In una recente esternazione, il papa aveva ricordato alcuni tra i popoli maggiormente oppressi. Oltre ai curdi yazidi (ieri sterminati ieri dall’ISIS, oggi perseguitati dalla Turchia) e ai rohingya (minoranza musulmana non riconosciuta come etnia da una Birmania che ne riconosce ben 135 al proprio interno), anche gli uighur. Sollevando fatalmente le proteste di Pechino.
Viceversa appare evidente che il premier turco Erdogan – dopo aver strumentalizzato in varie occasioni la situazione di questa popolazione turcofona e musulmana – ormai preferisce abbandonarla al proprio destino. Dato che concludere trattati e affari con i cinesi risulta più conveniente.
D’altra parte la questione degli uighur è una di quelle “a geometria variabile” che riemergono periodicamente. Vuoi per ragioni oggettive, vuoi strumentalmente.
Nel 2018 sul “New York Times” Chris Buckley rilanciava l’ipotesi, sempre respinta da Pechino, della presenza in Cina di campi di rieducazione per uighur refrattari. O meglio: campi di detenzione arbitraria, dove gli internati avrebbero subìto abusi e maltrattamenti allo scopo di cancellarne l’identità.
E, sempre periodicamente, si torna a parlare della sterilizzazione forzata per le donne di questa comunità minorizzata (parlare di “minoranza” sarebbe un eufemismo).
Una popolazione turcofona e musulmana, sottoposta a una “colonizzazione interna” da manuale (come avviene, con i doverosi distinguo, per i curdi e i baschi).
Ma, appunto, si tratta di una vecchia questione. Anche senza riandare al secolo scorso, basti ricordare come nel 2006 acquistasse una certa risonanza la vicenda, per certi aspetti kafkiana, di cinque uighur rilasciati da Guantanamo dopo quattro anni e mezzo di maltrattamenti e torture.

Collaborazione USA-Cina a Guantanamo?

Adel Abdulhehim, Ahmed Adil, Haji Mohammed Ayub, Akhdar Qasem Basir e Abu Bakr Qasim erano stati catturati in Afghanistan al momento della preghiera e avevano conosciuto le prigioni – famigerate – di Kandahar. Trasportati poi a Camp Delta e quindi a Guantanamo, solo nel 2006 venivano riconosciuti come “nlesc” (no longer enemy combatants) e trasferiti in Albania (dove però rischiavano l’estradizione in Cina). Al momento della loro – per quanto tardiva – liberazione almeno altri 17 uighur rimanevano rinchiusi a Guantanamo. Secondo Amnesty International, in almeno un’occasione sarebbero stati interrogati direttamente da agenti cinesi in trasferta nella base statunitense; e con le stesse tecniche utilizzate dagli americani sia a Guantanamo sia ad Abu Ghraib (manipolazione ambientale, privazione del sonno, posture forzate… e ben altro).
Secondo il governo cinese avrebbero fatto parte del Movimento Islamico del Turkestan Orientale, un movimento separatista (indipendentista, meglio) accusato di terrorismo. Invece, per Amnesty International “Pechino si richiamava alla guerra al terrorismo internazionale come pretesto per le dure repressioni attuate nello Xinjiang che hanno determinato gravi violazioni dei diritti umani contro la comunità degli uighur”.
Sempre secondo A.I. anche nel 2006 sarebbero state “chiuse moschee, arrestati imam, militanti nazionalisti e pacifisti uighur”. Inoltre “per le persone accusate di terrorismo, separatismo, estremismo religioso si spalancano le porte del carcere”, e in molti casi vi sarebbero state anche vere e proprie esecuzioni.

Occupazione straniera

Un po’ di storia. Questa grande provincia occidentale della repubblica popolare (Turkestan Orientale o anche Uyghuristan; per i cinesi Xinjiang, cioè “nuova frontiera”) era entrata a far parte dell’impero cinese soltanto nella seconda metà del XVIII secolo. Qui vivono circa venti milioni di abitanti di cui undici sono musulmani (dal 1300). La maggioranza dei musulmani, oltre otto milioni, sono uighur, una popolazione turcofona che sovente si è opposta alla politica colonizzatrice cinese.
Nel secolo scorso, durante la guerra civile, venne fondata una Repubblica dell’Est Turkestan che durò fino al 1949, quando l’esercito cinese venne a rioccupare la regione.
Al momento dell’avvento al potere del partito comunista, i cinesi di etnia han qui erano soltanto tra il sette e il dieci per cento della popolazione. Si calcola che attualmente siano oltre nove milioni (quasi il 50 per cento), grazie a una politica di “bilanciamento demografico” (eufemismo per “sostituzione etnica”) attuata da Pechino con l’invio di coloni han. Un metodo già ben sperimentato: dall’Irlanda alla Palestina, dal Tibet al Rojava. L’analogia profonda con il Tibet ovviamente salta agli occhi, ma sui media la situazione del Turkestan orientale non sembra godere della stessa popolarità.
Nel 1990, dopo che un numero imprecisato di uighur (presumibilmente una ventina) erano stati uccisi nel corso di una rivolta a Kashgar, era iniziata una nuova fase di lotta per l’indipendenza.

Le olimpiadi 2008: per le minoranze ben poco da festeggiare

Invece nel giugno 2008, all’epoca delle olimpiadi, toccava agli inviati nel “Turkestan orientale” stupirsi per la situazione qui riscontrata. “Quasi da coprifuoco”, scrivevano (e quel “quasi” appariva prudentemente riduttivo).
Prima di giungere il 21 giugno 2008 a Lhasa in Tibet (altra regione notoriamente sottoposta al colonialismo interno cinese), la torcia olimpica soprannominata dai cinesi la “fiamma sacra”, aveva attraversato lo Xinjiang, l’immensa provincia a maggioranza musulmana. O così almeno all’epoca, dato che con la “sostituzione etnica” in atto le proporzioni possono cambiare rapidamente. Qui gli inviati scoprivano una popolazione totalmente “sotto controllo”.
Lunedì 16 giugno, alla vigilia dell’arrivo nella capitale Urumqi, i responsabili locali avevano “consigliato” alla popolazione di restare in casa a “guardare la televisione”, mentre la fiamma percorreva le strade della loro città. Il pubblico, avevano spiegato, avrebbe potuto “creare problemi alla sicurezza”. Proibito soprattutto “arrampicarsi sugli alberi e radunarsi sopra i ponti”. Il consiglio veniva seguito alla lettera e il giorno dopo il centro di Urumqi appariva deserto, mentre quei pochi che avevano voluto ugualmente assistere venivano fermati e perquisiti.
Il 18 giugno, sempre sotto stretta sorveglianza, la fiamma era stata portata a Kashgar. Questa città nei pressi del confine afghano-pachistano, importante centro della via della seta, viene considerata come la più islamica di tutta la repubblica popolare e qui, nel 1990, l’esercito cinese uccise una ventina di persone nel corso di una rivolta. A Kashgar le attività religiose venivano – e presumibilmente vengono – sottoposte a un forte controllo, in quei giorni ulteriormente inasprito.
Proibiti i pellegrinaggi e perfino i cortei nuziali, mentre alcune moschee erano state chiuse.
Al passaggio della torcia olimpica nelle strade pattugliate dai militari, le finestre dovevano rimanere chiuse e nessuno poteva stare sul balcone. Potevano assistere soltanto alcune scolaresche e chi era disciplinatamente inquadrato nella sua “unità di lavoro”. In seguito Amnesty International aveva denunciato altri arresti arbitrari, sempre con il pretesto del separatismo. Anche ai nostri giorni le autorità cinesi della regione denunciano periodicamente di aver sventato “complotti, fomentati da militanti separatisti islamici”.
All’epoca dei giochi olimpici si era anche parlato, dando alla cosa una certa evidenza, del rischio di “rapimenti per giornalisti, diplomatici e atleti”. Qualche mese prima (marzo 2008) un aereo di linea aveva dovuto compiere un atterraggio di emergenza all’aeroporto di Urumqi in quanto – stando alle fonti ufficiali – a bordo sarebbero stati scoperti esplosivi. La “minaccia separatista” verrebbe soprattutto dal Movimento Islamico del Turkestan Orientale (ETIM). Lo stesso movimento di cui, secondo le autorità cinesi, avrebbero fatto parte gli uighur rilasciati da Guantanamo dopo quattro anni di mltrattamenti e torture.
Nel giugno 2008, alcune organizzazioni per la tutela dei diritti umani insieme a quelle degli uighur rifugiati in Occidente avevano denunciato un “ulteriore inasprimento repressivo con il pretesto di combattere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo religioso”.
Dilxat Raxit, all’epoca portavoce del congresso mondiale uighur (in esilio), aveva dichiarato che “Pechino sta approfittando delle olimpiadi per reprimere ancora di più il nostro popolo”.

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Violenta manifestazione uighur a Urumqi.

Una “guerra tra poveri” anche quella tra uighur e han?

In seguito la situazione non era certo migliorata. Nel 2009 le proteste nella città di Urumqi degenerarono in scontri violenti tra manifestanti e polizia causando ufficialmente almeno 197 morti. Tutto era cominciato il 5 luglio quando un corteo di studenti uighur – che tuttavia inalberavano bandiere cinesi – veniva brutalmente attaccato dalla polizia, scatenando l’indignazione della popolazione. Durante la notte, assalti a negozi e abitazioni di cinesi han mentre, raccontavano alcuni testimoni, la polizia – stranamente – evitava di intervenire. Decine di persone, definite “istigatori” dalle autorità, vennero poi arrestate e condannate a lunghe pene detentive. Molti processi inoltre si sarebbero svolti in segreto. La maggior parte degli imputati risultarono amministratori o collaboratori di siti internet in lingua uighur, quella parlata dalla popolazione turcofona della regione.
Quanto alla “guerra tra poveri” che talvolta sembra dilagare in questa regione, è plausibile che uighur e han siano entrambi vittime di avvenimenti la cui responsabilità cade principalmente e pesantemente sul governo di Pechino.
Nell’aprile 2010 il giornalista Memetjan Abdulla veniva condannato alla pena perpetua con altri due giovani per “aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato”. Sul loro sito Salkin, avevano pubblicato l’appello per una manifestazione. Si trattava della protesta per la morte di alcuni operai uighur (lavoratori immigrati, spesso discriminati) picchiati dagli amministratori locali cinesi in una fabbrica di Shaoguan nel sud della Cina.
Nei giorni della manifestazione e degli scontri successivi, Memetjan Abdulla si trovava a Pechino (dove lavorava per la radio nazionale cinese). Per l’accusa, dal 5 luglio 2009, data d’inizio delle proteste di Urumqi, sarebbe stato ripetutamente in contatto telefonico con una giornalista straniera. Secondo l’indagine condotta da una emittente statunitense (Radio Free Asia), il giornalista era stato accusato di aver tradotto nella sua lingua madre un appello del congresso mondiale uiguro, l’organizzazione presieduta dalla dissidente in esilio Rebiya Kadeer (naturalizzata statunitense, candidata al Nobel per la Pace nel 2006). Apparso su Salkin, l’appello chiedeva di manifestare pacificamente dovunque nel mondo esistesse una comunità uighur.
Un altro internauta coinvolto nel processo, Gheret Niyaz, era corso ai ripari informando le autorità su “appelli all’odio di natura settaria” che circolavano in internet. Nel processo i giudici devono averne tenuto conto e applicato qualche attenuante, visto che lo hanno condannato a “soli” quindici anni per aver parlato dei fatti del 5 luglio 2009 con alcuni giornalisti di Hong Kong.
Altre notizie inquietanti, in particolare i dati sul gran numero di uighur “giustiziati per crimini politici” (oltre 700 dal 1997 al 2011), venivano diffuse nel 2011. Nello stesso periodo sarebbero stati migliaia quelli incarcerati e spesso condannati all’ergastolo con l’accusa di aver “fomentato disordini”.

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Rebiya Kadeer.

2011: in Cina, un anno vissuto pericolosamente

Del resto quel 2011 era passato alla storia come un anno particolarmente segnato da manifestazioni, scontri e “disordini”. Non solo tra gli uighur.
Secondo Brice Pedroletti, inviata di “Le Monde”, gli “incidenti di massa – come vengono ufficialmente definiti – furono decine di migliaia”. In particolare nel mese di giugno 2011 si ebbe un’impennata degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Dopo che una donna incinta era stata violentemente picchiata dalla polizia municipale di Xintang, la città venne letteralmente messa a ferro e fuoco per tre giorni consecutivi. In prima fila contro i blindati dell’esercito e della polizia, i giovani operai provenienti dalle campagne. Quasi contemporaneamente in un’altra località della provincia di Guangdong un operaio che reclamava il suo salario, veniva ferito gravemente dalla polizia privata padronale (alla faccia del “socialismo”). Migliaia di lavoratori immigrati avevano allora circondato e assediato la sede del governo locale.
Le immagini entravano in circolazione grazie al blog Weibo. Dopo qualche giorno moriva – nel corso dell’interrogatorio nel commissariato di Lichuan – Ran Jianxin, fermato per essersi opposto all’epulsione degli abitanti di un quartiere destinato a ospitare un’area industriale. Mentre le immagini del suo corpo devastato dalle percosse venivano diffuse, sempre da Weibo, migliaia di persone scendevano in strada attaccando i blindati delle forze dell’ordine.
Con la presenza di oltre 30 milioni di operai immigrati, la regione di Guandong veniva definita “l’officina del mondo”. Ma anche “una poltiglia urbana di aree industriali e nuove città dove l’ambiente era stato devastato”. Mentre gli abitanti originari vivevano sostanzialmente di rendita grazie alle terre collettive affittate alle aziende, gli immigrati qui al massimo sopravvivevano subendo le prepotenze dei datori di lavoro, delle amministrazioni locali e delle forze di sicurezza.
Del resto le crepe del sistema cinese (un gigante social-capitalista dai piedi di argilla?) erano apparse con evidenza già l’anno precedente, nel 2010, con i grandi scioperi alla Honda e i numerosissimi casi di suicidio tra gli operai della Foxconn.
Dopo di allora, un crescendo di manifestazioni popolari sempre più determinate, l’incremento delle petizioni individuali, e anche di piccoli attentati e sabotaggi (come ritorsione per qualche ingiustizia subita) che comunque sembrano mettere – se non in crisi – almeno in discussione il controllo sociale. Sarà sicuramente utopistico e ingenuo, ma vien da pensare cosa potrebbe accadere in Cina se le lotte sociali (di classe) si coniugassero con quelle per i diritti dei popoli minorizzati.
Ovviamente il potere, rappresentato dal Partito Comunista Cinese non è rimasto a guardare. Ancora nel 1999 veniva costituito l’“Ufficio 610”, inizialmente per contrastare il gruppo dissidente di ispirazione religiosa Falun Gong. Da allora il governo cinese ha mostrato di saper ricorrere a sistemi sempre più sofisticati. Sia intervenendo nella rete con appelli apparentemente spontanei alla “calma”, sia fornendo qualche maggiore garanzia ai lavoratori immigrati. Ma soprattutto grazie a una vasta rete, tuttora operativa, di uffici e commissioni che operano per il “mantenimento della stabilità” coinvolgendo e stipendiando decine di migliaia di persone. Con agenzie private incaricate di intercettare e rispedire indietro chi si reca nei capoluoghi per inoltrare petizioni o proteste.
In controtendenza sui progetti di riforma della Corte suprema per una maggiore indipendenza della magistratura, l’apparato del PCC in questi anni ha comunque voluto riaffermare il proprio controllo anche sulla giustizia.

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