Danze e parate, rappresentazioni e banchetti, antichissimi canti e rapsodie: attraverso i moduli gelosamente conservati della tradizione avita, il popolo arbereshe rivendica il diritto di sopravvivere nel tempo e di affermare la propria specificità.

Il popolo albanese, esule da più di cinquecento anni dalla propria madrepatria, stabilitosi con gli stanziamenti e le migrazioni prevalentemente nel meridione d’Italia, ha conservato gelosamente le peculiari tradizioni e il folklore. Questa cultura avita, in genere tramandata oralmente di generazione in generazione, ha sempre costituito l’invisibile cordone ombelicale che unisce ancora oggi gli Arbresh alla loro storia secolare, alla loro etnia, diventando così la depositaria dei più importanti valori della “albanesità” e del sapere del popolo. La nostra era nucleare reprime il mito delle “piccole patrie” e ci propina, attraverso i mass-media, una cultura massificata ed uniforme, nella quale l’uomo si ritrova sempre meno. Nonostante l’articolo 6 della Costituzione italiana decreti la salvaguardia delle minoranze etnico-linguistiche, ciò di fatto non avviene. I festeggiamenti pasquali, fulcro della tradizione arbreshe, costituiscono quasi la rivendicazione del diritto di esistere, o, meglio, di sopravvivere nel tempo, ma anche un modo per ribadire la diversità delle origini degli Italo-albanesi rispetto ai popoli con i quali convivono. Si tramanda che tali festeggiamenti, che vanno dalla domenica di Pasqua al martedì, risalgano all’epoca dell’eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg, strenuo difensore del popolo albanese contro le orde turche nel XV secolo. Skanderbeg, sconfitti i nemici in una decisiva battaglia, festeggiò l’imminente Pasqua per tre giorni di seguito. Nella mezzanotte fra il sabato e la domenica di Pasqua, le campane annunciano la resurrezione di Cristo, dando così inizio, in forma religiosa, ai festeggiamenti pasquali. Uno dei canti intonati in questa occasione è il “Krishti u ngjall” (“Cristo è risorto”).

La domenica pasquale è caratterizzata soprattutto dalla tradizionale e suggestiva “vallja”, una sorta di danza simile a quella pirrica dei Greci e alla “chorea” romana. In uso ancora oggi a Frascineto, Ejanina, Civita (Cosenza) e a S. Costantino e S. Paolo Albanese (Potenza), essa consiste in una ridda di donne che si tengono per le estremità di fazzoletti. Le accompagnano due uomini, uno dei quali (“fjamurari”) sventola la bandiera albanese. Le donne che partecipano alla “vallja” indossano gli splendidi e sontuosi costumi tradizionali in raso e oro, ornati da preziosi ricami. La “vallja” si snoda per le strade del paese, danzando con artistici movimenti, cantando l’inno nazionale degli Albanesi e numerose rapsodie che celebrano le gesta di Skanderbeg, che narrano la suggestiva storia di “Costantino e Jurendina” (dove è esaltata la “besa”– o parola data – uno dei valori morali fondamentali del mondo arbresh), o che ricordano, con struggente malinconia, la madrepatria lontana. Inoltre, vengono improvvisati dei versi, abilmente adattati alla situazione. Nello stesso giorno si può anche assistere ad una parata a cavallo di uomini abbigliati come dei soldati albanesi dell’esercito di Skanderbeg (“Ushtria e Skanderbekut”), seguiti a piedi da giovani armati di fucili e pistole. Prendono parte alla sfilata i “pjelzit” (“vecchiariddi” per i Calabresi), che indossano un vestito caratteristico maschile con un mantello femminile (“pan”)sulle spalle e assomigliano a donne pregne. Questa parata raffigurerebbe l’entrata trionfale a Kruja dell’esercito albanese, dopo una schiacciante vittoria sui Turchi. Il lunedì continuano le stesse rappresentazioni per movimentare la festa, che raggiunge il suo culmine nel giorno seguente. Esso è denominato “E martja e lëtinjvët” (“il martedì dei latini/italiani”), soprattutto perché si verifica un notevole afflusso di forestieri. A loro è dedicato il significativo scherzo di un gruppo di giovani del paese (“Ata çë nxijen”) che, muniti di lunghi pali posati sulle spalle e di alcune pentole dal fondo fuligginoso, scorazzano per tutte le vie, imprimendo con l’indice intinto nel fondo della pentola un’impronta scura sulla guancia di ogni persona non albanese. Questo simbolico gesto non vuole offendere gli ospiti non arbresh, ma ribadire la diversa origine etnica degli Albanesi d’Italia. C’è anche un altro curioso gruppo di uomini, che, vestiti di bianco e con i volti cadaverici, portano un teschio (“kutull”) in un cesto di paglia e una falce. Essi si aggirano per le strade ed invitano le persone anziane a baciare il teschio. Per quanto possa sembrare macabra e di cattivo gusto, questa singolare cerimonia racchiude un profondo significato spirituale: la morte è il destino ineluttabile dell’uomo e l’uomo deve così esorcizzare la paura che ha di lei, accettandola con serenità e consapevolezza. All’atto del bacio viene citata la frase : “Kujtò se ke të vdesh!” (“Ricordati che devi morire!”). Terminati questi tradizionali festeggiamenti, alcune allegre campagnie, di sera, vanno a far visita ad amici e parenti, gustando insieme prelibati cibi e vini.

Al momento del congedo, in segno di cordiale ringraziamento, gli ospiti cantano i seguenti versi augurali per il padrone di casa e la sua famiglia: “Neve kush na bëri nderë/akuavit na dha për verë!/Po si sot edhé nga herë, /shpia ’tij most pastë vrer!” (“A noi chi ha reso onore/ci ha dato liquore al posto del vino!/Come oggi e per sempre,/ la sua casa non abbia dispiaceri!”). Era in uso, anni fa, un significativo rito che si teneva di solito nella seconda domenica dopo Pasqua o in occasione dell’Ascensione. Gli uomini celebravano un banchetto fraterno (“ vëllamja”), nel quale, con un solenne cerimoniale, bevevano vicendevolmente un po’ del proprio sangue, misto a vino. Diventavano così fratelli fino alla morte. Anche le donne prendevano parte ad un convito simile (“motërmat”), però separatamente dagli uomini. Prima del periodo carnevalesco, invece, si celebrava e si celebra tuttora, la funzione religiosa per commemorare i defunti. Il venerdì della settimana dei morti (“të vdekurit”) in chiesa vi è la distribuzione del grano bollito e condito con aromi dolci . Il grano ha un importantissimo valore simbolico: infatti, come il chicco di grano, che, sotterrato, rispunta poi dalla terra con i suoi teneri germogli, così anche l’uomo, dopo le tenebre della morte, risorgerà a nuova vita.

Le onoranze ai morti presentano dei lati curiosi, come, ad esempio, quello di consumare cibo sulla tomba dei propri defunti nel cosiddetto “giorno delle lacrime”. I familiari stendono sulla tomba una tovaglia, imbandita con salami, formaggi, pane e uova sode. Chiunque passi è invitato a partecipare al singolare banchetto. Anche in questa usanza è presente il tentativo di esorcizzare la paura della morte, proprio come nel rito del teschi, già ricordato fra le tradizioni pasquali.

Addentriamoci ora nelle usanze che un tempo caratterizzavano il Carnevale arbresh: era consuetudine riunirsi, di sera, in allegre compagnie ed innalzare i “vjershe” (canti in versi) davanti alla porta di case amiche: “Oji ma sonde ç’ë ky karnivall/zgjohmi ndrikull e kumbar!/Ngrehu e çel atë hilnar!/S’erdha se dua të ha, /erdha se jemi kumbar!/S’erdha se dua të pì/erdha se jemi gjirì!” (“Ma stasera che è Carnevale/svegliamo le comari e i compari!/Alzati e accendi quel lume!/Non sono venuto per mangiare/sono venuto perché siamo compari!/Non sono venuto per bere/sono venuto perché siamo parenti!”). La compagnia si riuniva al caminetto (“vatra”), mentre dalla brace scoppiettavano i chicchi di granoturco (“kaçkasit”). Della consuetudine di festeggiare il Carnevale con lauti banchetti troviamo traccia in un’antichissima rapsodia, “Kënga Skanderbekut” (“La canzone di Skanderbeg”): “Por më ish nde Karnivall/Skanderbeku një menatë/po më mbloth shokerinë/po m’e mbloth em’e mbitoi/me mish kaponish e Ijepurish/me krera thllezazish/me filljete mishtierrazish…” (“Era il periodo di Car- nevale/Skanderbeg una mattina/riunì la compagnia/la riunì e la invitò/con carne di cappone e di lepre/con teste di quaglie/e con filetti di capretto…”). Un altro modo di festeggiare la ricorrenza era quello di organizzare gare sportive, che consistevano nel lancio di una forma di formaggio, che veniva assegnata in premio al giovane che fosse riuscito a scagliarla più lontano di tutti.

Un’altra usanza di cui si è persa ogni traccia è quella che si rinnovava puntualmente dopo la mezzanotte dell’ultimo giorno di febbraio. Alcuni uomini, coperti da lunghi mantelli, con il capo nascosto da un cappellaccio, gridavano versi di sdegno contro le malefatte di persone del paese per indurle a correggersi dai vizi. Per rendere irriconoscibile la loro voce di servivano di una zucca incavata, (“kungull”) usata a mo’ di tromba. Ogni tanto, i compagni che li accompagnavano armati scaricavano in aria i loro fucili, per intimidire la gente e impedire che si affacciasse alle finestre. Il tutto era comunque uno scherzo e terminava con un improvvisato banchetto, offerto dall’accusato. Si racconta, però, che un giovane di nome Marzio fu vittima di una pallottola sparata da un uomo che era stata offeso. Da allora è di largo uso il detto: “Erth Marsie e nëng gjeti Marsin!” (“È giunto Marzo, ma non ha trovato Marzio!”).

 

Toponomastica bilingue nei paesi albanesi

Queste immagini mostrano come, nell’ambito delle iniziative promosse per la salvaguardia del patrimonio storico-culturale albanese, le amministrazioni comunali di alcuni paesi (ancora troppo pochi!) si siano impegnate in un ’opera che riveste una fondamentale importanza, provvedendo a distribuire segnalazioni civiche e stradali bilingui. Iniziative come questa sono da sostenere e promuovere in tutti i centri albanesi, ma il presupposto deve essere un’organico movimento di valorizzazione che investa tutti gli aspetti di una cultura minoritaria. L’uso in sé di una segnaletica bilingue si rivelerebbe sterile, se alla base non ci fossero le premesse autentiche di voler conferire alla lingua arbêreshe quella dignità e quella identità sempre negatale dalla cultura ufficiale. Le comunità albanesi d’Italia, rispetto ad altre minoranze etnico-linguistiche, sono svantaggiate anche geograficamente: infatti, vengono considerate “isole” linguistiche, poiché non hanno legami fisici con la terra d’origine, l’Albania. Inoltre, questi paesi non sono concentrati in un ’unica regione, ma sono sparsi dalle Marche alla Sicilia. Ciò implica un ’accentuata dispersione e disgregazione del patrimonio culturale e linguistico, che pure è notevole e ricco di letterati quali, per citarne solo alcuni, Girolamo De Rada (1814-1903), Giuseppe Serembe (1843-1891), Bernardo Bilotta (1843-1918), Antonio Santori (1819-1894), certo non famosi come Dante o Pascoli, ma non per questo meno bravi. Nonostante siano molteplici le testimonianze storiche, culturali, folkloristiche sulla presenza e sull’attualità degli Arbëreshë, non è ancora stata varata una legge che sancisca l’insegnamento della lingua albanese nelle scuole. È facile chiudere gli occhi davanti all’anelito di vita che anima la minoranza arbëreshe, è ancora più facile considerarla come un reperto da museo, che nulla ha ormai da esprimere. Forse è meglio, allora, che queste immagini parlino da sole.