Mentre le calure estive schiantano, non solo metaforicamente, a decine anziani proletari e lavoratori stagionali, e mentre una larga fetta di piccola media e oltre borghesia si rifugia in quota “al fresco”, Daniela Santanchè (la quale, a suo dire, tra i monti di Cortina si sentirebbe “a casa sua”: sentimento, mi auguro, non ricambiato dagli indigeni e dalla fauna e flora locali) ha emesso il verdetto definitivo, la classica “parola fine” sull’ambigua e lamentosa questione “spopolamento delle montagne”: lassù ci vuole un aeroporto.
Spopolamento… Concetto spesso impropriamente e retoricamente evocato, a scopo finanziamenti, oltre che da interessati amministratori, operatori turistici e speculatori d’alta quota, da una miriade di soidisant “scrittori di montagna” (ne esiste anche l’associazione, quasi una lobby, mi dicono) i quali dalle vette, spettacolarizzando e mercificando, traggono sostentamento.
In realtà si dovrebbe piuttosto parlare dei rischi di sovrappopolazione in un ambiente non “fragile” ma sicuramente “delicato” (nel senso di complesso, variegato, ricco di interconnessioni a livello di habitat, specie, clima) e quindi a rischio. Soprattutto pensando che tutti (quasi tutti?) usano l’auto, il fuoristrada, il suv e altro, e per il territorio, per gli ecosistemi le conseguenze sono comunque devastanti.
Oltre naturalmente al proliferare di seconde case, alberghi, rifugi-alberghi, strade, impianti di risalita, piste da sci (con illuminazione notturna), il bob olimpico, e una generalizzata cementificazione-deforestazione.
Giusto un anno fa assistevo allibito a un brutale taglio boschivo, una folta assemblea di larici ridotta in trucioli, destinati poi a qualche impianto per la produzione di energia “bio” (bio ?!?).
Ufficialmente, mi spiegava il proprietario del bosco, “xe sta Vaia”. Peccato che il bosco, come potevo ampiamente testimoniare, da “Vaia”, la tempesta del 2018, all’epoca non fosse stato nemmeno sfiorato. Diciamo che l’astuto montanaro veneto aveva colto l’occasione (“ghe gaveva ciapà rento”) per specularci su.
Ma con l’odierna richiesta di un aeroporto per Cortina (perché arrivarci su strada sarebbe “un calvario”) si è letteralmente toccato il fondo.
Del resto questa pare sia la tendenza generale. Per gli straricchi senza vergogna (non solo i classici capitalisti naturalmente, aggiungiamo calciatori, attori, cantanti, politici, camorristi, nani e ballerine) volteggiare angelicamente sopra le masse accaldate e puzzolenti sui sentieri, o magari in coda sui tornanti, è una questione di principio.
Solo qualche giorno fa, davanti a un rifugio CAI sulle Pale di San Martino sono atterrati un paio di elicotteri (il gestore aveva fatto allontanare preventivamente gli escursionisti raccomandando di riprendersi magliette e canotte stese ad asciugare ché altrimenti sarebbero volate via) da cui scendevano, in ghingheri, due vispe comitive di turisti che qui avevano prenotato il pranzo. Dopo un lauto pasto e abbondanti libagioni, erano ripartiti senza nemmeno sgranchirsi le gambe e senza mischiarsi con le prosaiche masse appiedate. Rifugio CAI, sottolineo.
Quanto alla recente “tragedia annunciata” della Marmolada (più che un “campanello” una sirena, l’ennesima, d’allarme), presumibilmente (siamo pur sempre nella società dello spettacolo dove lo spettacolo si fa merce) alimenterà il turismo, almeno quello dei voyeur (vedi sul Vajont, vedi, anche se in forma minore, Stava e Cermis…); ma forse non contribuirà abbastanza, non quanto dovrebbe, allo sgretolamento dell’antropocentrismo capitalista applicato al turismo e dei suoi inevitabili corollari: mercificazione, sfruttamento, spettacolarizzazione, eccetera.
A titolo di parziale consolazione (e lo dico magari a mio svantaggio, in quanto escursionista che dalla pianura risale in treno e corriera e poi si sposta rigorosamente a piedi), almeno da ‘ste parti (Vette Feltrine e dintorni), vanno dilagando zecche et similia. Scoraggiando una eccessiva frequentazione di boschi, prati e brughiere.