Il multimilionario presidente eletto degli USA, Donald Trump, ha forti interessi nella società Energy Transfer Partners (ETP) incaricata di realizzare il nuovo oleodotto Dakota Access Pipeline (ultimamente ha investito circa 1 milione di dollari): già costruito quasi interamente con uno sviluppo sotterraneo, costerà in tutto 3,8 miliardi di dollari. Lungo quasi duemila chilometri, porterà il greggio dalla Bakken Formation – una zona al confine tra Montana e North Dakota – fino alle raffinerie del Golfo del Messico, passando nella riserva indiana di Standing Rock.
Il progetto ha alimentato fin da subito le proteste dei nativi della riserva, e la vittoria di Trump alle presidenziali americane ha paradossalmente dato ancora più voce e forza ai sioux i quali, con il supporto di oltre 300 tribù di nativi e decine di organizzazioni ambientaliste, si sono fermamente opposti alla costruzione del tratto di oleodotto previsto nel loro territorio. L’impianto attraverserebbe siti storici e religiosi importanti per la loro storia e comprometterebbe il loro benessere economico e ambientale (in caso di perdite dell’oleodotto, le acque del fiume Missouri sarebbero a rischio inquinamento coinvolgendo, oltre la riserva, le colture agricole lungo tutto il suo percorso).

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La riserva di Standing Rock è diventata quindi un simbolo di lotta ambientalista contro i profitti delle multinazionali dell’oro nero; un esempio di protesta pacifica e organizzata, colpita da boicottaggi arresti e soprusi, che ha suscitato la solidarietà da tutto il mondo, incluse, oltre alle varie organizzazioni prima citate, celebrità di Hollywood e star della musica leggera.
Le proteste hanno causato molti ritardi nella costruzione dell’oleodotto, che doveva essere completato entro il 2016. Nello scorso novembre il presidente uscente Barack Obama aveva promesso di valutare un percorso alternativo per l’oleodotto che prevedeva di aggirare le terre sacre dei Sioux; a metà novembre, infatti, il Genio Militare (Army Corps of Engineers), responsabile del territorio, ha annunciato che non autorizzerà la società Energy Transfer Partners (ETP) a trivellare sotto il fiume Missouri. Il provvedimento – uno degli ultimi atti dell’amministrazione Obama – blocca quindi, per il momento, la costruzione della Dakota Access Pipeline. 1)
Ma il Presidente eletto, Donald Trump, ha già annunciato che dopo il suo insediamento – il 20 gennaio – si opporrà alla decisione del Genio Militare, autorizzando il completamento dei lavori nella Riserva dei Sioux.

La lotta quindi non è finita per i nativi americani e si annunciano nuovi e duri giorni di lotta; anche se, in questo periodo invernale, nell’accampamento “Sacred Stone” le proteste si sono affievolite a causa delle condizioni climatiche proibitive in cui vivono i “ribelli”, con temperature che raggiungono anche i 30° sottozero. Ma c’è da scommettere che con l’arrivo della primavera le proteste torneranno ancora più forti e compatte per impedire il completamento dei lavori.
Sarà l’ennesima storia di resistenza dei nativi americani, che si perpetua fin dalla nascita del Nuovo Continente: la loro sottomissione, l’alienazione delle loro terre per lo sfruttamento delle materie prime, infine il genocidio di milioni di autoctoni da parte dei colonizzatori europei i quali, in nome della civilizzazione, hanno distrutto culture millenarie che vivevano in completa simbiosi e armonia con le forze della natura.

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N O T E

1) Al di là degli atti in extremis che Obama sta freneticamente affastellando per rendere la vita difficile al suo successore, il problema dei nativi è Washington in quanto tale, chiunque ne sia il presidente. Se Trump è vergognosamente coinvolto dal punto di vista degli interessi economici, è difficile considerare un campione delle cause etniche quello stesso Obama che appartiene alla cricca globalista, fascista e filoislamica dei Soros e delle Clinton.
Di questo si sono resi conto anche i nativi. In una recente intervista ad Alli Moran – esponente della Cheyenne River Sioux Tribe, della zona di Standing Rock – è stato chiesto se secondo lei Obama abbia fatto qualcosa per la popolazione indigena. “Per niente”, ha risposto. “Sono stata una sua convinta sostenitrice nel 2008, quando correva per la presidenza. Era il candidato della speranza. Io ero certa che si sarebbe dato un gran da fare per i nativi. Invece, quando durante una visita in Malesia gli chiesero del Dakota Access Pipeline, reagì da perfetto occidentale e lasciò cadere la domanda”.  [NdR]