foto di Stefano Rosati

Corrono gli anni settanta quando la Union Carbide, leader mondiale nella produzione di pesticidi per l’agricoltura, decide di aprire una filiale indiana. Con un mercato tanto vasto da sfruttare, sembra che la presenza diretta sul territorio sia più proficua, così in tutta fretta apre i battenti quella che i miserandi indiani definiscono “la bella fabbrica”. Non hanno mai visto nulla di simile, e la accolgono come una splendida occasione di sopravvivenza e di riscatto.
La scelta cade su un’area ai margini dell’antica città di Bhopal, capitale del Madhya Pradesh, a 500 metri di altitudine, con un milione di abitanti (oggi quasi un milione e mezzo) a maggioranza musulmana. La città conserva le vestigia di una civiltà evoluta governata per un secolo da quattro sovrane musulmane illuminate, le Begun: discendenti del tollerante e progressista Impero Moghul, avevano imposto l’istruzione gratuita, l’emancipazione delle donne e l’aggregazione del popolo attraverso le arti.


Con la connivenza delle autorità locali e di alte sfere dell’amministrazione statale, arriva il permesso di impiantare la fabbrica nel luogo prescelto, una vasta area soprannominata “spianata nera” ad alta densità abitativa. Il quartiere periferico si trova in prossimità della ferrovia e adiacente a uno slum, l’Orya Basti, una delle baraccopoli in cui milioni di indiani vivono sotto la soglia della povertà eppure, nonostante il degrado, con incomparabile dignità.
La compagnia, che all’insegna della losanga bianca e blu ha fatto della sicurezza il proprio motto, si dimostra subito generosa e tollerante nei confronti dei propri dipendenti. Il prodotto inventato nei laboratori di ricerca americani si chiama Sevin e, a quanto dicono gli scienziati che vi hanno lavorato a lungo, è un vero gioiello della chimica moderna che può essere anche spruzzato sugli abiti e persino ingerito senza provocare danni, destinato quindi a soppiantare il pericoloso ddt.
Nell’ambiziosa quanto faraonica progettazione, gli amministratori prevedono un ciclo continuo in modo da ridurre lo stoccaggio di quantità di sostanze chimiche ad alto rischio di tossicità, tra le quali il letale isocianato di metile (o MIC).
L’impianto non raggiungerà mai la piena capacità produttiva per il quale è stato progettato – cinquemila tonnellate di Sevin all’anno – poiché i contadini indiani, in continua lotta con siccità e inondazioni, non hanno risorse sufficienti per far fronte anche all’attacco dei parassiti. Il gigantesco mercato del sub-continente indiano non riesce ad assorbire le quantità di prodotto stimata dalla società statunitense, sicché i magazzini e soprattutto le cisterne della fabbrica si riempiono all’inverosimile, o meglio alla follia.
All’inizio degli anni ottanta vengono progressivamente abbandonati tutti i sistemi di controllo, fino alla chiusura definitiva dello stabilimento. I pannelli di monitoraggio e le tubature corrose non sono sostituiti, l’impianto di refrigerazione delle vasche interrate che contengono il MIC viene disattivato, malgrado gli avvertimenti che il liquido deve essere conservato a una temperatura costante attorno ai zero gradi; e infine viene spenta la fiamma pilota che arde in cima alla torre di combustione, destinata a bruciare i gas che dovessero accidentalmente fuoruscire. Restano anche ingenti quantità di sostanze chimiche stoccate nei magazzini e nelle cisterne, poiché è opinione della società che uno stabilimento non funzionante non possa provocare danni o nuocere a nessuno.
Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, durante il lavaggio di alcune tubature di scarico da parte dei pochi lavoratori destinati a sorvegliare lo stabilimento e a un minimo di manutenzione degli impianti, l’acqua entra in contatto con il MIC sprigionando una devastante reazione chimica a catena.
Gli operai, inesperti e senza addestramento poiché provenienti da un altro stabilimento, non comprendono la gravità della situazione, che si manifesta con la diffusione nell’aria di un pestilenziale odore di cavolo lesso.
La corrosione dei giunti e delle tubature permette all’acqua, che non riesce a defluire dai tubi di scarico, di penetrare nella vasca più grande dove giacciono circa quaranta tonnellate di MIC. A quel punto qualsiasi provvedimento è vano: si sprigiona una gigantesca nube tossica che viene vomitata fuori dalla fabbrica.
I venti inizialmente spingono la nube sulla baraccopoli, provocando la morte pressoché istantanea di migliaia di persone. Non viene risparmiata neppure la vicina stazione, affollatissima, dove gli addetti allo scambio ferroviario tentano invano dapprima di fermare i treni in arrivo, poi di far proseguire i vagoni pieni di gente fuori dalla nube tossica.
Gli effetti dell’aria avvelenata sono micidiali e non danno scampo: difficoltà respiratoria, cecità completa, morte immediata. Un’apocalisse di convulsioni e soffocamenti nel sonno o nella fuga. Le donne perdono i figli ancora in grembo durante la folle corsa per sfuggire, inutilmente, all’ecatombe.
La Union Carbide asserì che quella notte ci furono 3800 decessi, i sopravvissuti stimarono 8000 morti sulla base delle testimonianze raccolte, gli operatori comunali che raccolsero i corpi raccontarono di 15000 cadaveri seppelliti in fosse comuni o bruciati su pire di massa. In verità nessuno potrà mai dire quante persone abbiano perso la vita nel disastro.

Bhopal oggi

Sbarco a Bhopal una mattina presto di novembre. Il monsone è ormai passato e un autista di risciò mi spiega, additando un corteo di donne in sari sgargianti, che questo è un periodo propizio per i matrimoni.
L’India è innanzi tutto un luogo fatto di umanità dove si incontrano persone a qualsiasi ora del giorno e della notte, e questa città non fa eccezione. Eppure c’è un attimo in cui ogni abitato sembra svegliarsi e animarsi, il momento in cui aprono le botteghe e la gente esce per andare a lavorare. Quello, in India, è il caos portato all’esasperazione, eccessivo ed estremo come ogni suo aspetto. Ma adesso è ancora presto, il sole ha appena iniziato a riscaldare l’aria e dorare le case, ed esco dal mio albergo per immettermi nella strada polverosa e iniziare la visita della città. Più tardi, ripassando da quella stessa strada, troverò un traffico frenetico.
Solo i libri di storia sembrano conservare gli splendori di questa città. L’inquinamento, per altro tipico di tanti altri centri dell’India, aleggia come un monumento all’incidente che l’ha sconvolta trent’anni fa.
Il caotico quartiere musulmano non riserva niente di diverso con le sue anonime e fatiscenti moschee. Nel mercato si trovano le solite macellerie che espongono le carni all’aperto, affiancate da negozi di stoviglie in rame e sartorie dove si cuciono sari dietro ridicoli cartelloni pubblicitari di abbigliamento all’occidentale.
I motorini si districano tra i pedoni e i carretti dei venditori ambulanti di frutta a noi sconosciuta. Templi induisti a ogni angolo, dove si trova sempre qualcuno a fare un’offerta e pregare chissà quale divinità. E anche qui capita che qualcuno ti fermi per farsi fotografare, un sorriso donato senza chiedere niente in cambio, lo scatto di un attimo destinato a disperdersi come il fiore lasciato alla corrente del fiume ogni mattina per il rituale di preghiere sui ghat, le scalinate che portano all’acqua. Anche questo è India, dove tutto ha valore ma niente è essenziale.
Altrettanto senza pretese è il mio desiderio di cercare i luoghi della memoria che hanno reso Bhopal tristemente celebre nel mondo, ma è una testimonianza che trovo, piuttosto, scolpita nell’umanità che ancora porta addosso i segni della catastrofe. Non è solo un infausto ricordo ad aleggiare in città, bensì una realtà tangibile nella sofferenza delle persone.
Come prima tappa raggiungo la stazione ferroviaria, che nel mio immaginario rappresenta l’estremo tentativo di salvataggio di vite umane in quella notte del 1984. Guardando lungo i binari, mi figuro l’eroico capostazione che da solo cerca di fermare un treno in arrivo correndogli incontro con una lanterna in mano. Ma ecco irrompere la realtà sferragliante di un convoglio che arriva in stazione, trainato da una lunga motrice d’altri tempi che dà un senso di robustezza e potenza. La motrice è adorna di lustrini e ghirlande di paillettes, una simpatica stranezza che si può trovare soltanto in India.
Oggi la stazione di Bhopal è indubbiamente stata modernizzata, ha persino una sopraelevata pedonale che conduce ai vari binari. Ma questa è la terra dei contrasti, dove il moderno si fonde con l’antico, dove il nuovo nasce già vecchio, dove l’innovazione non cancella la storia: così sulle banchine si trovano intere famiglie con enormi bagagli in attesa dei treni, e sui marciapiedi si vedono disperati dormire avvolti in una semplice coperta, ossia tutto ciò che possiedono.
In fondo alla stazione, però, si erge ancora la palazzina che ospitò decine di persone in cerca di riparo dalla nube tossica che quella notte stava abbracciando mortalmente Bhopal. E prima che due solerti poliziotti, i kalashnikov imbracciati con fierezza, “disarmino” la mia macchina fotografica intimandomi di allontanarmi, riesco a scattare una foto dell’edificio che sembra dimenticato in quell’angolo di stazione.

La clinica

In questi ultimi trent’anni, Bhopal è stata un proliferare di cliniche: il bisogno aguzza l’ingegno, o meglio la disperazione muove l’imprenditoria. Lo studio di una commissione medica internazionale ha stimato che ci sono più posti letto ospedalieri pro capite a Bhopal che in ogni altra città del mondo. Eppure c’è una clinica, nata all’alba di questo trentennio, che cura gratuitamente i sopravvissuti all’incidente e chi ancora patisce i postumi della contaminazione: i figli dei figli che nascono già malati, deformi o con tumori. Le malattie, qui, si tramandano come una maledetta eredità cromosomica.
Non è facile trovare la Sambhavna Clinic nel dedalo di stradine polverose e sconnesse del centro città. Il nome è una parola composta in sanscrito e hindi che significa possibilità e compassione. La clinica si è trasferita otto anni fa in questa nuova sede, un appezzamento di terreno di circa un ettaro proprio nel cuore della zona maggiormente colpita dai gas. Circondata da alberi e piante rampicanti che le danno l’aspetto di un’oasi di pace, rappresenta una tranquilla realtà ecosostenibile dove le vittime della nube vengono accolte e curate dagli oltre cinquanta membri del personale. Molti dipendenti sono a loro volta sopravvissuti che mettono al servizio degli altri sia la loro tragica esperienza, sia la formazione professionale ricevuta dei medici che negli anni hanno prestato la loro opera.
Sul registro che firmo all’ingresso, risulta che non sono l’unico europeo capitato qui negli ultimi giorni: un sollievo pensare che, per quanto distante, qualcuno non ha dimenticato la spaventosa tragedia di Bhopal. Una ragazza attende di entrare, probabilmente per un consulto, come immagino dala sua evidente apprensione. La guardia mi saluta con un sorriso e, dopo aver chiesto il motivo della visita, mi conduce nell’ufficio di una funzionaria, la signora Shahanaj. La signora, gentilissima, mi dà il permesso di visitare e fotografare la clinica; e, in un inglese impeccabile, mi concede anche una breve conversazione.
Apprendo così che nella struttura si coltivano novanta qualità di piante necessarie per produrre farmaci ayurvedici. La tradizionale medicina ayurvedica, utilizzata fin dalla protostoria e normalmente praticata in India, al punto di essere parte integrante della sanità pubblica, viene affiancata dalla medicina occidentale soprattutto quando si richiedono interventi ginecologici e psichiatrici.
Il tempo di conversare sta scadendo e Shahanaj mi invita a seguirla nell’infermeria, con una determinazione vestita da un sorriso smagliante. È un comportamento squisitamente indiano, che abbina la forza di una decisione a una smisurata dolcezza nell’esprimerla; per certi aspetti disarmante per noi occidentali, ma apprezzabile nel contenuto quanto affascinante nella forma. Shahanaj non ha nulla da nascondere, soltanto un sacco di cose da fare… e per fortuna, penso, che c’è ancora qualcuno che si impegna. Era importante permettermi di conoscere, e quindi divulgare, la triste realtà di quest’angolo di mondo, ma adesso tocca alle persone che, in una lunga fila, attendono pazientemente i farmaci per curarsi.
Le due stanze dell’infermeria traboccano di scatole di medicinali e barattoli di polveri ayurvediche, e Shahanaj maneggia tutto con padronanza. Mi spiega che anche la loro distribuzione fa parte del suo lavoro, e la mia impressione è che lo svolga con leggiadra disinvoltura avvolta nel suo semplice sari. Le persone che si succedono dietro il vetro dello sportello portano sul volto i segni della sofferenza, mentre attendono muti che Shahanaj porga loro una scatola o una boccetta, decisa nel gesto quanto generosa nel donare sorrisi, quasi siano parte della cura.
Neppure il dottor Sarangi, uno dei fondatori della clinica, ha molto tempo da dedicarmi, eppure ha voluto conoscermi. Anche lui è impegnatissimo con le visite e mi riceve in una semplice stanza in cui alcuni pazienti attendono di parlargli.
Sembra che sappia già tutto delle mie intenzioni. Telepatia? O più probabilmente esperienza dei precedenti visitatori occidentali? Fatto sta che senza chiedermi nulla si siede a un vecchio computer e scrive una lettera di raccomandazione da presentare all’ufficio di polizia che rilascia i visti di ingresso al sito della Union Carbide, oggi terreno di proprietà governativa sotto il controllo della pubblica sicurezza. Mi congedo stringendogli la mano e poi posando la mia sul cuore, come usa in India per ringrazire.

Nella pancia del “mostro”

L’incontro con la burocrazia e l’indolenza indiana è ben più difficoltoso, rispetto ai sorrisi bonari concessi nella clinica. Fermamente deciso a ottenere il visto di ingresso al sito della Union Carbide, adotto il metodo indiano della non violenza con gli stessi indiani. Non accetto il rifiuto opposto così, senza alcuna giustificazione, e continuo – irremovibile ma sempre col sorriso sulle labbra – a perorare la mia causa davanti ai tre funzionari e all’attendente, un vecchietto sdentato e scalzo che si occupa delle fotocopie. Alla fine la spunto, ottengo il lasciapassare per la visita alla fabbrica. Prima di uscire, mi precisano che il documento contiene anche il pieno scarico di responsabilità per il governo indiano. Peccato sia scritto in hindi, quindi illeggibile per me che pure l’ho firmato (scoprirò più tardi, grazie alla traduzione di un amico indiano, che non avrei potuto fare fotografie all’interno del complesso).
Entrando in quel vecchio muro di recinzione, suggestione o meno che sia, provo un certo timore nel calpestare il terreno. Percorro il lungo viale con il fiato sospeso, seguendo la strada che porta ai resti della torre ancora visibile a distanza. Dopo alcune curve, mi appare il grande mostro: non rimane che lo scheletro di tubi arrugginiti, con le vasche di stoccaggio dei mortali liquidi chimici. La boscaglia che avanza sembra inghiottire i resti della fabbrica, quasi volesse cancellare le tracce dell’immane disastro.
Il poliziotto che mi segue provvede a ricordarmi i rischi che si corrono entrando nel complesso e che è assolutamente proibito salire sulle scale superstiti, quindi si dilegua con il cellulare in mano. Lo rivedrò solo più tardi, all’uscita, per offrirmi – naturalmente dietro pagamento – un passaggio con il motorino che rifiuterò cortesemente.
Il silenzio regna sovrano. Percorrendo i resti degli edifici, si ode soltanto il rumore dei passi che sbriciolano le macerie crollate e il crepitio della ruggine che di tanto in tanto nevica sui capelli. Non c’è molto da scoprire, è tutto qui ciò che resta del gioiello di ingegneria dell’industria chimica. Inutile anche chiedersi a cosa servisse quel dedalo di tubature, il fascino adesso è dato soltanto dalla luce del tramonto che infuoca i toni bruniti del metallo ossidato.
Mentre mi incammino verso l’uscita, mi tornano in mente certe storie legate al sito che ho letto recentemente in un articolo. Bambini che, intrufolatisi nei buchi della recinzione, sono stati visti giocare tra le macerie, disperati in cerca di materiale da riciclare o per costruirsi baracche, persino una donna che pascolava il gregge di capre, perché evidentemente la fame non teme l’inquinamento.

Assassini in colletto bianco

Le stime odierne parlano di circa 120.000 malati cronici, mentre negli anni sono morte oltre 25.000 persone per malattie da imputarsi alla diretta esposizione ai gas e indirettamente all’inquinamento ambientale.
La Union Carbide è stata acquistata nel 2001 dalla multinazionale Dow Chemical, acquisendo attività e passività, ma anche la nuova proprietà si è sempre rifiutata di ripulire il sito, risarcire adeguatamente le vittime e rivelare i dati di ricerca sulla composizione delle sostanze chimiche utilizzate nella fabbrica di Bhopal, adducendo la motivazione che si tratta di un segreto industriale e che comunque responsabile
dell’incidente non è la Dow. Intanto, mentre vecchi e nuovi dirigenti eludono colpe e rigettano responsabilità con spietata riluttanza, per quel segreto industriale ancora oggi muoiono persone ogni giorno. Eppure Dow Chemical si è assunta la responsabilità della Union Carbide nel caso di esposizione all’amianto negli Stati Uniti: viene da domandarsi, perché negarla in India?
Condividere le informazioni aiuterebbe certamente a curare gli effetti. In aggiunta, occorre registrare il fallimento del sistema ufficiale di cure approntato dall’assistenza sanitaria nazionale e la sospensione nel 1994 da parte del governo indiano di tutte le ricerche sul monitoraggio della salute a lungo termine. Un disastroso passaggio dall’impotenza all’indifferenza. In ogni caso, la Sambhavna Clinic ha sempre rifiutato finanziamenti da aziende e governi, in quanto trattare con queste realtà economiche e con la loro falsa filantropia significherebbe sottostare a inevitabili richieste di una contropartita.
A fronte di una richiesta per danni di tre miliardi di dollari da parte dei comitati per le vittime, la Union Carbide versò nel 1989 una somma di 470 milioni di dollari, ovvero una cifra pari a circa 500 dollari per famiglia superstite. L’amministratore delegato Warren Anderson fu dichiarato contumace dalla magistratura indiana in quanto non si presentò mai davanti alla corte che lo accusava di strage. Dal canto suo il governo indiano esitò a formalizzare l’estradizione per paura di effetti negativi sugli investimenti stranieri.
Anderson è morto da tranquillo pensionato nel 2014 nel suo “esilio dorato” degli Hamptons, ancora latitante in seguito a una condanna per omicidio da parte della giustizia indiana.
Non c’è da biasimare la popolazione locale se ha perso fiducia nei politici nazionali, né stupisce il rassegnato risentimento verso la giustizia internazionale. A questo punto, laddove neppure milioni di morti fanno più notizia, pare ovvio che nel sistema della globalizzazione le strutture giuridiche internazionali proteggono soltanto le multinazionali.
Ma non è finita: le falde acquifere, per un vasto raggio dall’epicentro dell’incidente, sono contaminate tanto in profondità che persino una bonifica radicale sarebbe vana. L’implicazione è palese: bere e lavarsi con acqua infetta provoca danni irreparabili alla salute. Insomma, definire quello di Bhopal il più grave incidente industriale nella storia del mondo suona come un eufemismo. E, come si dice qui, i fortunati sono i morti, gli sfortunati i sopravvissuti.