L’11 febbraio 2013 Benedetto XVI fermò le lancette del suo pontificato. Durante un ordinario concistoro cardinalizio comunicò di rinunciare al ministero petrino per “la progressiva e ineluttabile azione dell’età”.
In Vaticano cominciavano le operazioni per il conclave, e l’interesse per i candidati mi fece scorrere la lista dei cardinali in ordine alfabetico. Lessi per sommi capi le biografie dei porporati su Wikipedia, ma dopo i primi nomi lasciai perdere: la ricerca mi sembrava lunga e dispersiva. L’interruzione non m’impedì di arrivare alla lettera B e d’imbattermi nel profilo del cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio. Egli veniva descritto in sintonia con il generale Juan Domingo Perón (1895-1974), presidente argentino dal 1946-1955 e dal 1973-1974. L’elezione di Bergoglio, nato il 17 dicembre 1936 a Buenos Aires, faceva sì che la Chiesa per la prima volta dopo 1282 anni (il siriano Gregorio III fu eletto papa nel 731) uscisse dall’eurocentrismo. Dopo l’Habemus Papam del cardinale Tauran, l’eletto si affacciò dalla loggia della Basilica di San Pietro, e io tornai all’enciclopedia on line, ma mi accorsi con stupore che una “manina” aveva corretto il profilo dal quale era stato omesso il passato filoperonista del prelato argentino.
Lo stesso 13 marzo 2013, il sito della “Repubblica” – non ancora in luna di miele con Francesco – si precipitava a riportare che, durante la dittatura, il prelato era stato criticato per i suoi silenzi rispetto al golpe dei militari del 1976. In Argentina il giornale “Clarín” evidenziò la sintonia di Bergoglio con la Guardia de Hierro, e a Buenos Aires apparvero manifesti che ricordavano il passato filoperonista del neoeletto papa. Lo storico Osvaldo Bayer disse ai giornali: “Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato pontefice”. Orlando Yorio, uno dei gesuiti di sinistra catturato e torturato dai servizi segreti militari argentini, raccontò: “Bergoglio non ci avvisò mai del pericolo che correvamo”. In pratica lo si accusava di non aver protetto due gesuiti che lavoravano in una baraccopoli di Buenos Aires, rapiti dai servizi segreti argentini.

bergoglio prima di francesco peronismo
Bergoglio, ancora arcivescovo di Buenos Aires.

Pensai di valutare successivamente le “voci” che circolavano su Bergoglio, ma venni a conoscenza del libro postumo La riscossa populista, ed. Controcorrente, del giornalista Emidio Novi, morto nell’agosto 2018 in un incidente, nel quale si trattavano i legami tra Bergoglio e il peronismo. Secondo Novi, colui che oggi è visto come un’icona liberal sarebbe stato in passato un conservatore e oppositore della teologia della liberazione. La deriva progressista di Francesco sarebbe l’espressione di un passato da rimuovere. Per questo egli non perderebbe occasione di assecondare il politicamente corretto, le lobby dell’accoglienza e l’immigrazionismo che gli fanno parlare impropriamente di Gesù bambino, Madonna e San Giuseppe come di una famiglia d’immigrati clandestini in fuga.
La sua linea di pensiero mescola terzomondismo e internazionalismo attraverso un globalismo che vorrebbe l’uomo senza radici e senza patria. In un articolo del 19 giugno 2019 sull’“Osservatore Romano” dal titolo Oltre i confini delle appartenenze etniche e religiose, egli scriveva: “L’apertura della cultura e della comunità alla novità salvifica di Gesù Cristo richiede il superamento di ogni indebita introversione etnica. Anche oggi la Chiesa continua ad avere bisogno di uomini e donne che, in virtù del loro Battesimo, rispondono generosamente alla chiamata ad uscire dalla propria casa, dalla propria famiglia, dalla propria patria, dalla propria lingua, dalla propria Chiesa locale. […] Senza il Dio di Gesù Cristo, ogni differenza si riduce ad infernale minaccia rendendo impossibile qualsiasi fraterna accoglienza e unità del genere umano”.
Le diversità etniche e religiose sarebbero dunque un’infernale minaccia… Fino a oggi avevamo appreso dalla Bibbia che l’uomo si divide tra il desiderio di Dio e l’amore per la terra natia (creata da Dio). San Giovanni Paolo II, quando visitava una nazione, ne baciava la terra, segno di devozione verso un luogo unico al mondo.

Chiesa & Dittatura

Tornando a noi, quanto scritto sul “Clarín” contestualmente all’elezione di papa Francesco si sposa con quanto scritto da Emidio Novi. Secondo queste tesi, negli anni ‘70 il futuro papa contrastò i gesuiti della teologia della liberazione e sarebbe stato in contiguità con la Guardia de Hierro, i nazionalisti cattolici anticomunisti di Alejandro Gallego Álvarez. Tale organizzazione fu associata con la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu, movimento rumeno degli anni ‘30, antisemita e filonazista, che ebbe un seguito anche nell’Argentina di Perón. Composta da oltre 3500 militari e da 15.000 militanti di estrema destra, si opponeva alla sinistra armata, curava la formazione culturale dei militanti e aiutava i poveri. La liaison tra Bergoglio a la Guardia de Hierro, secondo l’ex dirigente peronista Julio Bárbaro, si sarebbe tradotta in un mero sostegno spirituale da parte del prelato.
Marcantonio Colonna, pseudomino dello storico inglese Henry Sire, autore del libro Il Papa Dittatore (giudicato irriverente dai “bergogliosi”), illustra il retroterra del pensiero del pontefice: “La ‘teologia della liberazione’ era un movimento d’intellettuali delle classi superiori […] Per costoro Bergoglio non nutriva alcuna simpatia […] seguì Perón che dialogava con il gruppo sociale dei lavoratori e la classe medio-bassa […] Non voleva che fossero reclutati dai guerriglieri di estrema sinistra, cosa che avvenne grazie a qualche suo confratello”.
La presunta collaborazione di Bergoglio con la giunta militare fu un tema affrontato dall’editorialista politico Horacio Verbitsky del quotidiano argentino “Pagina/12”, dopo l’elezione di Bergoglio a pontefice, nel libro L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina. A scanso di equivoci e per amore di giustizia, è bene premettere che Verbitsky un tempo fece parte dei Montoneros, movimento nato nel 1968, dal nome del movimento contadino del XIX secolo, guidato dai proprietari terrieri che difendevano le tradizionali produzioni agricole dal capitalismo. La composizione era eterogenea: cattolici, marxisti, contadini, cittadini piccolo borghesi che non avevano elaborato un vero piano politico. Nati nel seno dell’Azione Cattolica, erano dediti ad azioni di guerriglia contro i militari. A causa dei legami tra la Chiesa e il governo abbandonarono l’Azione Cattolica e si diedero alla latitanza.
Nel 1969 vennero spente nel sangue le proteste studentesche e operaie a Rosario e a Cordoba; l’anno dopo i Montoneros uccisero il generale Pedro Aramburu, ex capo dello Stato e intransigente antiperonista. Nel 1973 le elezioni presidenziali vennero vinte dai peronisti e Perón rientrò in patria dopo un esilio quasi ventennale. Nel settembre del 1973 fu eletto per la terza volta presidente della repubblica con il 60% dei voti.
Nel frattempo stava maturando la frattura tra il generale e i Montoneros; la scissione avvenne il 1° maggio 1974, durante il discorso ai lavoratori. Perón li irrise ed essi abbandonarono la piazza, tornando alla latitanza. La situazione precipitò nel luglio 1974, dopo la morte di Perón. Il potere passò alla sua terza moglie, “Isabelita”, incapace di contenere le faide all’interno del peronismo. I Montoneros, organizzati militarmente, riaprirono le ostilità con l’appoggio di studenti e operai,  cominciando a uccidere molti ufficiali dell’esercito. Il regime reagì tramite gli “squadroni della morte”, i quali rapirono e assassinarono migliaia di dissidenti.
La grave tensione sociale portò nel marzo 1976 al colpo di stato militare del generale Videla. In risposta, i Montoneros lanciarono una campagna di attentati, ma nel 1977 i militari ebbero la meglio con la controguerriglia, anche a causa dell’isolamento dei Montoneros e della stanchezza popolare. Alla fine del 1978, la repressione mediante rapimenti, torture e uccisioni anche di semplici sospettati, neutralizzò oltre duemila guerriglieri. Tutti i leader dei Montoneros ormai erano morti, o in carcere, o latitanti all’estero. Nel 1979 i guerriglieri organizzarono ancora una controffensiva, affinché la popolazione si ribellasse, ma il tentativo naufragò ponendo fine all’esperienza militare.
Nel libro Verbistky omise però di sottolineare che, se gli eccessi furono attribuiti alla giunta militare, anche i Montoneros violarono i diritti umani. A trent’anni dall’inizio della dittatura del 1976 e dopo aver raccolto nel suo precedente libro Il volo (Feltrinelli) la scioccante confessione dell’ex militare Adolfo Scilingo (agli arresti in Spagna), che eliminava gli oppositori politici lanciandoli in mare dagli aerei, Verbitsky nel 2006 pubblicò un’inchiesta durata 15 anni con le testimonianze dei familiari dei desaparecidos, dei sopravvissuti e dei militari coinvolti. Il titolo dell’opera, L’isola del silenzio, si riferisce sia al nome del luogo in cui si svolge la vicenda, sia alla condotta della Chiesa cattolica che, consapevole delle violazioni dei diritti umani, non fece sentire la minima voce di denuncia. Le testimonianze sono interviste realizzate dall’autore o ricavate dai verbali dei processi giudiziari svoltisi dopo la fine della dittatura.

L’isola del silenzio

A Buenos Aires, nel settembre del 1979, terzo anno dal golpe del generale Videla che provocò la scomparsa e la morte di migliaia di persone avverse al regime, l’opinione pubblica internazionale premeva affinché fosse effettuata un’ispezione da parte della Commissione Interamericana per i Diritti Umani. In vista di tale ispezione, la giunta smantellò il centro di detenzione clandestina degli oppositori politici, e i prigionieri furono trasferiti nottetempo dalla ESMA (Escuela Superior de Mecánica de la Armada) a un’isola di proprietà della Chiesa argentina, usata come luogo di riposo per seminaristi e cardinali. Nell’isola, detta El Silencio, i detenuti vennero sottoposti a un trattamento di “disintossicazione e rieducazione politica”.
In questo luogo appartato, la Chiesa da una parte ascoltava i familiari dei desaparecidos alla ricerca di notizie sui propri cari, dall’altra sosteneva i militari ritenendoli moralmente “giustificati”. Dalle testimonianze risulta che la Chiesa era al corrente delle attività clandestine, torture comprese. Con i militari collaborarono i cardinali Pio Laghi, Caggiano, Aramburu e Primatesta, l’arcivescovo Tortolo e i suoi vicari Emilio Graselli e Victorio Bonamín, e l’allora don Bergoglio. Per Verbistky la dittatura e la Chiesa argentina vissero un rapporto d’interdipendenza: la prima voleva essere legittimata e la seconda voleva garantirsi il monopolio morale e difendere i propri interessi materiali, prendendo le distanze dai sacerdoti della Teologia della Liberazione.
Qui si inserirebbe la vicenda dei gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics. Nel febbraio del 1976, prima del colpo di stato militare, Bergoglio chiese ai due di abbandonare le baraccopoli e di andarsene. Rifiutarono, e ciò comportò l’alienazione dall’Ordine e la proibizione di dire Messa in pubblico. Segnalati come sovversivi, vennero poi rapiti e torturati presso la ESMA. Verbistky accusò Bergoglio di averli consegnati ai militari. L’accusa infamante fu da quest’ultimo confutata nel libro El jesuita, poi diventato El Papa Francisco: conversaciones con Jorge Bergoglio. Egli negò ogni responsabilità in merito all’arresto dei due sacerdoti, affermando di aver aiutato un certo numero di persone a fuggire dal regime militare. Il testo, scritto dai giornalisti Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, è l’unica biografia “autorizzata” pubblicata dopo la sua elezione. In essa si dice che “Bergoglio non fu complice della dittatura, le circostanze del Paese erano tali per cui la maggioranza del popolo fu vittima della stessa”. Sui suoi confratelli Yorio e Jalics sostenne di aver agito al solo fine di proteggerli.
I due gesuiti furono liberati dopo 5 mesi di torture. Orlando Yorio morì nel 2000 in Uruguay per cause naturali, Franz Jalics riparò in Germania rifugiandosi nella meditazione e nella preghiera per superare il trauma. Solo anni dopo si recò a Buenos Aires, su invito di Bergoglio che intanto era stato nominato arcivescovo della diocesi. Non si conoscono i contenuti del confronto; sappiamo che affrontarono la questione e che Jalics disse: “Dopo quel colloquio abbiamo celebrato insieme una Messa pubblica e ci siamo abbracciati solennemente”. Egli non parlò più della vicenda dopo l’elezione di Francesco, mentre il portavoce dei gesuiti tedeschi, Thomas Busch, disse: “È in pace con Bergoglio”.

bergoglio prima di francesco peronismo

Emanazione del caos peronista

La sintonia del futuro papa con la Guardia di Ferro si riferisce a un’epoca in cui quasi tutta la Chiesa argentina cercava nella stessa galassia peronista interlocutori e alternative alle dittature militari. Ancor oggi, come papa, egli è il riflesso del suo passato. Il motivo delle aspre critiche che spesso riceve è dovuto al fatto che in lui coesistono due nature: il misericordismo e l’essere implacabile contro i suoi oppositori. Egli è l’emanazione del peronismo, complesso e soggetto a diverse interpretazioni. Di fatto il peronismo delle origini fu un miscuglio di stilemi tratti dal fascismo, in seguito contiguo a teorie socialiste e della sinistra anti-capitalista, con una vocazione quasi mistica per i diseredati. Molti peronisti cattolici troveranno una felice consonanza tra la difesa delle classi oppresse e la dottrina sociale della Chiesa. Non bisogna però dimenticare che nel 1955 Perón fu addirittura scomunicato perché avrebbe voluto una Chiesa di Stato, controllata dal potere. Bergoglio, animale politico, divenuto pontefice ne capovolgerà la cronologia e si rivolgerà alle “pecore” non come un pastore ma come organizzatore politico, passando con disinvoltura dalla destra alla sinistra.
Bergoglio non ebbe mai velleità teologiche. Nel 1986 andò in Germania per il dottorato presso la Philosophisch-Theologische Hochschule Sankt Georgen, di Francoforte. Scelse come argomento della tesi il teologo italo-tedesco Romano Guardini, ma la presenza in Germania s’interruppe presto e non conseguì il titolo.
Un eventuale giudizio su di lui è contrastante come la sua personalità. Poco si sa, per esempio, dei sei anni come superiore provinciale dei gesuiti argentini, tra il 1973 e il 1979, e dei motivi del suo trasferimento nella periferica residenza gesuita di Córdoba come semplice direttore spirituale. Del suo passato argentino ai tempi della dittatura militare egli preferisce non parlare, sicché resteranno incertezze sul “Bergoglio prima di Francesco”. Resta un dilemma il fatto che egli, a tutt’oggi, non sia mai andato in visita nel suo Paese. Molti argentini affermano che, se tornasse, forse non troverebbe l’entusiasmo che accolse Giovanni Paolo II nel primo viaggio in Polonia, proprio per i suoi trascorsi.
A mio modesto avviso, il premio Nobel per la Pace del 1980, Adolfo Pérez Esquivel, riassunse bene il comportamento di Bergoglio: “L’allora provinciale della Compagnia di Gesù contribuì ad aiutare i perseguitati e operò affinché i sacerdoti del suo ordine sequestrati fossero rilasciati. Tuttavia, non partecipò mai alla lotta in difesa dei diritti umani contro la dittatura militare”. Lo fecero alcuni vescovi come Jaime de Nevares, Miguel Hesayne, Jorge Novak, Antonio Devoto, Vicente Zazpe. L’episcopato argentino ha tuttora un conto in sospeso per far emergere la verità e favorire la giustizia, riconoscendo le azioni del suo passato.
Dal 2005 al 2011, Bergoglio fu messo a capo della Conferenza Episcopale Argentina e raggiunta l’età di 75 anni avrebbe dovuto dimettersi da arcivescovo. Benedetto XVI gli chiese di continuare ancora per un po’, visto che il cardinale pareva prossimo al ritiro in una casa di riposo per il clero. Le speranze del Conclave del 2005, dove il suo nome aveva fatto capolino, stavano esaurendosi. Benedetto seguiva una dottrina che Bergoglio aveva apertamente scartato.
Nondimeno l’“animale politico” argentino aveva in serbo il colpo di scena della vita: far salire sul Trono di Pietro un gesuita, e ci riuscì davvero, a scorno di ogni autorevole ammonimento (papale) precedente. Nel 1978, infatti, il neoeletto Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, aveva preparato una lettera ai Gesuiti da leggere il 30 settembre davanti ai provinciali e al preposito generale dell’Ordine, padre Pedro Arrupe. Due giorni prima però, il 28 settembre, era morto improvvisamente nel sonno, in circostanze un po’ sospette. Nella lettera c’era scritto: “Non permettete che le vostre dottrine e pubblicazioni provochino confusione e disorientamento fra i credenti”. Esattamente quanto accadrà quando Bergoglio – gesuita – fu eletto pontefice malgrado gli statuti della Compagnia. Albino Luciani l’aveva in qualche modo profetizzato.