boicottare la turchia

Come suggeriva Ozlem Tanrikulu (“l’Espresso” del 15 aprile 2018) ognuno di noi può (deve o almeno dovrebbe) fare, se non proprio la differenza, almeno qualcosina per contribuire alla difesa del popolo curdo. Per esempio denunciando la vendita di armamenti italiani (vedi elicotteri da combattimento) poi impiegati contro i curdi. E soprattutto, tenendo conto di quante imprese italiane sono localizzate in Turchia, praticando e diffondendo il boicottaggio. Come si usava negli anni ottanta nei confronti dell’apartheid sudafricano. Del resto i precedenti di boicottaggio in difesa della popolazione curda, oltraggiata e massacrata dalle truppe di Ankara, non mancano anche da noi.
A una vicenda del 1998 sono legato per ragioni anche personali. Un riepilogo per rinfrescarvi la memoria.
Nel giugno 1998 il pubblico ministero di Vicenza, Paolo Pecori, ordinò alla polizia di mettere i sigilli al server del sito “Isole nella rete” (Bologna, www.ecn.org) che ospitava circa 15mila pagine web di impegno militante sociale e pacifista. Tra le associazioni messe a tacere: Lila, Asicuba, “Ya Basta”, Telefono viola e le radio “Onda d’urto”, “Black out”, “Sherwood”, le riviste ZIP, Necron, Bandiera Rossa, Freedom Press. Oltre a vari sindacati di base come la CNT iberica, alcuni gruppi musicali e la mailing list di solidarietà con il Chiapas.
Cos’era accaduto? Un paio di mesi prima, nell’aprile 1988, la Turban Italia srl di Milano aveva querelato per diffamazione “Isole nella rete” nelle cui pagine web dal 16 gennaio 1998 circolava il messaggio “Solidarietà al popolo curdo”. I responsabili dell’associazione no-profit denunciarono il “gravissimo attentato alla libertà di espressione” raccogliendo la solidarietà dell’Associazione per la libertà della comunicazione elettronica (in quanto “l’atto del magistrato introduce surrettiziamente il concetto di responsabilità oggettiva del provider”) e del collettivo Luther Blisset che definì l’operato di Pecori un “provvedimento da dittatore dello stato libero di Bananas”.
Con il senno di poi, forse da dei situazionisti era lecito aspettarsi qualcosa di più: comprendere che la notizia in fondo secondaria (il sequestro del server) contribuiva a oscurare quella vera, ossia la violenta repressione subita dal popolo curdo. Ma nella Società dello Spettacolo, non scordiamolo mai, è sempre “lo spettacolo che si fa merce”.
A ormai 20 anni di distanza resto dell’opinione che l’invito al boicottaggio del turismo in Turchia fosse (e sia) altrettanto legittimo dell’invito a boicottare i prodotti sudafricani all’epoca dell’apartheid.
Ripropongo il testo incriminato che, dopo essere stato volantinato e pubblicato come lettera su vari organi di stampa alla fine del 1997 (perfino sul giornale diocesano!), una volta entrato in rete nel gennaio 1998 aveva suscitato la ritorsione isterica della Turban Italia:

Solidarietà al popolo curdo – boicottiamo il turismo in turchia

Ogni lira data al regime turco con il turismo è una pallottola in più contro i partigiani, le donne, i bambini curdi; questo bisogna dirlo forte e chiaro per non rendersi complici del tentativo di genocidio operato dallo stato turco contro il popolo curdo.
In coincidenza con i periodi estivi e natalizi su alcuni quotidiani e settimanali è riapparsa la pubblicità a piena pagina della Turbanitalia che invita a visitare “la Turchia più bella”. Eppure dovrebbe essere ormai di dominio pubblico quante e quali siano le ripetute violazioni dei Diritti Umani operate dal regime turco, soprattutto contro il popolo curdo: torture nelle caserme e nei commissariati, detenzioni illegali, sparizioni di oppositori a opera di veri e propri squadroni della morte parastatali… per non parlare dell’occupazione da parte dell’esercito turco del Kurdistan “iracheno” con bombardamenti di villaggi e campi profughi. L’invito della Turbanitalia ai tours e soggiorni al mare nella “Turchia più bella” è decisamente un pugno nello stomaco se confrontato con le notizie che quasi ogni settimana giungono dalle zone martoriate del Kurdistan. Nel Kurdistan “turco” 25 milioni di persone vivono sotto il giogo di 500.000 soldati e per mantenere la sua “guerra sporca” contro questo popolo lo stato turco fa affidamento soprattutto sulla valuta pregiata del turismo che frutta ogni anno oltre dieci miliardi di dollari. Non esiste città turca nelle cui prigioni non si torturi, nei cui dintorni non sorgano bidonvilles di sfollati dai 3500 villaggi curdi distrutti. Le proteste dei prigionieri vengono regolarmente represse a colpi di spranga e i familiari riescono con difficoltà a farsi restituire i cadaveri. Intanto nei campi profughi assediati dall’esercito e da miliziani filoturchi i bambini muoiono di stenti. Anche recentemente l’utilizzo del napalm da parte dell’aviazione turca (forse gli stessi piloti che vengono addestrati nelle basi NATO del Veneto) ha provocato vittime soprattutto tra i civili. In questo deserto di repressione e sofferenza i paradisi turistici decantati da Turbanitalia sono soltanto oasi blindate. Tra l’altro è risaputo che agli affari della Turban è direttamente interessata l’ex premier Ciller, ispiratrice degli squadroni della morte che hanno provocato la morte di centinaia di oppositori, kurdi e turchi.
Invitiamo quindi a boicottare le agenzie di viaggi che offrono i tour in Turchia e anche i giornali che li pubblicizzano, come gesto di solidarietà verso un popolo fiero e perseguitato.

Lega per i Diritti e la Liberazione dei Popoli (sez. di Vicenza)
Collettivo Spartakus

Vicenza, 12 gennaio 1998

Ancora tragicamente attuale, direi. All’epoca mi chiedevo: ma boicottare i complici di un genocidio è o non è reato?” E la domanda rimane sempre valida. Avevo poi anche scritto al “Manifesto”, che, bontà sua, accettò di pubblicare il mio intervento. Riporto testuale (titolo compreso):

È moralmente accettabile fare affari con un regime genocida?

Il sequestro di un intero sito web su internet è stato presentato con un certo risalto sulla stampa. Vittima dell’operazione, l’associazione “Isole nella rete” che dà voce a più di un centinaio di associazioni, centri sociali, radio autogestite, organismi sindacali. Il tutto era iniziato con una querela per diffamazione presentata dall’agenzia Turban Italia di Milano, specializzata in vacanze in Turchia, per un messaggio diffuso attraverso il sito che invitava al boicottaggio dei viaggi per esprimere solidarietà al popolo curdo perseguitato dal regime di Ankara. Tale richiesta nasceva dalla singolare omonimia del nome e del logo (e stessi alberghi) tra la Turban italiana e la Turban turca, una società governativa legata alla figura dell’ex premier Tansu Ciller e agli scandali emersi in merito alla “guerra sporca” contro i curdi e l’opposizione di sinistra. Il risalto dato al provvedimento in quanto violazione della libertà di espressione, sembra però aver oscurato la ragione principale del comunicato che resta la denuncia delle persecuzioni subite dal popolo curdo e delle complicità internazionali. Negli anni ottanta era prassi normale, sia da parte dei gruppi della sinistra che di molte associazioni di area cattolica, chiedere il boicottaggio nei confronti dei prodotti sudafricani, delle banche che finanziavano il regime razzista di Pretoria, delle compagnie turistiche. Ma ora i tempi sono cambiati e assistiamo alla sceneggiata contro un comunicato che, comunque, ha costretto la Turban Italia a uscire allo scoperto e a parlare dei curdi nei suoi prospetti informativi, arrampicandosi sugli specchi per giustificare la politica repressiva della Turchia. Se non fossimo di fronte alla tragedia di un intero popolo, le tesi sostenute nei “programmi estate 1998”, oltre che facilmente confutabili, sarebbero risibili. Fanno pensare alle veline prodotte dall’ambasciata o dai servizi segreti turchi. I curdi, secondo Turban Italia, si sarebbero trasferiti tutti a Istanbul, Ankara e nelle altre metropoli turche in cerca di condizioni di lavoro più favorevoli. Sulle montagne rimaste spopolate arriverebbero altri curdi dall’Iraq costringendo l’esercito turco a proteggere le frontiere. In realtà è l’esercito turco che sconfina per bombardare i campi profughi dei curdi in Iraq.

(Gianni Sartori, “il Manifesto”, 7 agosto 1998)

Tornando all’oggi, possiamo dire che almeno dal 2015-2016 – quando Ankara operava distruttivamente in Bakur contro i curdi – anche in Europa, particolarmente in Francia, si è andata delineando una campagna internazionale per sanzionare la Turchia. In particolare boicottando il turismo (e le agenzie turistiche) e i prodotti turchi importati nel vecchio continente.
Con la recente aggressione colonialista contro Afrin, l’operazione di pulizia etnica in atto e il tentativo di annichilire l’esperienza del confederalismo democratico in Rojava, diventa quantomai doveroso esprimere pubblicamente una severa condanna nei confronti dello Stato turco.
Appare improbabile che tale condanna possa provenire dagli attuali governi europei o da altri organismi istituzionali. Di sicuro né Parigi, né Berlino (e tantomeno Roma) proporranno sanzioni contro Ankara. Anzi, è probabile che consentiranno tacitamente all’alleato e socio in affari Erdogan di portare a termine il lavoro sporco iniziato due anni fa in Bakur. Voltando la schiena ai curdi e dando prova quantomeno di ingratitudine, visto che gran parte del merito per la sconfitta dello Stato islamico spetta sicuramente ai combattenti delle YPG.
Tocca quindi alla “società civile” europea, ai singolo cittadini lanciare e mettere in pratica la parola d’ordine del boicottaggio.
Arma semplice, non violenta, comunque efficace. Già adottata dai contadini poveri irlandesi (auto-organizzati nell’Irish Land League) nel 1880 contro un amministratore terriero, un militare inglese e sfruttatore: Charles Cunningham Boycott.
Quale momento migliore di questo quando si sta per aprire la stagione turistica?
Quale occasione migliore per non essere ancora complici di un genocidio contribuendo finanziariamente alla politica militarista e colonialista di Ankara?