foto di Danilo Gitto

È una mattina di dicembre quando arrivo alla stazione degli autobus di Kaiping (开平), nella provincia del Guangdong. Come al solito ho cercato di muovermi con mezzi locali per meglio entrare nello spirito del territorio che sto visitando. Ma quando ti trovi in Cina questo approccio è spesso meno facile del previsto. Stamane ho preso un autobus dalla vicina città di Zhaoqing (肇庆), sebbene nei miei piani sarei dovuto arrivare a Kaiping il giorno prima per meglio organizzare l’esplorazione. Tuttavia, pur essendo alla terza visita nel Paese del Dragone, ho sottovalutato le barriere linguistiche. L’inglese purtroppo è appannaggio di pochi giovani prevalentemente concentrati nelle metropoli, e quando ti aggiri per la provincia le probabilità di comunicare con qualsiasi lingua che non sia il mandarino crollano miseramente. Di conseguenza riesco a rintracciare l’autobus per Kaiping soltanto dopo che l’ultimo è già partito. Mi rassegno all’idea di raggiungere la mia meta soltanto il giorno seguente e mi accingo a trovare una sistemazione per la notte.
La città di Zhaoqing è una meta turistica piuttosto conosciuta, grazie al suo stupendo parco realizzato intorno a sei laghi. Tuttavia, come spesso accade nel Paese, si tratta di un turismo alimentato quasi esclusivamente da cinesi. Come diretta conseguenza, nemmeno le strutture alberghiere hanno personale che parli inglese. Malgrado la buona volontà degli addetti, sono costretto a telefonare a un’amica di Canton e a chiederle di tradurre il mio desiderio di affittare una camera per la notte. Cosa pensavano che volesse uno straniero da un albergo alle 8 di sera, ancora me lo chiedo…
La mattina dopo lascio l’albergo di buonora, salutato festosamente dalla proprietaria, evidentemente lieta di aver risolto il mistero e soddisfatto le mie esigenze. Acquistato il biglietto vengo accompagnato all’autobus giusto, che non avrei mai trovato da solo. Al contrario dei treni, che mostrano la destinazione anche in pinyin (ovvero la trascrizione fonetica in caratteri latini dell’alfabeto cinese), gli autobus, forse non considerati mezzi adatti agli stranieri, presentano soltanto scritte in ideogrammi.
Dopo alcune ore di strada, l’autista sbraita qualcosa in cinese e tutte le persone sull’autobus si voltano nella mia direzione. Capisco di essere arrivato a destinazione. Lo ringrazio per essersi ricordato la fermata dello straniero e scendo dall’autobus.

Kaiping è una città moderna e come molte altre della Cina è tutt’altro che attraente. Ma la mia meta è un’altra. Esco dalla stazione e noto subito una dozzina di moto parcheggiate, tutte simili l’una all’altra. I conducenti stanno parlando e scherzando. Io non passo innosservato. Oltre al fatto di essere europeo, ho una borsa voluminosa e uno zaino fotografico con tanto di cavalletto. Nasce una discussione animata tra i centauri, e dopo un breve alterco tra i due più giovani, un ragazzotto con la faccia simpatica viene baldanzoso verso di me. Evidentemente sono stato “vinto” da lui. Esordisce in cinese, ovviamente. Ma non mi faccio intimorire: estraggo la mia guida e la apro alla pagina corrispondente. Indicando con un dito il nome in caratteri cinesi sulla pagina, scandisco la parola “diaolou”. Probabilmente, più grazie alla guida che non alla mia pronuncia mandarina, il ragazzo capisce e annuisce solennemente. Mi passa un casco e indica la sua moto 125 cc.
Ecco, se un giorno vi venisse voglia di visitare la Cina in dicembre, anche nel meridione generalmente temperato, non fatelo in moto. Al freddo pungente della campagna si aggiungono le strade terribili, più simili a mulattiere che a provinciali, affrontate dalla mia guida come se stesse disputando un campionato di MotoGP; il tutto reggendo io una borsa tra le gambe. Mi sono pentito della scelta un minuto dopo essere montato in sella, ma ormai era troppo tardi: il mio pilota già sfrecciava in direzione delle meta.
Quando la dinastia Qing collassò agli inizi del XX secolo, ponendo fine alla storia imperiale della Cina, la vita divenne dura per il popolo. La gente di Kaiping, in prossimità della costa meridionale, lasciò il Paese in massa. In cerca di lavoro e di una vita migliore, in migliaia raggiunsero diversi Stati del sud-est asiatico, l’Australia e il Nordamerica. Negli anni ‘20 e ‘30, molti di questi emigranti che avevano fatto fortuna tornarono in patria. Ma la provincia del Guangdong non versava in condizioni migliori di quando l’avevano lasciata, e numerose bande di fuorilegge battevano i villaggi. Per difendersi dai banditi, gli emigrati di ritorno si ispirarono a una tradizione risalente al XVII secolo, agli albori della scomparsa dinastia Qing: iniziarono a costruire torri fortificate a più piani, i diaolou.
Nel giro di pochi anni queste strutture superarono le 3000 unità. Ma la cosa più soprendente, che ne ha valso l’inserimento nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO, è lo stile architettonico con cui vennero edificate. Le strutture presentano sostanzialmente tre forme: torri comuni usate come rifugio temporaneo; torri di guardia; torri residenziali costruite dalle famiglie più ricche e usate come abitazioni fortificate. Queste ultime, realizzate in pietra, pisé (terra battuta), mattoni o cemento, rappresentano una fusione complessa e convincente degli stili architettonici cinesi e occidentali. Alcuni presentano cupole e archi, altri impiegano colonne in stile occidentale. Molti assomigliano a edifici che venivano eretti in America in quel periodo, ma con sbarre alle finestre e altri elementi difensivi non comuni in occidente.
Le famiglie e i clan gareggiavano tra loro per il prestigio e il potere, e ciò si manifestava anche nel costruire la torre più alta e più imponente. Aggirandosi tra questi edifici, troneggianti sulle risaie e visibili da molti chilometri, è possibile scorgere cupole spagnole e musulmane, pagode ed elementi decorativi squisitamente europei o americani.
Oggi rimangono circa 1800 edifici ancora in piedi, preservati dal governo cinese come eredità nazionale. Il più alto di tutti, con i suoi nove piani, è il Ruishi Lou, costruito nel 1923 in stile bizantino con una cupola in stile romano. Altri edifici peculiari sono il Fangshi Diaolou, meglio conosciuto come Torre della Luce a causa di un potente riflettore al suo interno che emana un fascio luminoso simile a un faro, e la Torre Pendente (Bianchouzhu Lou) di sette piani. Durante la seconda guerra mondiale, molti diaolou furono usati per difendersi dai giapponesi.
Per tutto il giorno il mio autista conduce la moto tra risaie e villaggi portandomi nei siti di maggior interesse. All’imbrunire ho visitato una cinquantina di Diaolou. Soddisfatto gli chiedo, nel mio risibile cinese, di riportarmi alla stazione.