foto di Terry Bianchi

Nel mese di febbraio, da quattordici anni, i gruppi etnici tuareg di quattro Paesi (Niger, Mali, Algeria e Libia) si incontrano a Iferouane, oasi della regione di Agadez nel nord del Niger, per celebrare la loro cultura, patrimonio di grande valore per tutto il territorio del Sahel. Sono tre giorni intensi, con un fitto programma di competizioni, gare di corsa con i cammelli, sfilate di costumi tradizionali, canti, danze e poesie d’amore in lingua tamasheq. È il festival dell’Air, giunto quest’anno alla XIV edizione, il cui tema è più che mai attuale e sentito: “Turismo e Sicurezza”.

Il Niger è un Paese complesso, con un luminoso passato di turismo d’avventura grazie ai suoi immensi spazi desertici, ma un presente oscurato da atti terroristici, traffici illegali e banditismo. Percorrere la pista rocciosa che separa Agadez da Iferouane non è semplice. È necessario essere accompagnati da persone fidate del posto che conoscano bene le insidie del deserto e soprattutto i pericoli derivanti da possibili infiltrazioni di bande di rapinatori. La scorta amata è d’obbligo, anche se nella settimana in cui si svolge il festival (22-23-24 febbraio 2019) la regione di Agadez è sotto stretto controllo della Guardia Nazionale. Saranno presenti infatti il primo ministro, Brigi Rafini, il ministro del Turismo e dell’Artigianato, Ahmed Botto, diplomatici ed esponenti politici dei Paesi limitrofi.
Il popolo Tuareg ha una storia molto antica, che affonda le sue radici nelle antiche tribù berbere del Sahara. Uomini e donne nomadi, signori del deserto, capaci di resistere alle estreme condizioni climatiche allevando dromedari e commerciando sale e spezie. La loro abilità nell’affrontare lunghe traversate in carovane tra le dune del Ténéré, percorrendo piste riconoscibili solo a occhi esperti, e il loro acuto spirito di osservazione delle stelle, del sole e dei minuscoli dettagli della scarsa vegetazione, li hanno resi famosi e quasi “leggendari” nell’immaginario collettivo occidentale.

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La posizione di Agadez.

Gli imohar – uomini liberi – vestono ampie tuniche e un turbante detto taguelmoust che copre quasi completamente il volto tralasciando gli occhi, intensi e profondi. Il tessuto indaco rilascia il colore sulla pelle scura e per questo motivo i tuareg sono conosciuti anche come “uomini blu”. Le donne, bellissime e fiere, pur essendo musulmane coprono il capo ma non il viso, che amano decorare nei giorni di festa con tatuaggi e disegni esaltando il colore della pelle e l’elegante espressione; un alone di fascino avvolge i loro movimenti, aggraziati e alteri. Mentre gli uomini si occupano dell’allevamento e del commercio, le donne gestiscono la vita quotidiana presso gli accampamenti, rivestendo un ruolo determinante nella trasmissione orale delle tradizioni, e soprattutto nel mantenimento della lingua tamasheq e dell’antica scrittura tifinagh, che insegnano ai bambini fin dalla tenera età scrivendo sulla sabbia ciò che rimarrà impresso a vita nel loro cuore. Alla loro dedizione si deve il prezioso patrimonio culturale che i tuareg celebrano orgogliosamente in ogni gesto e in ogni fase della vita privata e di gruppo.

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Nelle comunità tuareg dell’Air si compie ancora oggi la magia dell’imzad, il violino a una corda che accompagna le mani della suonatrice e il canto poetico dell’uomo, che parla d’amore e d’onore. Il suono è magia, musica che infonde il coraggio e l’orgoglio di essere uomini liberi. “L’uomo che saprà ascoltare la sua voce avrà la forza di affrontare il male e sarà forte per proteggere la propria donna”. Se così è, la profondità di questo pensiero è tale da riempire il cuore di tutta la tenerezza e l’amore che può contenere.
Altrettanto profonda di significato la cerimonia del tè, il momento più emozionante della giornata, quando ci si raduna attorno al fuoco, e la stanchezza se ne va attraverso questo rito di condivisione che celebra la vita. Si prepara con foglie di tè verde e molto zucchero, poi si versa dalla teiera più volte e da molto in alto per farlo ossigenare il più possibile e creare uno strato denso di schiuma in superficie. Se ne bevono tre bicchieri: il primo è forte come la vita, il secondo è dolce come l’amore e il terzo è soave come la morte.

Ci vuole coraggio e grande resistenza per essere un imohar: Dio ha chiamato il popolo dei tuareg ad affrontare le difficoltà della vita nel deserto; ha dato loro in dono un fedele compagno, il dromedario, e una natura che, sebbene ostile, insegna a soffrire con dignità e a trasformare le avversità in opportunità. Un imohar non è mai povero, ha una grande ricchezza: la sua libertà. Libertà e indipendenza che tuttavia sono state ripetutamente violate dalle vicende legate al periodo post coloniale, quando l’immensa area occupata dai tuareg venne spartita tra varie nazioni e sottomessa a vari governi completamente decentrati e per nulla sensibili alle necessità di questo popolo.
Nonostante le avversità, l’oasi di Iferouane anche quest’anno è in festa ed è pronta a ricevere le comunità tuareg che si sono messe in viaggio anche da molto lontano per partecipare. Le competizioni si svolgono in una vasta area pianeggiante, a nemmeno un chilometro dal villaggio, circondato dalle montagne dell’Air. Fin dal mattino, a piedi, in motorino, a cavallo, con il dromedario, con i fuoristrada, arrivano gruppi di visitatori, famiglie, donne in costumi tradizionali abbelliti da gioielli di raffinata manifattura, giovani ragazze dai volti bellissimi sapientemente adornati da veli eleganti, anziani e bambini, tutti in trepidante attesa che la festa abbia inizio. Tutto intorno è un susseguirsi di chiacchiere, racconti, saluti festosi intrecciando varie volte le mani senza guardarsi, abbracci, scambi di oggetti, ambulanti e artigiani che vendono profumi, tessuti, pelli, e monili d’argento; le più richieste sono le croci, in particolare quelle di Agadez: si dice che scaccino gli spiriti maligni del deserto.
Gli uomini portano al collo vistosi e colorati borselli di cuoio con frange e decorazioni, che solitamente contengono un gris gris portafortuna confezionato dal marabutto del villaggio: sono versetti del Corano che particolarmente si addicono alla vita e alla personalità del suo possessore. Il sole è accecante e il vento a tratti alza la sabbia e gioca con i taguelmoust degli uomini.
Finalmente arrivano i cavalieri: le loro figure, scure e altere, si stagliano altissime nel cielo azzurro, i loro gesti veloci e sicuri padroneggiano con sapienza l’andatura del dromedario. Sfilano con andatura leggera ed elegante davanti alle tribune, offrendo un quadro di rara bellezza e armonia. Lo spettacolo continua con la presentazione delle donne in costume tradizionale, e con i canti melodiosi e struggenti del deserto.
Gli interventi degli esponenti politici si alternano agli spettacoli tradizionali, e ricordano che questa edizione è ancor più particolare per il fine che si propone. Il momento culminante vede la presentazione di un “comitato di saggi” e un gruppo di “carovanieri della pace” che insieme avranno il compito di controllare capillarmente il territorio e denunciare alle autorità atti di banditismo e persone sospette.

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Una croce di Agadez.

Lo splendido Festival di Iferouane, nato come incontro di promozione culturale e commerciale, si sta lentamente trasformando anche in una operazione politica di “sensibilizzazione alla pace”, un messaggio di ottimismo rivolto alla popolazione locale prima ancora che ai pochi visitatori stranieri.
La volontà di riportare il paese a una “normalità” è molto forte, lo si percepisce nell’allegria dei musicisti, nello youyou gioioso delle donne, nelle risate dei bambini che si sfidano a dorso di dromedario, negli sguardi fieri degli uomini tuareg, orgogliosi delle loro tradizioni e desiderosi di salvaguardarle per il futuro dei loro figli.
Il ricordo della rivolta degli anni ‘90 è tuttavia ancora vivo nel cuore di molti. Un ex combattente, ora alle dipendenze della Guardia Nazionale, racconta con struggente malinconia la sua battaglia nella brousse al servizio del movimento FLAA (Front de Libération de l’Air et de l’Azawagh), e ricordandone il leader Mano Dayak, morto in un misterioso incidente aereo, si commuove.
Il sogno dei tuareg dell’Air – “Turismo e Sicurezza” – è una strada ancora tutta in salita; le ragioni sono molte, alcune causa e altre effetto: la desertificazione, l’isolamento, la povertà, la diaspora, la mancanza di politiche assistenziali e di sviluppo, la corruzione.
Il Festival si chiude con l’augurio che questo splendido Paese possa ripartire dalla pace e serenità che il silenzio del suo deserto regala ai suoi visitatori. Chiunque abbia il privilegio di conoscere la cultura tuareg ne rimane irrimediabilmente affascinato. Un detto tuareg dice: “I piedi vanno dove vuole il cuore”, e il cuore mi dice che il richiamo del vento dell’Air non rimarrà inascoltato.

 

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