Lo davamo per scontato: intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Gweiran/Xiwêran della città di Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica. In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.
Iniziato il 20 gennaio, l’assalto condotto dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di FDS, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista.
Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde ma non solo) del nord e dell’est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’ISIS/Daesh non era stata definitivamente cancellata.
Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.
Se pur lentamente, emergono le prime connessioni – interne ed esterne – che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5mila detenuti, membri o sostenitori di Daesh, rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe.
Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’ISIS, ma di una complessa operazione con il sostegno – come dire, bilaterale – proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).
A quanto sembra – condizionale sempre d’obbligo – l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia. I membri di Daesh catturati dalle FDS avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione di almeno sette-otto mesi e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain), ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali sia provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.
Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.
Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano andati ad abitare nel quartiere di Gweiran/Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.
Nel comunicato delle FDS del 25 gennaio si legge che “almeno 200 esponenti dello Stato Islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere”.
Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta. Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (muhajir ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che in genere i rispettivi Paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.
Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera, moltiplicando quindi la potenza dell’attentato, mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere.
Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle forze di autodifesa (Erka Xweparastinê).
Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili, da usare come ostaggi o scudi umani, e abbattendo un muro della prigione con una ruspa. Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.
La priorità per le FDS e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano, bloccandone a loro volta le vie d’accesso, e mettevano in sicurezza, procedendo all’evacuazione degli abitanti,i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur.

Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.
Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte sia dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.
Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi della NATO con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’ISIS; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quelli catturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê sotto l’ombrello turco; le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione.
Altri elementi, altre prove, assicurano le FDS, saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica nel giro di qualche giorno.
Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presìdi e avamposti militari nelle zone già occupate.
Proprio in ottobre Erdogan si era consultato sia con Biden sia con Putin, ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.
Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro, quando le FDS individuarono e arrestarono alcune “cellule dormienti” a Hassaké e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hassaké. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle FDS, ma in realtà solo rinviato.
Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchi attaccavano simultaneamente Zirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa, causando vittime tra i civili.
Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco? Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hassaké. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (AANES) delle FDS sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il MIT (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).
Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi – ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo” – che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre, stando almeno a quanto riportava la stampa turca, in Giordania, ad Aqaba. Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di “operazioni congiunte nel nord-est della Siria” e in particolare di “un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù [in chiave anti curda, ça va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici, NdA] a Deir ez-Zor, Hassaké  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo”.
Sempre sulla stampa turca – e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario – si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

assalto al carcere di hassaké orchestrato da ankara e damasco
Il carcere di Hassaké.

Un complotto annunciato contro l’amministrazione autonoma

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora: siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran. Essa stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’“opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei Paesi vicini all’est dell’Eufrate”. Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati sia del pane sia del combustibile alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle YPG.
Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.
Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (AANES) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hassaké, probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zorsud (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il MIT e il Mukhabarat.
Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.
Se la pronta, coraggiosa risposta delle FDS ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi.
Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.
A nostra consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Oltre che per i cani rabbiosi di Daesh, anche per mastini di Ankara e Damasco.