengono prima immerse in un recipiente d’acqua, dove restano a macerare con le foglie di cajú, un anestetizzante che ha il potere di intorpidirle, quindi vengono infilate a una a una tra le trame di un guanto, con il pungiglione rivolto all’interno. Il guanto in questione deve essere di paglia (warumà) e terminare con un ornamento di piume rosse di pappagallo e bianche di falco reale. Il guanto poi viene appeso in attesa che le formiche si risveglino dal torpore.
Colui che conduce la danza intona il canto, adattando le parole alla circostanza. Le donne siedono davanti al gruppo degli uomini e accompagnano la melodia. Alcuni candidati si dipingono le mani di nero con le bacche del genipapo e poi bevono un liquore molto forte detto taruhà, a base di manioca fermentata, utile per attenuare il dolore e darsi forza nell’affrontare il rito. Chi affronta la tucandeira per le prime cinque volte deve assoggettarsi a determinate diete. Quando le formiche si risvegliano, inizia il rito vero e proprio. Il direttore della danza fa scivolare i guanti sulle mani dei candidati e soffia del fumo di tabacco nei guanti, per irritare ulteriormente le formiche. Poi i suonatori attaccano a suonare rudimentali tubi di legno mentre i ragazzi iniziano a danzare. L’obiettivo del rito di iniziazione è tenere i guanti per almeno dieci minuti. Trascorso questo tempo, le mani dei giovani – ma anche parte delle braccia – sono temporaneamente paralizzate dal veleno delle formiche, e molti finiscono per crollare a terra sopraffatti dal dolore.