Il caso paradossale di Zafar Bhatti: dopo l’ergastolo anche la condanna a morte

Verso la fine del settembre 2014, il pastore protestante Zafar Bhatti si trovò al centro di un piccolo “giallo” quando si diffuse la notizia (agenzia Fides) che era stato assassinato da un poliziotto. L’uomo, arrestato per blasfemia, si trovava in prigione. Con lui, sempre secondo la Fides, sarebbe stato ucciso anche Muhammad Asghar, in carcere per la stessa ragione. Bhatti era accusato di aver inviato sms blasfemi, ma per il suo avvocato, così come per i familiari, qualcuno gli aveva teso una trappola per incastrarlo.
All’epoca le accuse e le condanne per blasfemia in Pakistan stavano decollando. Se nel 2001 se ne registrava solo una, nel 2011 erano diventate almeno un’ottantina. In genere si trattava (e si tratta) di un pretesto. Si accusa per colpire qualcuno con cui si ha una questione privata del tutto estranea alla religione. Talvolta l’effetto è immediato e si arriva al vero e proprio linciaggio del presunto blasfemo.
All’epoca si contavano già una cinquantina di casi accertati. Tra questi un docente di studi islamici, Muhammad Shakil Auj di Karachi, e l’avvocato Rashid Rehman, entrambi musulmani. E comunque, in caso di arresto l’accusato può rimanere “in attesa di giudizio” per molti anni.
Poi era giunta la smentita: Zafar Bhatti era ancora a vivo, ma naturalmente restava dietro le sbarre. Nonostante l’inconsistenza delle accuse (in tribunale il fornitore dichiarava che il numero della carta SIM usata per inviare i messaggi incriminati non era registrato a nome di Bhatti ma di una donna musulmana, Ghazala Khan), il 3 maggio 2017 il pastore veniva condannato ai sensi degli articoli 295 a) e 295 c) del codice penale pachistano per aver “disonorato il profeta Maometto e sua madre”.

zafar bhatti condannato a morte
Zafar Bhatti, oltre alle violenze della polizia, è stato torturato in carcere dai prigionieri musulmani per obbligarlo a convertirsi.

Quindi vivo, ma all’ergastolo. O se preferite: all’ergastolo, ma comunque almeno in vita.
Invece stavolta pare proprio che ci siamo; ed è inutile sperare che l’agenzia Fides – sempre la stessa – nel ridare la brutta notizia abbia preso un’altra cantonata: la fonte è il tribunale distrettuale di Rawalpindi, che il 3 gennaio lo ha condannato a morte.
Ricordo che in passato Zafar Bhatti, 58 anni, aveva fondato la Jesus World Mission, un ente benefico di assistenza per le persone un difficoltà. Un “buono”, insomma. Quindi, in Pakistan come altrove, predestinato al ruolo di vittima.
Spero che la notizia fornisca l’occasione per un ripensamento a quei “turisti d’alta quota” che si recano (o recavano: grazie al virus pare un po’ meno, buona cosa per i leopardi delle nevi) tra le vette, possibilmente “inviolate” del Pakistan. Per poi magari, in caso di contrattempi, pretendere il pronto intervento degli elicotteri (in genere gestiti dai militari, vera classe dominante nel Paese).
Illudersi che alpinisti, sciatori estremi e altri scanzonati a tempo pieno si interroghino sulla politica del governo pachistano nei confronti delle popolazioni minorizzate e oppresse (come i beluci, in maggioranza sunniti ma anche sciiti, o gli hazara, sciiti) sarebbe troppo. Ma almeno in questi casi, cioè le persecuzioni nei confronti dei cristiani, dovrebbero pensarci su.
E magari “non limitarsi a questo”, come scriveva Bobby Sands, se pure in contesti diversi…
Ovviamente il discorso vale anche per qualche esponente politico che, con la scusa di andare a sciare, si era incontrato con militari (appunto), esponenti politici e soprattutto imprenditori pachistani. Presumibilmente per stipulare accordi e contratti (il Pakistan rimane uno dei maggiori acquirenti di armamenti prodotti in Italia).
Questo prima che il “nostro” si dedicasse a tempo pieno alle conferenze in Arabia Saudita (altro regime di tutto rispetto in materia di diritti umani).