Foto di Valerio Raffaele

Sabato 27 dicembre. L’appuntamento è per le undici al piazzale delle Ferrovie Nord di Varese. Un furgone bianco monovolume entra dalla corsia degli autobus fermandosi a lato del marciapiede. La donna seduta sul lato del passeggero si guarda intorno, scende dal mezzo e si dilegua nella stazione. Mi avvicino per controllare la targa. Ivan mi ha detto al telefono l’altroieri che il numero è 5100. Su questo c’è la fatidica sigla UA ma il numero è un altro. Per sicurezza mi avvicino al lato del guidatore per chiedere informazioni. L’uomo al volante abbassa il finestrino e sussurra qualche parola a bassa voce scuotendo timidamente la testa mentre gli sguardi curiosi di quelli seduti dietro mi fissano. Non è il furgone giusto. Ivan mi ha dato il numero preciso della targa perchè il sabato è il giorno delle partenze e sono diversi i mezzi diretti in Ucraina. Ivan è il contatto tramite il quale la mia alunna Julia mi ha prenotato un posto per raggiungere l’Ucraina al seguito degli immigrati di quel paese che vivono e lavorano all’ombra delle Prealpi. Lui è solo uno dei tanti “portantini” che fanno la spola ogni settimana tra Varese e l’Est Europa. Via terra. Oltre duemila chilometri attraverso il Nord Italia, la Slovenia, l’Ungheria, fino a Chernivtsi, capoluogo della Bucovina ucraina. Chiamo il numero che Julia mi ha dato per contattare gli autisti. Dall’altro capo del cellulare risponde la voce di qualcuno che sembra essere appena cascato dal letto. L’uomo bofonchia qualche parola sul fatto che da lì a un ora in un momento non meglio precisato sarebbe arrivato. Niente di sorprendente, non c’è in Europa Orientale nulla di più elastico e vago che l’idea di orario. A mezzogiorno finalmente squilla il telefono. Faccio appena in tempo a rispondere che distante qualche metro vedo un uomo che alza un braccio nella mia direzione. Eccolo Ivan, diverso da come me lo aspettavo. Un uomo con la faccia da ragazzo vestito con jeans e scarpe alla moda, lucide e nere. Carico il mio zaino nel bagagliaio dell’auto, una Mercedes nera a otto posti con i finestrini scuri posteriori. Il numero di targa è un altro, ma anche per questo non c’è da sorprendersi. Si avvicina a noi un tipo alto con i capelli neri e il naso lungo e appuntito insieme a due donne e a un uomo più anziano. Questi lo salutano con tanto di baci, abbracci e parole che seppur incomprensibili alle mie orecchie sanno tanto di raccomandazioni e ammonimenti.

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Saronno: Andrei Bogodian e il van Mercedes che ci porterà in Ucraina.

Lasciamo Piazzale Trento e Trieste e ci mettiamo in marcia. A bordo al momento siamo solo noi tre. Il ragazzo alto si chiama Andrei, ha 28 anni e un cognome, Bogodian, che tradisce una provenienza quasi certa. “Sei armeno?”, gli chiedo. Lui si schermisce dietro un sorriso enigmatico e risponde che è rumeno. Questa è stata la sua prima visita ai piedi del Sacro Monte dove la madre fa l’assistente domiciliare in casa di un’anziana. A Chernivtsi lavora per il comune nel controllo della qualità delle acque. “Ma in passato ho fatto pure io l’insegnante, appena finite le scuole, mentre andavo all’università. Insegnavo matematica, avevo 17 anni quando ho iniziato. Ho smesso solo l’anno scorso”, mi dice in un discreto italiano, imparato grazie ai primi rudimenti che la madre gli ha passato, mentre siamo fermi a Saronno nel parcheggio dei vigili del fuoco appena fuori dall’uscita dell’autostrada. Ivan intanto è alle prese con il suo cellulare che continua a squillare. Pochi minuti e ci raggiungono Natascia Popova e la figlia Anja di 7 anni. Gabriele, il marito italiano della donna e padre della piccola, le saluta affettuosamente prima della partenza.
Imbocchiamo la A9 in direzione di Como e usciamo al casello di Lomazzo Nord. Raggiungiamo Appiano Gentile dove parcheggiamo in una stradina laterale alla piazza principale del paese. Ivan scompare furtivo dietro l’angolo di una casa. Ricompare altrettanto velocemente dopo pochi minuti. Giusto il tempo di permettere a due donne di caricare l’auto con i pacchi e i bagagli che si portano appresso. La più anziana delle due è Elena Kuriliak, ha 70 anni ed è in Italia dal 2000. Ha lavorato a Venezia e a Milano prima di arrivare ad Appiano Gentile dove cura un’anziana di 94 anni. “In Ucraina lavoravo la terra in una comunità di stato”, mi dice quando siamo ripartiti. Erano i vecchi kolkoz d’epoca sovietica che fecero dell’Ucraina il vero e proprio granaio dell’URSS. L’altra signora si chiama Mila P., ha 43 anni e in patria faceva la postina. Più diffidente dell’amica, si rifiuta di dirmi il suo cognome. In Italia ha lavorato tra Varese, Bergamo e Como. Ora cura una signora di 78 anni. “Prima però ho badato per parecchio tempo a una giornalista della ‘Gazzetta dello Sport’ che era malata di sclerosi”, mi dice in un italiano più che mai fluente. Come quello di Elena, originaria di Boiani, un piccolo villaggio a est di Chernivtsi. Mila invece è di Rakidna, un villaggio ancor più minuscolo, neanche riportato sulla carta dell’Ucraina che mi sono portato dietro.

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Tappa a Bergamo. dove le merci delle nuove passeggere vengono pesate e caricate.

Ivan pigia di buona lena sul pedale dell’acceleratore di nuovo in direzione di Milano, dove prendiamo l’autostrada per Venezia. Dietro di me c’è ancora un posto libero. Dubito che siamo al completo. Infatti all’altezza di Bergamo usciamo dall’autostrada. Dopo una serie infinita di deviazioni ci fermiamo in una strada senza uscita alla periferia della città circondata da giardini e alte palazzine dove avviene la messa a punto finale del viaggio. Un grosso furgone bianco con rimorchio parcheggia dietro di noi. La porta laterale scorrevole si apre e delle persone scendono in strada mentre altri accorrono dai marciapiedi chiamati dalle telefonate di Ivan che si è attaccato di nuovo al cellulare. Una donna corre ad abbracciare Mila. Si conoscono, in Ucraina vivono nello stesso paese, nell’introvabile Rakidna. Altri parlano tra di loro, tra sorrisi e strette di mani. L’atmosfera è familiare, tutti sembrano conoscersi. È la trafila migratoria dai contorni di una diaspora che per un momento si riunisce. “E quando andiamo in ferie le sostitute ce le troviamo noi. Non vogliamo fare brutta figura”, ci tiene a precisare Tanja, una di coloro che sono appena accorse. Tanja è venuta insieme a sua sorella Natascia ad accompagnare la nipote che approfitta delle vacanze di Natale per andare a far visita in patria al figlio diciottenne. “È preoccupata per le notizie che arrivano dall’Ucraina. Arruolano i giovani per andare a combattere contro i russi nell’Est”, mi dicono le due donne, deluse per il fatto che qui in Italia non si parli più di ciò che sta accadendo nel loro Paese dove la gente muore ancora nonostante nel Donbas, la regione dove si combatte, sia in vigore sulla carta il cessate il fuoco. “Anche le madri russe sono preoccupate come le nostre. Da un giorno all’altro i loro figli vengono chiamati a partire non si sa per dove. E molti non fanno più ritorno. Le televisioni russe hanno fatto vedere immagini di mezzi meccanici che scavano grosse buche dove vengono gettati tutti assieme i corpi dei morti. È terribile”.
Andrei ci racconta che un medico suo amico di Chernivtsi andato a fare il volontario a Donets’k ha visto ferite e sofferenze infinite tra i militari e i civili. Le fosse comuni, i dolori e le piaghe di una guerra caduta nel dimenticatoio dei media italiani feriscono i cuori delle emigrate che lavorano alle nostre latitudini e che vivono costantemente in apprensione per la sorte dei familiari. Anche se dalle loro zone di provenienza non si combatte, è in Ucraina Occidentale che il governo cerca forze fresche da inviare al fronte.
Tanja è arrivata in Italia tredici anni fa, al seguito della sorella. Ora che la nipote torna a casa sarà lei a sostituirla per questo breve periodo. “Sono rimasta senza lavoro. Il mio vecchietto è morto”, mi dice con una voce che ha preso qualche tonalità delle vallate bergamasche. “Intanto cercherò di farmi conoscere nel paese”. Una comunità quella ucraina che si regge quasi interamente sul passaparola. “Ci sono delle associazioni a cui rivolgersi quando siamo senza lavoro. Però dandoci una mano l’una con l’altra siamo sempre riuscite a cavarcela bene”. Un’amicizia che il più delle volte ha le sue radici nel paese natio. Come Mila, anche Tanja e Natascia sono di Rakidna. Le due non accettano di farsi fotografare: “i mariti sono gelosi”, mi dicono con pudore.
Mentre chiacchieriamo, attorno a noi c’è un gran movimento di merci. I mezzi in partenza vengono stipati all’inverosimile non prima di aver pesato tutti i pacchi al seguito. L’operazione spetta ad Ivan e a Vitaly, l’altro autista, che sotto una fitta nevicata e muniti di una semplice bilancia pesa persone ne controllano minuziosamente la quantità. Massimo trenta chili, altrimenti si deve pagare un sovrapprezzo rispetto agli ottanta euro pattuiti. Tra voluminose scatole di cartone e sacchi di plastica intravedo arance, mele, pasta, panettoni, cioccolato. A operazione conclusa la mercedes nera è strapiena, con pacchi infilati sotto i sedili e tra le gambe di quelli seduti dietro di me. Per fortuna l’ultimo posto libero è stato occupato da Alexandra Popova, una signora bassa che si arrabatta come meglio riesce trovando incredibilmente una posizione comoda accartocciata alla meno peggio tra i sedili e i borsoni. I due furgoni-minibus sono pronti, gli autisti fanno marcia indietro, i passeggeri si sbracciano per salutare i compaesani rimasti in strada. Ora si parte per davvero. Da adesso la bussola punta dritta verso Oriente. La traversata verso le terre d’Ucraina ha inizio. Elena e Mila si fanno per tre volte il segno della croce.

Oltre la Cortina di Ferro

Al calar della sera il buio inghiotte il mediocre paesaggio dei grandi capannoni industriali del nord-est. Fulgide gemme squadrate del miracolo economico nostrano ieri, vuoti e abbandonati oggi, ridotti a moderni ruderi in svendita, figli di una crisi industriale senza fine. “Se nessuno li compra, lo Stato dovrebbe dare una mano”, commenta Elena nel vederseli sfilare uno dietro l’altro dal finestrino alla sua destra come tante decrepite carcasse di cemento. Lascio cadere nel vuoto la sua osservazione. Vai a spiegare del patto di stabilità, dei vincoli europei e del fatto che l’Italia lo fece a suo tempo un intervento simile, rivelatosi poi un disastro, a una donna che ha vissuto gran parte della sua vita in una società in cui lo stato era l’unico datore di lavoro. Per lei, ancora costretta alla sua età a lavorare, si tratta di uno spreco enorme. “Ormai non ci penso neanche più alla pensione. Devo pensare alla figlia che mi è rimasta e ai nipoti”. Qualche anno fa l’anziana è dovuta tornare per qualche tempo in Ucraina per curare il marito sul punto di morte. E recentemente anche l’altro figlio è scomparso in maniera prematura. “È la vita”, sancisce con voce rassegnata. Le donne ucraine sono la vera e propria spina dorsale nel sostentamento economico di intere famiglie nella regione di Chernivtsi. Se il marito non lavora o è disoccupato il più delle volte rimane in patria a curare la casa, a coltivare le patate nell’orto e ad allevare qualche gallina. Anche i figli spesso rimangono in Ucraina, come i tre di Mila. “Da voi gli uomini se non hanno un lavoro si ammazzano. I nostri invece bevono, si ubriacano e vanno a dormire”, aggiunge Elena con una risata sarcastica riferendosi ai propri connazionali maschi. Le rimesse che le badanti inviano a casa sono l’unica fonte di reddito per molti villaggi rurali poveri. Come quello di Boiani, dove Elena possiede una casa di proprietà, in cui la metà delle famiglie ha una donna emigrata che lavora in Italia.
In quella stessa fetta d’Italia che vedo ora sfilare via da un furgone ucraino e che per la prima volta mi sembra di vedere da un’angolatura diversa. Chissà quante volte percorrendo le autostrade italiane mi sarà capitato di affiancare inconsapevolmente qualcuno di questi mezzi su cui transita un mondo in perenne movimento ricco di storie e vicende per lo più sconosciute agli italiani. Più maciniamo chilometri, più avanza in me un cambiamento di prospettiva. Il vetro del finestrino sul quale è riflesso il mio volto è diventato uno specchio dove vedo i miei occhi farsi sempre più stranieri. Non potrebbe essere altrimenti. Sono seduto tra gente che parla in italiano, russo, rumeno e ucraino e che passa disinvoltamente da un idioma all’altro. Dietro di me c’è una bambina che furbescamente si rivolge al telefono a papà Gabriele dicendo in un limpido italiano che “se allora non ti manco non tornerò più a casa…”. Salvo poi cambiare registro linguistico con una facilità estrema e mettersi a parlare con la madre in russo. Per un attimo mi sento a disagio. Preso da una subitanea crisi di identità, non riesco a capire che intorno a me una geografia invisibile si sta delineando. È l’abbraccio tra l’Occidente e l’Oriente, la fusione tra il mondo slavo e quello latino. È un ritorno alle origini, a quell’Oriente rimosso dalla dittatura dei valori occidentali che ritorna a galla dalle profondità dell’inconscio fino a rasentare le frontiere dell’anima. Mi sembra già di essere in Ucraina. Il cui significato letterale è, per l’appunto, “terra di frontiera”.
A Opicina la scritta “Vjgneta”, il bollo obbligatorio per chi viaggia in autostrada, mi ricorda la dogana svizzera. Siamo in Slovenia in passato considerata a ragion veduta la Svizzera della Ex Jugoslavia. Qui scorreva la famigerata “cortina di ferro” prima che Tito rompesse con l’Unione Sovietica di Stalin. Successivamente ha continuato a essere un confine a dir poco sensibile. Almeno fino al 1991, anno dell’indipendenza slovena. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta e la Slovenia, dopo un promettente ingresso nell’Unione Europea, è oggi invischiata in una difficile congiuntura economica ed è purtroppo nota per l’elevato tasso di suicidi. I grandi centri commerciali illuminati all’inverosimile con le pacchiane luci natalizie delle autostrade italiane hanno lasciato il posto ai sobri autogrill sloveni dalle luci soffuse. Pochi chilometri e ci fermiamo per una sosta in uno di essi. All’interno un rumoroso gruppo di uomini non trova di meglio da fare che passare la serata scolandosi una birra dietro l’altra. Offro un caffè ad Andrei, che si sta già mangiando un pezzo di pizza, e a Igor, il nostro nuovo autista salito al volante durante una veloce sosta carburante al posto di Ivan, salito a sua volta sull’altro mezzo che viaggia con noi. Non mangio nulla, preferisco rimanere leggero per evitare problemi di digestione durante il percorso. Vorrei offrire un caffè anche alle altre signore compagne di viaggio. Tutte però rifiutano, nessuna di loro ha consumato qualcosa. Sono formichine invisibili le donne ucraine, risparmiano il più possibile. Nulla a che vedere con il vorace e ansiogeno popolo consumista degli autogrill italiani.
Si riparte. La Slovenia è buia, fuori fa freddo e nevica abbondantemente. Nei pressi dell’uscita di Nova Goriça i tir che percorrono la corsia opposta alla nostra faticano ad arrampicarsi sull’asfalto reso scivoloso dalla neve. Molti sono parcheggiati a lato della strada. La nostra truppa invece sfreccia sicura superando anche l’ostacolo di un’auto andata in testacoda e ferma sulla corsia di sorpasso. A bordo la piccola Anja si è già addormentata. Mila ed Elena ridacchiano tra di loro raccontandosi simpatici aneddoti sui vecchietti che curano. “Non è semplice prenderci dei giorni di ferie”, mi dice Mila finalmente più cordiale. “Loro si affezionano alla persona, sono degli abitudinari. Per fare il nostro lavoro ci vuole molta pazienza. Gli anziani sono come dei bambini adulti”, aggiunge poi con un sospiro. In sostanza fare le badanti significa essere anche un po’ psicologhe. La domenica è il loro giorno libero, quello in cui si sta in compagnia dei propri connazionali per non sentire troppo la nostalgia di casa. E quando sono in patria le badanti ucraine si premurano spesso di chiamare in Italia i propri assistiti e i familiari.

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A ora ormai tarda le parole si affievoliscono e nell’abitacolo cala il sonno, ognuno incastrato nella propria posizione. Ogni tanto si sente l’aria gelida provenire dal finestrino abbassato di Igor che per tenersi sveglio si fuma ogni mezz’ora una sigaretta. Pure lui è rumeno, pure lui del piccolo villaggio di Rakidna. Gli autisti incassano bene per ogni viaggio in relazione agli stipendi medi ucraini. Ma la loro vita è un vero e proprio tour de force. Durante la sosta Natascia Popova mi ha raccontato che in genere essi partono il mercoledì dall’Ucraina e arrivano il giorno dopo a Varese. Il venerdì sarebbe il giorno di riposo; che però è più ipotetico che reale, visto che si occupano di fare le consegne di casa in casa della merce spedita dall’Ucraina e che raccolgono i pacchi che invece verranno spediti dall’Italia. Di sabato si parte di nuovo con la domenica che chiude finalmente il cerchio. Lunedì e martedì sono i veri giorni di relax. Il numero degli autisti in viaggio dipende dalle richieste. Minimo uno massimo tre, a seconda dei casi. Non solo spostamenti verso l’Italia. Ma anche in Francia, Spagna, Portogallo, attraverso mezza Europa.
È quasi la mezzanotte quando Igor frena bruscamente facendo sbandare a destra e a sinistra il veicolo risvegliandoci e facendoci sobbalzare dalla paura. Il furgone bianco che ci precedeva guidato da Vitaly è sbandato anch’esso finendo paurosamente inclinato verso destra con la ruota posteriore accartocciata e parte del veicolo che sporge pericolosamente sulla prima corsia. Passato il panico iniziale riusciamo ad accostare sulla corsia di emergenza. Per fortuna il traffico è limitato dal maltempo. I tre autisti scesi in strada si danno un gran da fare per risolvere il problema, ma il danno pare più grave del previsto. Oltre alla foratura sembra infatti essersi rotto anche il disco della ruota. Dopo una buona mezz’ora passata inutilmente a cercare di estrarre il pneumatico incastrato tra il furgone e l’asfalto, ci viene in aiuto un mezzo di soccorso con due zelanti sloveni vestiti di arancione che si accodano a noi lasciando accesi i lampeggianti. Osservano le manovre per cercare di sistemare il pneumatico, scuotono la testa, dicono la loro rivolgendosi agli ucraini che a loro volta replicano. In apparenza il dialogo è tra sordi. In realtà tutti sembrano intendersi benissimo pur parlando lingue diverse. Montati i cric e sfilata con gran fatica la gomma c’è da sistemare la ruota di scorta e sostituire il disco. Un’operazione che è impossibile da farsi sul posto. I due sloveni chiamano un carroattrezzi, viene caricato sopra il furgone con tutti i suoi occupanti e dopo due ore finalmente si riparte. Alla sosta successiva, un’ora più tardi, ritroviamo il furgone bianco apparentemente riparato. Vitaly è alle prese con una grossa chiave inglese intento ad avvitare per bene i bulloni della gomma di scorta. Con qualche patema e intirizziti dal freddo tutto sommato ce la siamo cavata bene. Abbiamo solo accumulato un pò di ritardo sulla tabella di marcia.
Quando ripartiamo la notte non ci riserva più sorprese. Anche perchè strada facendo si è aggregato alla comitiva un altro furgone bianco targato Polonia. Con l’ampia rete di amicizie degli scaltri autisti ucraini, non c’è da temere di rimanere isolati in terra straniera. Prima di addormentarmi vedo tanti altri furgoni procedere lungo la strada. Sbucano dalla corsia di sorpasso. Tutti uguali, tutti con la sigla UA e la bandiera giallo azzurra sulla targa. I fanali posteriori sembrano tante lucciole rosse che rimpiccioliscono sempre più fino a scomparire nel buio. Siamo i pezzi di un’unica grande carovana che marcia nella stessa direzione. Strisciamo imperterriti come un lungo bruco, nel cuore di una notte da tregenda. Puntando dritti verso il confine con l’Ungheria.

Attraversando la Transcarpazia

Ci risvegliamo al mattino sotto un cielo plumbeo e la luce opaca dell’alba ungherese. Il generale inverno ha denudato gli alberi dalle foglie dando loro la parvenza di tanti scheletri immobili e intirizziti, isolati nel gelo dei campi bianchi della puszta, l’arida steppa piatta della Pannonia. Nei pressi di Budapest usciamo dall’autostrada e, tra un semaforo e l’altro del raccordo autostradale, perdiamo il contatto con gli altri due veicoli davanti a noi. Igor si guarda in giro cercando di orientarsi. Ha il volto stanco di uno che ha resistito al sonno grazie all’autoradio, rimasta accesa a volume basso tutta la notte, alle sigarette e ai continui caffè bevuti durante le soste. Nel girovagare a casaccio alla ricerca della strada giusta ci infiliamo nelle viscere periferiche della capitale ungherese. Un budello di strade rettilinee tutte uguali con i condomini grigi e brutti come lo sono i quartieri esterni di tutte le grandi metropoli. A un certo punto il nostro autista scende dall’auto e ritorna dopo qualche minuto con un tassista pescato chissà dove che ci conduce fuori dal labirinto di Budapest facendoci da battistrada e defilandosi quando, a furia di sbracciate, ci indica la direzione da seguire.
Ritroviamo gli altri a un autogrill per il primo caffè del mattino con Vitaly già alle prese con il controllo della gomma sostituita strada facendo. Ogni sosta è l’occasione per sgranchirsi le gambe e stirarsi la schiena. La piccola Anja è la prima volta che compie il lungo e faticoso viaggio via terra verso l’Ucraina. Eppure, come tutti gli altri, non batte ciglio. Viaggio con gente abituata alla durezza della vita. Le rughe del volto di Alexandra Popova, seduta nel posto più scomodo senza fiatare, parlerebbero in continuazione di stenti e fatiche se avessero voce. Come i suoi occhi piccoli e vitrei, due crudi affreschi di una vita segnata da un nomadismo senza radici. Alexandra ha alle spalle un passato da badante a Cinisello Balsamo, Monza e Villa d’Alme, nel bergamasco, dove oggi cura una signora di 84 anni. Non vuole dirmi l’età Alexandra, che nel parlare passa da ampi sorrisi illuminati dai denti d’oro che luccicano nella sua bocca a improvvisi momenti di silenzio quando il volto si fa triste e malinconico. “Sono costretta a lavorare ancora”, mi confessa prima di risalire sull’auto. “Mio marito ha una pensione da fame. I miei figli sono sposati, hanno figli, ma nessuno di loro lavora. Sono io che sostengo tutta la famiglia. È la vita che mi tocca”, aggiunge poi allargando le braccia e concedendosi uno dei rari sorrisi.
Stormi di cornacchie nere con il becco lungo ci seguono nella nostra transumanza a Oriente, svolazzando da un campo all’altro sotto un cielo coperto di nuvole. Sto vivendo un’esperienza unica insieme a un giovane andato a trovare la madre, a un’ex infermiera sposata con un italiano con una bambina al seguito, a un autista di passaporto rumeno, a due signore che dovrebbero fare le nonne invece di lavorare ancora a tempo pieno e a un’ex postina enigmatica. L’automobile-furgone-minibus è un microcosmo del mondo ucraino, un melting pot di suoni, culture e accenti di cui la piccola italo-ucraina Anja è l’inconsapevole creatura che fa da ponte tra due popoli. Le vecchie identità nate e cresciute dentro le sbarre di ferro degli stati nazionali si fondono con quelle nuove rese più fluide dall’indebolirsi delle barriere geografiche.
Ultimi fotogrammi di Ungheria. Un carretto trainato da un asinello e dall’anziano padrone, intento a spronare l’animale con tanto di briglie in mano, mentre le auto che scorazzano lì vicino lo superano in velocità. Villaggi isolati nascosti dietro le dolci ondulazioni delle colline. Campi imbiancati che si perdono a vista d’occhio, muti testimoni di un Medioevo che vide scorrazzare su queste terre i temutissimi Magiari, i cavalieri asiatici dai quali discende il popolo ungherese. Mi sembra di rivederli, avanzare bellicosamente a cavallo tra le zolle gelate delle praterie che ho di fronte e mettere a ferro e fuoco l’Europa del X secolo armati di scudo e spada. Come fecero duecento anni più tardi i Mongoli dell’Orda d’Oro, che dalla lontana Asia Centrale minacciarono le porte dell’Europa estendendo i loro domini fino alla sterminata pianura danubiana. I cartelli stradali che indicano l’approssimarsi della frontiera mi riportano alla realtà. Non una frontiera qualunque. Qui finisce la fortezza Unione Europea e si entra nel mondo di quella che in passato era un’altra Unione, quella Sovietica. Da qui passarono nell’ottobre del 1956 i carrarmati mandati da Khruschev per soffocare nel sangue la rivolta popolare antiregime guidata dall’eroe ungherese Imre Nagy. Siamo ormai vicini al collo di bottiglia dell’Ungheria. Un’area che nel raggio di 100 chilometri vede la successione di ben cinque stati diversi. A nord la Slovacchia e la Polonia, a sud la Romania. Nel mezzo una striscia di territorio a forma di imbuto che oltre l’Ungheria si allarga a dismisura negli ampi spazi dell’Ucraina Occidentale.
Basta guardare la carta per capire la difficile posizione geografica dell’Ucraina. Il secondo stato europeo per estensione dopo la Russia è una lunga terra di confine tra la Russia stessa e l’Unione Europea. Un Afghanistan d’Europa per posizione e importanza strategica dove si sta assistendo al nascere di una nuova partita a scacchi tra le grandi potenze. Esattamente come avvenne a partire dal ‘700 per lo Stato a forma di foglia situato sul confine magmatico tra Medio Oriente e Asia Centrale e che ancora oggi è sempre sul punto di esplodere. Oggi è l’Ucraina che, suo malgrado, è al centro di un nuovo “grande gioco” tra Unione Europea, Russia e Stati Uniti. Con la Cina che fa da spettatrice interessata. Tutti i giocatori sembrano lontani dal fare scacco matto ai rispettivi avversari. L’esito è quanto mai incerto e gli interrogativi pure inquietanti sull’evolversi della situazione sono ancora molti.
Zahony, dogana ungherese. I controlli sono sorprendentemente blandi e veloci. Imbocchiamo poi una breve strada in discesa che porta dritto al posto di frontiera ucraino. Ci mettiamo in coda dietro gli altri furgoni. Igor ha raccolto tutti i nostri passaporti. Il suo è messo sopra tutti gli altri. Quando lo apre, intravedo tra le pagine una carta patinata colorata rettangolare dalle tonalità rosse. Una banconota. Non faccio però in tempo a vedere di che valuta si tratta. Nel frattempo una guardia infila la testa dentro l’abitacolo chiedendo qualcosa al nostro autista. Poi scrive su un foglietto di carta il numero di persone che si trovano sul veicolo, e lo dà a Igor. Quando è il nostro turno scendiamo dalla macchina e ci avviciniamo al gabbiotto situato nei pressi della sbarra abbassata. Dietro il vetro staziona la faccia rotonda e allegra di una guardia ben in carne. Igor fa passare i passaporti dalla fessura posta sotto il vetro. L’uomo in divisa li sistema ben bene tra le mani e poi li gira come se fossero un mazzetto di carte. Il documento dell’autista da primo è finito per essere ultimo. Il mio invece è sopra tutti gli altri. Mi avvicino per il riconoscimento. Una pura formalità visto che l’uomo seduto nella sua postazione guarda distrattamente la mia foto. La procedura alquanto superficiale è la medesima per tutti gli altri. Quando è il turno del passaporto del nostro autista, il paffuto doganiere ucraino lo apre e con la mossa di un abile prestigiatore estrae come se nulla fosse la banconota colorata facendola sparire dentro un cassetto sotto la scrivania. Il tutto alla luce del sole e senza neanche scomporsi troppo, accompagnando anzi il gesto con urla e grasse risate rivolte a un collega fuori dal gabbiotto. Risaliamo a bordo. Per ora di ispezioni sul carico, come avvenuto alla dogana ungherese, non se ne parla. Poco oltre ci fermiamo di nuovo in un piazzale ampio con posteggi messi a lisca di pesce. Insieme a noi in attesa ci sono un’altra decina di furgoni bianchi tutti pieni zeppi di merce come i nostri. Igor scende a terra e scompare tra gli uffici della dogana nell’edificio grigio dietro il parcheggio. Ricompare poco dopo insieme a un’altra guardia che dà un’occhiata veloce alle persone a bordo e al bagagliaio, salvo poi sparire da dove era venuto. I controlli sono tali solo sulla carta. Il teatrino dei doganieri che fanno avanti e indietro è tutta una messinscena. Il confine è più che mai poroso, come la ghiaia grossolana che lascia filtrare l’acqua piovana. Le guardie di frontiera son ben contente di chiudere entrambi gli occhi su quello che passa in cambio di qualche balzello. Considerando il numero di mezzi che fanno la spola ogni giorno da qui, tanti balzelli dovrebbero fare un bel gruzzoletto.

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La bandiera dell’Unione Europea sventola clandestina sul tetto della dogana. La prima cittadina ucraina a ridosso del confine è Chop, toponimo dalla “o” chiusa e lunga. L’alfabeto cirillico ci spalanca le porte dell’universo slavo. I suoni delle parole si rivestono delle tonalità aspre delle consonanti bilanciate da quelle melliflue delle vocali. Le prime istantanee però sono simili a quelle lasciate poco fa al di là del confine sotto lo stendardo blu a dodici stelle. Due carretti pieni zeppi di legna legata in lunghe fascine filano sulla strada uno dietro l’altro guidati da due ragazzi. Anche gli animali sono gli stessi, due innocui asinelli che trascinano il pesante fardello. È la vendetta dell’uomo sulla fredda geometria, della fantasia improvvisata nei confronti della fanatica rigidità dei confini. La piccola rivincita di periferie separate l’un l’altra dalle decisioni di lontani centri di potere, ma che tra di loro sono vicine nel condividere uno stile di vita. A tradire l’Ucraina però ci sono quelle costruzioni decrepite e abbandonate che spuntano ogni tanto all’orizzonte e che la vicina Ungheria ha da tempo demolito. È il marchio ancora indelebile di un passato sovietico che sopravvive sotto forma di grigi edifici decadenti in un paesaggio avvolto da un’atmosfera di cupo disordine.
Entrati in patria i miei compagni si dedicano alla prima lunga sosta dall’inizio del viaggio. Con tanto di pranzo. Elena e Igor mi offrono del pane in cassetta ripieno di insaccati e maionese con pomodori tagliati a fette. L’atmosfera è ora più rilassata, gli ucraini sentono l’aria di casa e il banchetto improvvisato nell’area di sosta è un rito di passaggio. Non una semplice fermata bensì un ritorno alle origini. Serve a ricordare un legame ritrovato, rinsalda un patto ancestrale con le proprie radici, affievolisce lo sradicamento culturale che si prova con l’esperienza della migrazione. Il tutto attraverso il cibo, vale a dire con ciò che meglio esprime il legame con la terra natia. Vidi lo stesso qualche anno fa mentre viaggiavo su una marshrutka – i minibus utilizzati un po’ ovunque nell’ex URSS – con degli armeni del Karaback diretto da Yerevan a Stepanakert. Passato il confine tra l’Armenia e l’autoproclamato stato del Caucaso Meridionale, una donna che viaggiava insieme alla figlia festeggiò il superamento del valico con tanto di formaggio di capra e pane lavash che anche in quel caso non potei rifiutare. Gli ucraini con cui viaggio oggi riescono solo a nascondere meglio le proprie emozioni rispetto alle due esuberanti armene che incontrai su quel convoglio.
“I Carpazi!”, dice Andrei voltandosi verso di me quando, di nuovo in strada, vediamo all’orizzonte la sagoma scura dei primi contrafforti della grande catena montuosa dell’Europa Centrale. I suoi crinali irregolari disegnano in cielo tanti segmenti rettilinei che sembrano tracciati con un righello. L’ampio semicerchio montuoso che marchia la geografia fisica di questo tratto d’Europa lambisce con le ultime propaggini meridionali il territorio ucraino, disegnando un anfiteatro a forma di gomito rivolto a occidente. Quando ci infiliamo dentro attraversandoli, la strada si trasforma in una lingua d’asfalto tutta curve e in salita che si insinua tra i versanti montuosi denudati dal disboscamento. Nelle conche vallive compaiono talvolta le ombre di fantasmi di cemento sui quali sta calando l’ombra della sera. In Ucraina già alle tre del pomeriggio inizia a fare buio. “Di solito alle cinque siamo già a Chernivtsi, oggi arriveremo molto tardi”, mi dice Elena con un tono di voce che manifesta la solita indistruttibile pazienza. Le gambe e la schiena iniziano a farmi male, la stanchezza anche mentale per un viaggio estenuante inizia a farsi sentire. Gli altri componenti dell’auto invece sembrano impassibili, come fossero dotati di straordinarie doti di resilienza.
“Zakarpatia Oblast!”, urla Igor. I due davanti si sono improvvisamente trasformati nelle mie guide turistiche e non perdono occasione per informarmi delle aree che attraversiamo. La Transcarpazia, la “terra tra i Carpazi” dalle tante etnie e dai confini semoventi che nel secolo scorso ha cambiato bandiera, suo malgrado, per ben cinque volte, passando sotto i domini rispettivamente di Austria-Ungheria, Cecoslovacchia, Ungheria, URSS e infine Ucraina. Durante la seconda guerra mondiale la Transcarpazia cadde sotto le grinfie incrociate di Hitler e Stalin divenendo uno dei fronti più sanguinari. Qui si giocò una spietata lotta per il potere e a farne le spese è stata quella variegata galassia di minoranze che abitava tra queste montagne, colpevoli per il semplice fatto di essere diversi dalle etnie dominanti e di uscire dalle logiche ferree dello stato-nazione. Se molto si è scritto sulle vicende degli ebrei e dei rom, ai Lemki – un popolo dalle origini ancora incerte spazzato via dalle grandi tragedie del Novecento – sono invece dedicate poche pagine di storia. Noti anche con il nome di Ruteni, i Lemki erano una perla ortodossa incastonata in un diamante cattolico. “Un pezzo di Bisanzio ficcato tra la Polonia e la Slovacchia”, scrisse di loro la fotografa e documentarista Monika Bulaj che ha dedicato anni a studiarli. Fuori dagli schemi classici delle nazionalità, i Ruteni sono stati perseguitati da austriaci, polacchi, tedeschi, ucraini. Infine deportati da quegli stessi russi che a fasi alterne li avevano protetti ai tempi degli zar. Quando nel 1945 la Rutenia cecoslovacca venne inglobata nell’URSS, le purghe staliniane si scatenarono contro questa minoranza, costretta a lasciare gli amati rifugi tra le montagne, caricati sui vagoni e spediti nelle steppe.
Quando attraversiamo Mukacheve, uno dei centri più caratteristici della Transcarpazia rutena, per arrivare a Chernivtsi mancano ancora trecento chilometri in linea d’aria. Da queste parti però di autostrade non se ne parla, e per girare attorno ai Carpazi occorre fare una lunga sterzata da montagne russe verso nord fino a Ivano Frankivsk, per poi virare verso sud-est in direzione della Romania e della Bucovina. Ai lati delle strade si vede qualche venditore di miele. “Tutta autoproduzione”, mi dice Elena mentre li vediamo allineati ai margini della boscaglia. “Guarda i campi invece, sono tutti abbandonati. La gente preferisce scappare piuttosto che coltivare una terra con la quale nessuno riesce più a vivere. Certo, quando c’erano le cooperative di Stato la resa c’era e i prezzi erano più bassi. Però a quei tempi non si era liberi di spostarsi come oggi per lavorare”. Invidiabile la mia vicina, di ogni situazione cerca di far prevalere sempre e comunque il lato positivo. E Stalin? “Ricordo che a scuola ci parlarono della sua morte. Era cattivo, ha ammazzato tanta povera gente”.
Percorriamo bucoliche vallate in cui si intravedono i riflessi delle acque che scendono dalle montagne dove ancora oggi d’estate la gente si tuffa per rinfrescarsi. Sfilano sotto i nostri occhi anonimi villaggi bui dove gli unici bagliori di luce sono quelli delle case che viste da qui sembrano tanti puntini gialli abbarbicati sulle montagne. Al calar del sole le strade che si snodano tra i villaggi dei Carpazi restano completamente buie. Solo gli hotel e i ristoranti che incontriamo lungo il percorso sono illuminati dalle stonate luminarie natalizie. Il turismo con tutto il suo corredo di pratiche deleterie fortunatamente non sembra avere ancora intaccato quest’oasi di confine.
“L’vivs’ka oblast!”, annunciano entusiasti i due davanti. La regione prende il nome dal capoluogo. Lviv, la città dai tanti nomi. Lwow in polacco, Lvov in russo, Lemberg in tedesco. E ancora Lowenberg e il più comodo Leopoli. La regione storica in cui si trova è la Galizia, terra dal nobile passato asburgico e contesa successivamente tra polacchi e russi. In questo scenario di lotte tra potenze esterne, Lviv vide risorgere nel ’900 la coscienza nazionale ucraina in chiave antipolacca e antirussa facendo propria la lezione di Taras Shevchenko – il grande poeta nazionale ucraino vissuto nell’Ottocento – che già allora preconizzava la nascita di un’Ucraina indipendente. Nell’arco di pochi anni però – a partire dal 1939 con il patto Molotov-Ribbentrop di spartizione della Polonia per arrivare al 1945 al termine della seconda guerra mondiale – quel sogno sfumò e la Galizia entrò a far parte dell’URSS. Chissà se Vladimir Putin maledice oggi quegli anni, frutto della scelta di Stalin del dopo Yalta di ampliare il confine occidentale sovietico, soddisfando così la propria megalomane sete di potere. Oltre a essere stata una spina nel fianco per tutto il periodo sovietico – e prima ancora, durante la guerra, ad aver spalleggiato la Germania nazista in chiave antirussa – la Galizia è la regione protagonista lo scorso anno nella cacciata dell’ex presidente ucraino, il filorusso Viktor Yanukovich. A distanza di sessantanove anni e con tante sconfitte alle spalle, la Galizia sta oggi assaporando il dolce sapore della vendetta. E i galiziani, da reazionari anticomunisti di provincia, sono diventati il simbolo di un risveglio patriottico che ha portato al potere l’oligarca del cioccolato Petro Poroschenko. I cui interessi, guarda a caso, sono ben piantati nell’ovest del Paese.
Sfioriamo Stryi, da dove parte la diramazione per Ivano Frankivs’k. Stryi sarebbe un insignificante e piccolo borgo di passaggio se non fosse che la cittadina diede i natali a Stepan Bandera, colui che guidò il movimento nazionalista ucraino durante la seconda guerra mondiale. Una figura controversa quella di Bandera, eroe per alcuni e terrorista per altri. Quel che è certo è che fece vedere i sorci verdi all’URSS coordinando l’attività rivoluzionaria antisovietica dal suo esilio in Germania. Fino a che un agente del Kgb lo giustiziò nell’albergo in cui alloggiava a Monaco di Baviera. Galizia contro Crimea, Bandera contro Lenin, Poroschenko contro Yanukovich. Territori, nomi, simboli e miti che nascondono al loro interno divisioni e contapposizioni ideologiche tornate prepotentemente a galla negli ultimi tempi lacerando un Paese intero. L’Ucraina è un labirinto. Per attraversarla bisogna mettersi il cuore in pace e accettare di entrare nel misterioso rebus delle sue tante appartenenze.
Quando arriviamo a Ivano Frankivs’k – la città è chiamata così in onore del poeta e scrittore ucraino Ivan Franko – sono ormai le otto di sera. Un’ultima sosta caffè lungo la strada e un ultimo giro di vite all’instabile gomma di scorta, e si riparte sotto una fitta nevicata. Le strade diventano groviere piene zeppe di buche che obbligano il nostro autista a continue gimcane a destra e a sinistra. A Kolomyia ci infiliamo in una strada nascosta dove dagli altri due furgoni scendono le prime persone arrivate a destinazione con i relativi pacchi al seguito. “Ora cosa farai con le foto che hai scattato? Scriverai che portiamo via tanta merce dall’Italia? “, mi chiedono Elena e Mila di nuovo diffidenti quando rientro nella Mercedes dopo aver scattato qualche foto del primo arrivo. “Non scrivere dei pacchi, scrivi invece che l’Ucraina è povera”, è l’ultimo invito di Elena quando, raggiunta finalmente Chernivtsi a mezzanotte inoltrata, ci congediamo a vicenda con una cordiale stretta di mano. Saluto anche gli altri compagni di un’estenuante quanto avventurosa traversata di quaranta ore che ci ha portato a destinazione. Tutti loro hanno una voglia matta di fare ritorno alle proprie case e di riabbracciare i propri cari. Chi a Chernivtsi, chi a Boiani, chi nello sperduto villaggio di Rakidna.

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Arrivo a Kolomyia. In alto a destra, Alexandra Popova ed Elena Kuriliak.

 

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foto in evidenza da Volodymyr Shuvayev/AFP/Getty Images