Un contributo illuminante di Mirella Karpati, profonda conoscitrice delle problematiche relative agli Zingari e appassionata animatrice di “Lacio Drom”.

Stime fondate su rilevamenti campione effettuate in diverse province italiane ci permettono di stabilire con sufficiente approssimazione un numero di 60-70.000 Sinti e Rom, suddivisi in gruppi molto differenziati fra loro per costumi, stile di vita e dialetto. Queste differenziazioni sono dovute a ragioni storiche, economiche e sociali. E’ significativo, infatti, che i gruppi residenti da secoli in Italia prendano il loro nome dalle regioni, che sono state al centro della loro vita e dei loro interessi economici. Così i Sinti si dividono in lombardi, piemontesi, emiliani, marchigiani, veneti, mucini (Pianura Padana occidentale), kranarja (Carnia), krasarja (Carso), estrekharja (cioè Österreicher – austriaci del Südtirol). I Rom, invece, predominano nell’Italia centro-meridionale: abruzzesi, pugliesi, basalisk, napulengre, calabresi, celentani; oppure provengono dalla Venezia Giulia e zone limitrofe: sloveni, croati, istriani. All’inizio di questo secolo sono arrivati in Italia i Sinti gačkane che, partiti dalla Foresta Nera, si erano diffusi in Francia alla fine del XIX secolo (Manouches) e da lì poi in Italia. Nello stesso periodo inizia l’immigrazione dall’Est dei Rom detti vlakh (cioè valacchi), nel quadro delle migrazioni seguite all’emancipazione dei Rom schiavi da secoli nei principati danubiano-carpatici. Sono i Kalderasha,i Lovara e i Ciurara, la cui presenza si intensificò alla fine della prima guerra mondiale. Alcune famiglie di Lovara sono arrivate dalla Polonia dopo la seconda guerra mondiale.

Negli anni ’60 si è iniziata e si è intensificata negli anni ’70 l’immigrazione dalla Jugoslavia di Rom khorakhané – kanjarja e di Rudari. Esiste, infine, in Italia una categoria particolare di viaggianti, i Camminanti siciliani, che risiedono abitualmente nella Sicilia orientale, in particolare a Noto. Sono venditori ambulanti con proprio gergo, che si spostano in tutta l’Italia e hanno talvolta rapporti matrimoniali con i Sinti. Da un rilevamento effettuato nell’inverno 1985 in 15 province italiane, su un campione di 13.435 Rom e Sinti appaiono nomadi 4.425 (32,9%), seminomadi 2.110 (15,7%) e sedentarizzati 6.900 (51,4%). Il nomadismo è più rilevante al Nord,mentre al Sud i Rom sono tutti sedentarizzati. La lingua romani è ancora molto viva in alcuni gruppi, mentre in altri è usata abitualmente solo dagli anziani. Inoltre è frazionata in dialetti diversi, per le influenze subite dalle parlate con cui maggiormente si sono trovati e si trovano a contatto. Questo rende molto difficile un recupero a livelli letterari e unitari. Va però rilevato che l’impegno religioso e il proselitismo della Chiesa evangelica zingara (Pentecostale), con propri predicatori e testi biblici tradotti in romanes, è di buon auspicio per una rivalutazione della lingua. Le prime notizie storiche dell’arrivo dei Rom in Italia sono la Cronaca di Bologna (18 luglio 1422) e la Cronaca di Forlì (7 agosto 1422), che segnalano il passaggio del duca Andrea e di 200 Indiani diretti a Roma. Nel 1430 la Cronaca di Fermo dice che i “Zengani” avevano un salvacondotto del Papa, che si aggiungeva a quello già rilasciato loro dall’imperatore Sigismondo, re di Boemia. E’ molto probabile che famiglie o piccoli gruppi siano arrivati nell’Italia meridionale ancora prima, dati i continui e intensi rapporti che sono sempre esistiti fra quelle regioni e la Grecia. Tale immigrazione si sarebbe intensificata in seguito all’invasione turca, quando giunsero e si stabilirono nel Sud altri gruppi etnici: Albanesi, Greci, Croati. Lo confermerebbero i dialetti dei Rom dell’Italia centro-meridionale, che alla matrice indiana aggiungono solo prestiti greci e italiani mentre i dialetti del Nord hanno anche prestiti slavi e/o tedeschi. I diversi Stati italiani adottarono nei confronti dei Rom la stessa politica dei grandi Stati europei, che li dominarono più o meno direttamente, Francia, Spagna e Austria, e che nell’affermarsi come Stati nazionali cercavano di eliminare ogni elemento di diversità. Il primo decreto di bando, per paura di diffusione della peste, è del Ducato di Milano sotto la dominazione francese (23 agosto 1506); quando Milano passò sotto la dominazione degli Spagnoli, le persecuzioni si fecero sanguinose: per esempio, una grida dell’8 agosto 1693 permetteva di ucciderli impunemente e di prendere tutte le loro cose. Nello Stato Pontificio, in preparazione della battaglia di Lepanto contro  i Turchi (1570), i Rom, che soggiornavano nei dintorni di Roma, furono presi e condannati alle galere. Anche vari decreti del Ducato di Savoia comminavano loro la stessa pena per il solo fatto di “essere Zingari”. Nel 1572 circa 300 Rom, uomini donne e bambini, che avevano comperato un terreno e una casa presso Parma e vi vivevano, furono circondati dai soldati del Duca e massacrati. Nell’Italia meridionale era proibito “vestirsi da Zingari”, ma veniva riconosciuto da atti del Regno di Napoli che vivevano onestamente del loro lavoro di “forgiari“ (fabbri) e molti paesi e città avevano una Via dei Forgiari o una Via degli Zingari, abitate appunto da famiglie di Rom. Il 4 maggio 1772 il Senato di Palermo approvò lo statuto della corporazione dei “Forgiari seu Zingari” e ancora fino a tempi recenti “Zingaro” in alcune regioni aveva semplicemente il significato di persona esperta nella lavorazione dei metalli. Nel periodo fascista il Governo prese provvedimenti per motivi di sicurezza e non per motivi razziali, come avvenne invece sotto il nazismo e negli Stati satelliti. Infatti nel 1938 furono rastrellate le famiglie zingare lungo la frontiera orientale e rinchiuse in appositi campi di concentramento a Perdazdefogu (Sardegna) e Tossicia (Abruzzo). In seguito furono internate anche famiglie di Rom kalderasha e di Sinti gackane, perchè avevano cognomi stranieri, ad Agnone (Molise) e alle Isole Tremiti. Dopo l’8 settembre 1943 i carabinieri,che custodivano i campi, li lasciarono andare piuttosto che consegnarli ai Tedeschi. Fin dal loro arrivo in Italia Sinti e Rom hanno sempre avuto un proprio spazio economico in una società essenzialmente agricola. Infatti esercitavano attività e offrivano prodotti, che erano particolarmente apprezzati. I Rom dell’Italia centro-meridionale erano allevatori e commercianti di cavalli, asini e muli, oppure fabbri e calderai. Anche i Rom sloveni e istriani dell’Italia nord- orientale erano allevatori di cavalli. I Sinti producevano lavori in vimini e in legno, ma soprattutto si dedicavano allo  spettacolo ambulante: animali ammaestrati, musica e più tardi la lanterna magica e il cinema. Anche questa attività costituiva un momento importante nella vita contadina, quello della festa, che interrompeva la monotonia del lavoro e rallegrava sagre e matrimoni. Inoltre i nomadi portavano le notizie da un luogo all’altro, funzione non trascurabile fra una popolazione analfabeta. Poiché i contadini non possedevano denaro, pagavano in natura ed erano le donne ad andare un po’ per giorno a ritirare quello di cui abbisognavano, fino al saldo completo del lavoro del marito. E’ importante sottolineare questo aspetto, che dimostra come il chiedere delle donne non era mendicità, bensi rientrava in uno scambio regolare di servizi e di prodotti. L’industrializzazione e l’abbandono delle campagne hanno rotto questa specie di simbiosi, che aveva permesso ai Rom di sopravvivere malgrado le leggi repressive del potere costituito. Questo ha provocato in alcuni gruppi una grave crisi economica, anche perché il generale analfabetismo rende difficile la loro riconversione professionale e la continuazione delle attività che sono ancora oggi valide, come quelle del Luna Park e del commercio ambulante, proprie dei Sinti, ma legate ormai al possesso delle licenza media. Alcuni Rom tentano ancora l’allevamento dei cavalli da sella o da macello, mentre i Kalderasha trovano lavoro come indoratori di arredi sacri. I Rom abruzzesi, molto diffusi anche nel Lazio e nella Campania, si occupano di commerci vari e anche prestano denaro a usura. Altri si adattano a qualche lavoro saltuario non qualificato. Da inchieste svolte in tre regioni campione risultano i seguenti dati relativi al lavoro degli uomini:

Piemonte: attività autonome 74.3% (22% Luna Park, 52.3% commercio); lavoro dipendente 1.9%; pensionati 3.8%; disoccupati 20%;.

Calabria: attività autonome 7.9% (artigianato e commercio); lavoro dipendente 66% (35.1% agricoltura, 30.9% edilizia); attività miste 10% (integrazione fra lavoro autonomo e dipendente); pensionati 9.1%; disoccupati 7%.

Lazio: attività autonome 54.5% (38.5% commercio e artigianato, 16% Luna Park); lavoro dipendente 5.2%; disoccupati 40.3%.

Va notato che i “disoccupati“ vivono generalmente di accattonaggio o di espedienti. Spesso il peso del mantenimento della famiglia grava praticamente sulle spalle delle donne e dei bambini. I giovani vengono facilmente assorbiti in organizzazioni criminali al rango di “manovalanza” e così ai piccoli furti, che erano i maggiori reati fino a poco tempo fa, ora si aggiungono le rapine, il sequestro di persona, la prostituzione, la droga. Il numero di detenuti zingari sia adulti che minori aumenta in modo allarmante. Su questo processo di devianza influisce in modo rilevante la presenza di quei Rom della Jugoslavia che non svolgono nessuna attività lavorativa e sfruttano bambini appositamente addestrati al furto. Fatta eccezione per i Rom di recente immigrazione dalla Jugoslavia, tutti gli altri Rom e i Sinti sono cittadini italiani e, come tali, hanno formalmente gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri cittadini. In realtà sono soggetti a non poche discriminazioni a causa della identificazione, diffusa a tutti i livelli, “Zingaro = delinquente abituale”. Nel censimento generale della popolazione italiana del 1981 l’istituto Centrale di Statistica ha classificato gli Zingari nella categoria “Detenuti e mendicanti”, codificandoli così ufficialmente come tali. Il nomadismo non è proibito: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e di sicurezza (art. 16 della Costituzione)”. Ma proprio a questi motivi si appellano gli Enti locali e la polizia per allontanare i nomadi e impedire loro la sosta. I motivi di sicurezza sono sanciti dal Testo Unico di Pubblica Sicurezza e dalla legge 1423/1956 (Misure contro le persone pericolose per la sicurezza e la moralità pubblica), che offrono un appiglio per le espulsioni, spesso violente, delle famiglie nomadi, espulsioni che, fra l’altro, impediscono ai bambini di assolvere l’obbligo scolastico oltre che criminalizzare indistintamente tutto il gruppo invece che perseguire eventualmente una singola persona incriminata o sospettata. Per quanto riguarda i motivi di igiene, previsti dalla legge, questi sono presto trovati per il fatto che pochissime città hanno predisposto aree di sosta attrezzate e quindi le famiglie sono costrette ad accamparsi in terreni sprovvisti di acqua e di servizi igienici. Ma forse ancora peggiore è la situazione dei Rom baraccati nelle periferie delle città, dove la mancanza di acqua e di fognature è aggravata dall’affollamento delle persone in spazi ristretti, con conseguenti epidemie e infezioni. Evidentemente spetta alle pubbliche amministrazioni provvedere alle strutture igieniche, come per tutti gli altri cittadini. Invece l’assenza di tali strutture viene addebitata a colpa dei Rom e gli unici provvedimenti che si prendono sono gli sgomberi forzati e gli incendi delle baracche senza alcuna alternativa per le famiglie espulse. Solo in tempi recenti alcuni Comuni (per esempio Roma, Pescara, Reggio Calabria, Cosenza) hanno cominciato ad assegnare alle famiglie zingare baraccate alloggi in case popolari. Già nel 1973 il Ministero dell’Interno aveva dichiarato illegali i divieti di sosta ai nomadi, in quanto discriminanti una categoria di cittadini. I Comuni hanno aggirato l’ostacolo sostituendo i cartelli di “Divieto ai nomadi” con “Divieto di sosta alle carovane”, che, essendo veicoli, rientrano nella regolamentazione stradale. Un altro aspetto discriminatorio è costituito dall’iscrizione sulla carta di identità dei nomadi della dicitura “senza fissa dimora”, “girovago” al posto dell’indirizzo. Questo suscita immediatamente la diffidenza di chi controlla i documenti. Da anni si chiede, ma ancora invano, che questa dicitura sia sostituita dall’indirizzo del Municipio o altro Ufficio del Comune, in cui il cittadino nomade risulta iscritto, e che là funzioni un servizio a suo favore. Attualmente il problema più urgente da affrontare è quello di offrire ai Sinti e ai Rom la possibilità di sviluppare i propri dinamismi interni verso nuove forme di adattamento attivo nella società che li ospita. L’evoluzione verso una società postindustriale, con prevalenza dei servizi sul lavoro dipendente e standardizzato, dovrebbe offrire possibilità più congeniali ai Rom. Manca però loro una preparazione adeguata e si trovano chiusi in un circolo vizioso: l’assenza di istruzione (o un livello troppo basso) non permette una qualificazione o riqualificazione professionale e, di conseguenza, diventa loro impossibile l’esercizio di attività lavorative regolari e redditizie. Ci sono Rom poveri e Rom ricchi, ma per tutti ugualmente la vita è insicura, data la precarietà delle risorse. Un altro problema urgente è quello della salute. Il 50% dei Rom in Italia ha meno di quindici anni e il 75% meno di trenta; quasi nessuno supera i sessantanni. Le cause più frequenti di malattia sono le cattive condizioni di abitazione (il 52% dei casi di malattia riguarda le vie respiratorie) e la cattiva alimentazione (14%); allo stress della vita possono essere attribuite le cardiopatie (4%) e le alterazioni neurocaratteriali (9%). Fra i bambini molto frequenti le dermatosi e la pediculosi. Tutto ciò richiederebbe una intensa azione sanitaria, soprattutto preventiva, il risanamento delle baraccopoli e la creazione di aree di sosta provviste dei servizi indispensabili per i nomadi. Quello delle aree di sosta è un discorso urgente, che viene purtroppo affrontato in maniera poco rispettosa dei bisogni degli utenti, del loro stile di vita e della loro cultura. Se pure ci sono Regioni che hanno promulgato apposite leggi (o stanno per farlo) per la “tutela dei Rom” e della loro cultura, prevedendo pure contributi ai Comuni per l’allestimento delle aree di sosta, tuttavia tali interventi sono visti piuttosto come mezzi per fermarli, costringendoli a modi innaturali di vita, e per sottoporli a severi controlli, che al limite diventano vessatori, come per esempio la proposta di legge della Toscana. Basta osservare una qualsiasi planimetria di aree già in funzione o in progetto per constatare che sono concepite come posteggi di caravans ben allineati e non come spazio vivibile per famiglie numerose, per le quali lo spazio esterno è molto più importante di quello della roulotte, che serve praticamente solo per dormire. E’ fuori che si vive, si cucina, si mangia, si gioca, si mantengono i rapporti sociali, si lavora. Ma le aree di sosta non prevedono spazi lavorativi e le famiglie, che hanno attività come il recupero di metalli o l’allevamento dei cavalli, sono costrette ad abbandonarle e a ridursi a forme parassitarie di vita; è un fatto recente, per esempio, a Milano. Inoltre, mentre dovunque in Europa occidentale, dopo tutta una serie di esperienze negative, disposizioni di legge pongono un limite massimo di 15-20 caravans per campeggio, in Italia si continuano a progettare campi sosta molto grandi, dove ammassare i nomadi, ritenendo di risolvere in tal modo un problema cittadino. Tutto questo, oltre a costare molto per le attrezzature e la manutenzione, ha pure elevati costi umani: a parte i conflitti che si scatenano fra diversi gruppi costretti a convivere in spazi limitati, impedisce un normale svolgimento della vita sociale, fondata sulla famiglia estesa, ed aggrava la crisi già denunciata, crisi economica, ma anche crisi di valori. I Sinti e i Rom nomadi chiedono aree piccole, a misura di famiglia estesa (15-20 caravans appunto), con un minimo di attrezzature (acqua, servizi igienici, asporto immondizie e, se possibile, elettricità), dove gestire autonomamente il proprio spazio e la propria vita. L’esigenza di mantenere vivi i rapporti sociali interni è fortemente sentita anche dai Rom sedentarizzati. E’ significativo che gli assegnatari di alloggi popolari tendono a scambiarli con altri fino a ricostruire il gruppo nello stesso palazzo; chi non vi riesce, preferisce lasciare l’appartamento e tornare nella baraccopoli per evitare l’isolamento sociale e culturale. Questo naturalmente con grave scandalo delle autorità assegnatarie e dei benpensanti, che non riescono a capire come la sopravvivenza etnica sia più importante delle comodità individuali. Quanto alla tutela dell’etnia, sarebbe molto importante l’approvazione della legge di attuazione dell’art. 6 della Costituzione, in cui è prevista la salvaguardia anche della “lingua zingara”. Questo non tanto agli effetti pratici, data l’impostazione su base territoriale della legge, quanto piuttosto come premessa per ulteriori interventi da sollecitare nelle Regioni interessate e come vittoria morale per il riconoscimento di pari dignità delle popolazioni zingare rispetto alle altre etnie.