Dalla voce di uno dei più autorevoli esponenti dell’autonomismo friulano, un “excursus” storico-politico sulla difficile e non ancora del tutto realizzata istituzione della Regione friulana. Il raggiungimento di un equilibrato e non penalizzante rapporto fra Trieste e il Friuli come condizione indispensabile per la rinascita dell’intero territorio e per un’effettiva tutela del pluralismo etnico, linguistico e culturale.

Il 18 dicembre 1946 la II Sottocommissione della Costituente approvava, con 17 voti favorevoli e 10 contrari, la proposta di costituzione della Regione Friulana. Nel resoconto sommario si legge: “La Sottocommissione approva la costituzione della Regione Friulana comprendente il territorio del Friuli più le terre della Venezia Giulia, che, a norma del prossimo trattato di pace, dovranno restare allo Stato italiano”. Solo dopo il ritorno di Trieste all’Italia (5 ottobre 1954) si incominciò a parlare di un inserimento della città nella regione, ma sempre con un suo “status” proprio. Nettamente contrario a ciò si dichiarò il senatore Tessitori, deputato autonomista: per lui, infatti, era necessario costruire la regione con il solo Friuli. Anche la DC di Udine riteneva (Nuovo Friuli, 15 aprile 1955) che la regione dovesse venire costituita con le province di Udine e Gorizia, non essendo stata ancora istituita quella di Pordenone. Pur sostenendo una unica regione con Trieste, l’avv. Cecovini, del PRI (successivamente sindaco di Trieste della Lista), allora presidente della Commissione di studio per l’Ente Regione, asseriva che le diversità tra le varie province della costituenda regione erano compensabili con un largo decentramento, sul tipo di quello attuato nel Trentino-Sudtirolo.

La proposta di due “sottoregioni” o di uno “status” speciale per Trieste fu combattuta dall’udinese avvocato Candolini (Presidente della Provincia di Udine), ma appoggiata invece dal giornale Il Lavoratore di Trieste e dall’Unità: “Importante è che ciascuno di questi due territori (Friuli e Trieste) abbia ampia autonomia nell’ambito della regione, in base alle particolari condizioni ambientali, che sono ben diverse nell’una e nell’altra parte, con proprie assemblee territoriali, con propri capoluoghi, con proprie facoltà legislative ed amministrative” (dal quotidiano Messaggero veneto del 12.2.1957). Questa tesi non fu solo delle sinistre. Il Presidente della Provincia di Trieste, Gregoretti, chiedeva che alle province, “o, per lo meno, a quella di Trieste, venissero concesse autonomie legislative di un certo rilievo nell’ambito stesso della regione” e, a tal proposito, si richiamava al “collaudato esempio del Trentino-Alto Adige”. Lo stesso per un esponente del PSDI triestino, prof. Lonza: “Trieste deve avere una autonomia nell’autonomia…”. Il sindaco triestino di allora, ing. Bartoli, pur riservando a Trieste il titolo di capoluogo, suggeriva la convocazione del Consiglio Regionale in questa ed in quella città, mentre il Consiglio Provinciale triestino chiedeva “il massimo decentramento” alle province, ed in particolare a quella di Trieste, “cui dovrà essere concessa anche una adeguata autonomia legislativa” (Messaggero veneto, 2.3.1957). E, mentre la DC friulana presentava uno schema di statuto che prevedeva capoluogo Udine, l’onorevole udinese Barbina (DC) chiedeva che “le due entità del Friuli e della Venezia Giulia restassero distinte pur nella stessa regione…” Il PCI (circolare 15.12.1957 a firma di Giancarlo Paietta), nell’illustrare il progetto comunista, sosteneva la necessità di concedere “alla città ed al territorio di Trieste una ulteriore autonomia nel quadro di quella intera della regione.” Tessitori, tuttavia, ribadiva le sue riserve circa “l’opportunità di incorporare Trieste nel sistema elettorale regionale di Udine e Gorizia”. Una nuova proposta di legge comunista prevedeva anche la creazione di una zona franca nell’intero territorio di Trieste, il quale avrebbe dovuto godere di una particolare autonomia legislativa (1958). Lo stesso faceva il PSI, prevedendo la zona franca ed un Consiglio autonomo per Trieste. Il futuro sindaco di Trieste, Franzil, sosteneva la necessità di autonomie provinciali o, quanto meno, di un’autonomia per Trieste; il futuro presidente di quella Provincia, Savona, si richiamava ai precedenti di Trento e Bolzano. Tali precedenti venivano richiamati anche dall’on. Barbina, insieme a quello del piccolo Molise, divenuto regione a sé staccandosi dall’Abruzzo. Ed il senatore Tessitori ribadiva la netta propensione per uno “status” giuridico a sé per Trieste; quanto meno, specificava, “non ho difficoltà a dichiarare di non avere pregiudiziali contro l’istanza triestina di una autonomia entro l’autonomia regionale”. Altra voce a favore di Trieste a sé: quella del segretario del Movimento Federalista Europeo, dottor Commessatti: “ Ben venga Trieste nell’orbita della regione Friuli-Venezia Giulia, ma con uno statuto particolare, con un bilancio garantito dallo Stato, con una autonomia nell’autonomia. Date a Trieste quello che è di Trieste e a Udine quello che a Udine appartiene” (Messaggero veneto, 3.1.1959). Lo storico prof. Schiffer (1959) appoggiava pure una autonomia della sua città nella regione o – altra soluzione – due regioni distinte. La comunità carnica, allora presieduta dall’on. Gortani, votava un ordine del giorno “per la città di Trieste si deve attuare uno stato giuridico particolare”, mentre il sindaco di Trieste tornava a chiedere autonomie provinciali con bilanci distinti, e l’alternanza di Trieste e Udine come sedi del Consiglio Regionale (1959). Nuova proposta di statuto dei deputati triestini della DC, con “la più ampia autonomia privinciale possibile anche in campo legislativo” (1959). Del pari i socialisti friulani riconoscevano per Trieste “la necessità di particolare autonomia”. Anche il sen. Tessitori aderiva alla proposta dei deputati triestini della DC per un’autonomia provinciale, purché “limitata al territorio della attuale provincia di Trieste”, ed aggiungeva: “i problemi della città e del territorio di Trieste hanno natura politica ed economica del tutto differente da quelli delle due province friulane di Udine e Gorizia. Vedrei pertanto logico e naturale che essi fossero di competenza di un organo locale, di natura sua più preparato e sensibile alla particolare situazione di fatto della grande città adriatica” (1959). Ad un assetto di Trieste distinto da quello friulano erano allora favorevoli tutti i partiti triestini, escluse le destre. Ma Tessitori rimaneva fermo nella convinzione di non ritenere ancora possibile la creazione della regione con Trieste. Negativa invece la posizione che veniva manifestandosi nella DC friulana circa l’autonomia alle province, mentre i socialisti ribadivano da Udine che lo statuto rispettasse le differenze tra Trieste ed il Friuli, e che si instaurasse la zona franca nella città adriatica (17.1.1960). Tale la posizione in sede nazionale di questo partito, che illustrava il proprio progetto di uno statuto con uno “status” particolare per Trieste, uno speciale Consiglio del suo territorio, con speciali attribuzioni, e la zona franca. “In ogni caso – affermava l’on. Gatto il 20.3.1960 – si salvaguardi il diritto, anche storico, di Trieste ad ordinamenti e strumenti anche economici di autogoverno”. Il prof, de Castro – già rappresentante del Governo italiano nell’AMG – appoggiava “un’autonomia provinciale molto ampia nell’ambito regionale (sul tipo di quella esistente nel Trentino- Alto Adige)” e suggeriva la divisione degli assessorati tra Udine e Trieste (La Stampa, 20.2.1962). Ribadiva il PSI giuliano la necessità di una autonomia legislativa nell’ex Territorio libero. Lo Schiffer ritornava sulla tesi di “una regione ad autonomia dualistica: “Friuli e Venezia Giulia dovrebbero esser due unità autonome amministrativamente, ognuna con propria Giunta e proprio presidente. Con elezioni di secondo grado si dovrebbe provvedere a creare una delegazione regionale con un presidente e gli assessori che richiedono gli affari comuni delle due zone.” Anche il senatore friulano Fantoni (DC) chiedeva per Trieste “una particolare autonomia nell’ambito della regione” (1962). La soluzione “unitaria” per la regione ebbe l’appoggio determinante del segretario provinciale della DC di Udine, avv. Bressani (attuale sindaco di Udine), il quale tuttavia chiedeva per Udine la sede degli assessorati regionali. Fu il senatore Tessitori ad opporsi contro la soluzione unitaria, che tuttavia fu improvvisamente accettata dagli stessi Triestini che, come si è visto, erano i più decisi fautori dell’autonomia triestina dal Friuli. “Trieste aveva bisogno – disse Tessitori al Senato – nel quadro della regione, di una particolare posizione giuridica, che consentisse l’agilità, l’elasticità, la libertà di movimento che la città ha sempre saputo usare nelle lunghe e talvolta tragiche vicende della sua storia. Tale era il progetto del PCI e quello del PSI; così pure il progetto della DC triestina”. Ed affermava: “Se da varie fonti, politicamente distinte, diverse, antitetiche, ci viene indicata una strada, perché non esaminarla? Perché non cercarvi la soluzione?” Ed ancora: “A me consta che, pochi mesi fa, il Mercato Comune Europeo avrebbe fatto condizioni di particolare favore ad Amburgo in considerazione dell’autonomia che quel porto e quella città godono. Ed allora pensavo e penso che il dare a Trieste una sistemazione giuridica di larga autonomia poteva costituire uno strumento valido per ottenere che il MEC non trascurasse anche il grande emporio dell’Adriatico”. Il generoso tentativo del senatore Tessitori non ebbe successo, perché la maggioranza aveva scelto la soluzione “unitaria”. Tessitori ritirò rassegnato gli emendamenti che aveva presentato, astenendosi dalla votazione (12 e 16 ottobre 1962). Nella stessa occasione anche il sen. Solari inutilmente sostenne la tesi di “dare a Trieste ed al suo territorio condizioni particolari di autonomia anche nell’ambito della regione”. Nasceva così la regione Friuli-Venezia Giulia; al posto del centralismo romano prendeva vigore quello triestino: per sostenere i diritti di Trieste ad essere capoluogo di una regione fatta per i 4/5 di Friulani, si umiliava la maggioranza, che, per parte sua, nessuno si peritò di ascoltare. Eppure, dalle rovine della seconda guerra mondiate era nato, in Friuli, il Movimento Autonomistico Friulano, che poteva contare sull’apporto di alcuni tra i più fervidi intelletti che il Friuli poteva vantare: dal Tessitori, di cui si è già parlato, a don Giuseppe Marchetti, valente scrittore, filologo e direttore del giornale autonomista Patrie dal FriüI; dal professore universitario Gian Franco D’Aronco, autore di una ponderosa storia della battaglia autonomistica dal dopoguerra al 1964, al poeta Pier Paolo Pasolini. La loro – e quella di quelli che con loro combatterono – fu, riprendendo il titolo dell’opera del prof. D’Aronco, una battaglia per il “Friuli, regione mai nata”.

È ben vero che i Costituenti inserirono la regione Friuli-Venezia Giulia tra quelle a Statuto speciale; ma è altrettanto vero che, per molti anni, si discusse – oltre che sul fatto se fosse opportuno, o meno, istituirla – anche se fosse preferibile attribuirle uno “status” di regione differenziata (e, in questo caso, il modello da considerare era quello del Trentino-Sudtirolo o, piuttosto, quello della Sardegna e della Sicilia?) o se, viceversa, non fosse più opportuno, diciamo così, “degradarla” a regione ordinaria, organizzandola allo stesso modo di altre istituzioni regionali di diritto comune. Per la verità ancora oggi, nonostante siano trascorsi oltre vent’anni dalla promulgazione dello Statuto speciale di autonomia, si continua a discutere intorno al fondamento giustificativo della autonomia speciale per arrivare, come qualcuno fa, a negare che un tale fondamento sia mai esistito o, comunque, che esista ancora.

Ma procediamo con ordine. La regione Friuli-Venezia Giulia figurava già tra le regioni italiane comprese nell’elenco dell’art. 123 del progetto dei 75, ma come regione ordinaria; fu per merito degli onorevoli Tessitori e Pecorari se il problema venne riaperto riprendendo, in particolare da parte del secondo, le tesi già svolte dal Paladin – componente del CNL della Venezia Giulia e padre dell’ex Presidente della Corte Costituzionale, prof. Livio – che chiedeva una autonomia particolare alla regione “giulio-friulana”. Tessitori, da parte sua, propose di servirsi, anche nel nuovo contesto, della dizione “Friuli-Venezia Giulia”, praticamente coincidente con quella utilizzata nel progetto dei Costituenti, e questa proposta passò, dopo l’adesione del presidente del comitato di redazione, on. Ruini. Tuttavia, anche se Tessitori e Pecorari si trovavano d’accordo sulla richiesta di una autonomia “particolare” per la nuova regione, divergevano profondamente sul “perché” dell’autonomia particolare. Pecorari infatti, rifacendosi a un progetto di regione che vedeva la Venezia Giulia abbracciare gran parte del territorio originario, Zara compresa, adduceva a motivo della autonomia particolare la tutela delle minoranze, mentre Tessitori, per parte sua, contestava che la specialità dovesse venire riferita alla “infima minoranza slava”, preferendo ragionare in termini di una regione come “strumento di pacificazione con il popolo vicino”. Non si può tuttavia tacere che ai fautori della autonomia si contrapponevano coloro che erano invece contrari alla concessione di qualsiasi autonomia particolare alla regione, temendo – così affermavano nei telegrammi inviati a Roma – l’allentarsi dei vincoli delle zone orientali di confine con la madrepatria. Partiti politici, ordini professionali, combattenti, industriali, commercianti e giornali locali si dichiararono – nella quasi totalità – contrari allo Statuto speciale che “menoma ed offende i Friulani” e metteva in discussione “l’indiscussa” italianità del Friuli. Così, ad esempio, l’Esecutivo del Partito d’Azione di Udine inviava, il 4 luglio del 1947, un telegramma al Presidente dell’Assemblea Costituente nel quale esprimeva il netto dissenso del partito verso una decisione (quella della concessione della autonomia particolare, ndr) “oltraggiosa per il Friuli”. La federazione friulana del Partito Comunista Italiano, da parte sua, si appellava al popolo friulano contro tale concessione, chiedendo ai Friulani di appoggiare la richiesta di sottoporre il problema della autonomia particolare a referendum. Contrari alla concessione della autonomia particolare erano pure i liberali, i socialdemocratici di Udine e Gorizia (che elevarono la loro “fermissima protesta contro lo stolto e suicida provvedimento”) ed il Partito Socialista, che ribadiva la sua opposizione “ad ogni forma di regionalismo, che minacciava l’unità politica, economica e spirituale del popolo italiano.” Fu probabilmente a causa della lettura di questi telegrammi che l’onorevole Codignola ebbe ad affermare, davanti all’Assemblea Costituente, che “la nuova regione speciale avrebbe finito per creare artificiosamente una situazione internazionalmente pericolosa”. Al di là di questo, tuttavia, il voto della Costituente appariva, ai più, tardivo e compromesso, per effetto soprattutto di vicende internazionali che, almeno nel breve termine, risultavano difficilmente modificabili. Si spiega, pertanto, il perché la X disposizione transitoria della Costituzione (che si limitava ad applicare “provvisoriamente” al Friuli-Venezia Giulia il comune regime delle regioni ordinarie “ferma restando la tutela delle minoranze linguistiche”) abbia rimesso le cose in discussione. Chiarissime, a tale proposito, le motivazioni addotte dall’on. Gronchi, proponente di tale disposizione: “Quello che interessa, come l’on. Codignola ha detto (chiedendo, tout court, la revoca della specialità), è di riprendere in esame la questione dello Statuto speciale che il 27 giugno fu dalla Assemblea indicato. E l’articolo aggiuntivo che io ho proposto, anche a nome dei colleghi di altra parte dell’Assemblea, si propone appunto questo, di mantenere cioè una autonomia di carattere generale al Friuli-Venezia Giulia… rimandando alla prossima Camera la questione se, in conseguenza con una situazione internazionale la quale potrà orientarsi verso soluzioni che oggi non prevediamo, risponda agli interessi delle popolazioni… il creare… uno Statuto speciale per questa regione”. Si comprende, pertanto, il perché di una attesa protrattasi fino al 1963, quando venne promulgato lo Statuto speciale di autonomia della regione Friuli-Venezia Giulia. Se è vero, infatti, che la regione non avrebbe potuto essere costituita nel 1948 – quando la Costituente adottò gli altri quattro Statuti speciali – un tanto avrebbe potuto avvenire già dopo la stipula del memorandum di Londra del 1954, o dopo la emanazione del Decreto commissariale del 3.3.1955 che estendeva alla zona A del territorio di Trieste “i principi generali dell’ordinamento giuridico italiano”, o, comunque, a seguito della legge 493 del 16.5.1956, che consentiva all’elettorato della città di Trieste di partecipare alla formazione della Camera dei Deputati. Senonché a quel punto, indipendentemente dalle iniziali preoccupazioni di carattere internazionale, ciò che bloccò l’emanazione dello Statuto fu il dubbio sulla natura speciale (e, in questo caso, sulla base di quali presupposti?) od ordinaria della autonomia da concedere alla regione, dubbio che non poteva non ripercuotersi anche sulle strutture, sulla organizzazione e sulle funzioni stesse da assegnare alla regione. Parleremo di seguito delle proposte via via presentate in relazione alla costituzione della regione, che taluni volevano unitaria (Friuli e Trieste assieme) ed altri separata, sia pure con soluzioni diverse; per quanto attiene al problema della motivazione della specialità, invece, c’è da dire che ormai non si faceva più leva – né in modo esclusivo né in modo principale – sull’idea di una regione mistilingue di confine, ma si insisteva, piuttosto, sul mancato o rallentato sviluppo economico e sociale delle diverse componenti regionali, e sulla indubbia peculiarità dei rispettivi problemi.

 

La battaglia del MF

Conclusasi l’esperienza del Movimento Autonomistico Friulano, e con la promulgazione dello Statuto speciale della regione autonoma Friuli-Venezia Giulia (gennaio 1963), la nuova regione incomincia a muovere i primi passi: il matrimonio di interesse consumato – ché sono in pochi a crederlo d’amore tra il Friuli da una parte e Trieste dall’altra può così definitivamente avviarsi. Ma se è difficile un matrimonio d’amore, figurarsi un matrimonio di interesse. Anche se tutti i partiti della neonata regione sono per il “dogma” (così l’ha definito qualcuno) dell’unità regionale, che viene difeso a spada tratta soprattutto dopo la comparsa del Movimento Friuli, le differenze, nei relativi interessi, incominciano ben presto a farsi sentire. È ora, comunque, di abbandonare la storia per entrare nella cronaca, avvertendo quindi il lettore che gli avvenimenti di cui parleremo sono troppo vicini a noi per poterne dare un giudizio sereno e distaccato; che le passioni ed i sentimenti non sono, per fortuna, del tutto spariti (anzi!), e che, dunque, il quadro che andremo a delineare non ha altra pretesa se non quella di offrire alcuni spunti per una prima (e parzialissima) ricostruzione degli avvenimenti succeduti dopo l’avvio della regione Friuli-Venezia Giulia. “Tutto è contro l’unione – scriveva Schiavi, consigliere regionale e presidente del Movimento Friuli prematuramente scomparso – lo sono le innegabili, e non negate, differenze di mentalità e di costumi; la diversità storica ed etnica; l’eccentricità geografica; lo è, infine, la realtà economica”. Nel passo che abbiamo riportato sono contenute in una sintesi completa tutte le ragioni che costituiranno i motivi che il MF porrà alla base del suo progetto per la istituzione della regione autonoma del Friuli. Dapprima solitario, poi via via con il conforto di un sempre maggior numero di Friulani − le forze politiche, da parte loro, sono sempre più devote al dogma della unità regionale −, il Movimento Friuli incomincia a lavorare per far prendere coscienza all’opinione pubblica della regione del problema.  Nel maggio del 1977 la consigliera regionale del Movimento, Cornelia Puppini, presenta in Consiglio regionale una proposta di legge costituzionale per l’“istituzione della regione Friuli a Statuto speciale e della regione Venezia Giulia a Statuto speciale”. Si tratta di cinque articoli con i quali si propone la istituzione di una regione Friuli comprendente il territorio delle province di Gorizia, Udine e Pordenone, e della regione Venezia Giulia, che comprenderebbe il territorio della provincia di Trieste. Nella proposta del MF si afferma, inoltre, che gli Statuti speciali delle due nuove regioni avrebbero dovuto contenere esplicite norme per la tutela delle minoranze linguistiche friulana, slovena e tedesca presenti sul territorio delle due regioni, e ciò in conformità con quanto stabilito dall’articolo 6 della Costituzione repubblicana. Pur nella sua semplicità, la proposta del MF risulta estremamente determinata e precisa nell’obiettivo che intende raggiungere, e costituisce il primo (e unico) progetto alternativo presentato dopo l’avvio della nuova regione. Naturalmente, non se ne farà nulla, ma il Movimento Friuli avrà posto, anche a livello istituzionale, una proposta di risoluzione dello status istituzionale unitario, preparando così il terreno, sia pure tra mille difficoltà, ai successivi avvenimenti. L’interesse al problema, infatti, è ormai acceso, se il quotidiano II Piccolo, che si stampa a Trieste, inizia, nell’agosto del 1979, una sua inchiesta su “Trieste e Udine città diverse”, presentando tre articoli di un docente universitario di Trieste, Arduino Agnelli, sui rapporti che hanno contrassegnato gli ultimi trent’anni di vita regionale. “Il Friuli-Venezia Giulia, trent’anni di storia difficile”, “ I separatismi giuliani dal TLT alla zona franca” e “La regione fra municipio e piccola patria friulana” provocano, nei giorni a seguire, interventi da parte di numerosi esponenti delle forze politiche regionali. Il 29 marzo dello stesso anno, del resto, i consiglieri regionali del Movimento Friuli, Cornelia Puppini e Marco De Agostini (quest’ultimo anche segretario regionale del partito) presentavano, al Consiglio regionale, un nuovo progetto di legge nazionale – in sostituzione di quello precedente, decaduto per fine legislatura – per la istituzione della regione Friuli a Statuto speciale, alla quale avrebbero dovuto essere attribuite forme e condizioni particolari di autonomia, secondo un nuovo Statuto da approvarsi con legge costituzionale. Il dibattito, dunque, era più che mai aperto e le dichiarazioni clamorose, in tema di unità regionale, si sprecavano. I comunisti – in special modo con l’onorevole Lizzero – affermavano che per mantenere l’unità regionale era tuttavia necessario predisporre modificazioni, anche statutarie, per esaltare pienamente tutte le particolarità locali ed i diritti delle popolazioni di lingua e cultura diversa; il socialista De Carli (che diventerà successivamente parlamentare) parlava esplicitamente di “spaccatura della unità regionale”, dopo che l’onorevole Fortuna aveva affermato che l’unità regionale era, appunto, un feticcio. Nel 1980, poi, il consigliere regionale demoproletario Cavallo proponeva il cambiamento della dizione della regione: da “Friuli-Venezia Giulia” a “Friuli e Trieste”. Le diversità, comunque, sia pure nella affermazione esplicita della unità regionale, incominciavano sempre di più a montare sulla scena politica regionale. Il problema della unità regionale e della istituzione della regione Friuli diventava anche oggetto del Congresso generale del Movimento Friuli, che si teneva a Gorizia nel dicembre del I982. “Si tratta in sostanza – affermava il segretario politico del Movimento, Marco De Agostini – di affrontare in maniera esplicita la questione istituzionale del Friuli, il rapporto tra la nazione friulana con la regione di oggi, con la sua autonomia, con la presenza del territorio triestino e di quella realtà politica; si tratta, ancora, di analizzare le caratteristiche della crisi della regione come istituzione, le proposte delle forze politiche e le nostre possibilità di raggiungere l’obiettivo della autonomia friulana, in una regione Friuli unita”.

 

“Onde furlane”

Il 1984 è un anno importante per il dibattito sul problema istituzionale della regione: il 4 aprile di quell’anno il Consiglio regionale discute (e boccia) il progetto di legge presentato dal MF; una radio libera friulana, “Onde Furlane”, conclude la raccolta di cartoline – referendum (93.541) favorevoli alla istituzione della regione Friuli e il quotidiano Messaggero veneto, che si stampa a Udine, dà inizio ad un dibattito sulla unità regionale (i cui interventi saranno raccolti in una pubblicazione dall’emblematico titolo “Quel trattino”) e, infine, i senatori Fosson (Union Valdôtaine), Loi (Partito Sardo d’Azione) e Fontanari (della Südtiroler Volkspartei) presentano al senato, su richiesta della segreteria del MF, il progetto di legge per l’istituzione della regione autonoma Friuli, già presentato in Consiglio regionale. “Lo strappo proprio no“, titola il settimanale della diocesi di Udine, riferendo del dibattito in Consiglio regionale. I partiti politici presenti nelPassemblea – con la sola esclusione di DP – dopo un dibattito durato oltre otto ore, bocciano la proposta presentata dal MF, senza tuttavia riuscire a nascondere le divisioni interne. La bocciatura, si è detto, è unanime; le posizioni dei partiti, tuttavia, non sono omogenee e tutti riconoscono la necessità di rivedere lo Statuto regionale. Il Movimento Friuli, ovviamente, aveva messo in preventivo la bocciatura, ma considera un grande risultato che il Consiglio regionale sia stato costretto ad affrontare il problema, talché il capogruppo consiliare del MF, De Agostini, concludendo il suo intervento durato oltre due ore, può affermare, con soddisfazione, rivolto ai consiglieri: “Voi potete sconfiggere oggi la proposta del Movimento Friuli, ma non potete sconfiggere il problema che vi abbiamo posto, non potrete sconfiggere le ragioni che abbiamo portato in Consiglio regionale”.

 

“Quel trattino”

“Quel trattino”, è una azzeccata trovata giornalistica del direttore del quotidiano Messaggero Veneto e sta ad indicare, secondo il suo inventore, soltanto una affermazione del diritto dell’Italia sui territori allora (1947) sotto occupazione straniera. I1 trattino, ovviamente, è quello che separa il Friuli dalla Venezia Giulia. “Quando − scrive il direttore del quotidiano, Vittorino Meloni − nel ’47 si deliberò la quinta regione a Statuto speciale, diciamo apertamente che si pensava al Friuli. Il trattino che allaccia la Venezia Giulia, e che si potrebbe (e dovrebbe) costituzionalmente modificare, era soltanto una affermazione del diritto dell’Italia sui territori allora sotto dominazione straniera. Era una rivendicazione, ma non si sapeva, allora, nel ’47, quando e come questa dichiarazione di principio, di una mai dismessa sovranità sulle terre giulie, si sarebbe potuta tradurre in realtà”. E “Quel trattino”, appunto, è il titolo di un libro bianco sul dibattito sulla regione, pubblicato dal quotidiano udinese e contenente i numerosi interventi seguiti agli articoli del direttore, a cominciare dall’agosto del 1984, pochi mesi dopo che il Consiglio regionale aveva bocciato la proposta di legge costituzionale del MF per la istituzione della regione Friuli. Il dibattito, dicevamo, viene avviato dal direttore del quotidiano, con alcuni articoli che compaiono sul giornale nel mese di agosto del 1984, e nei quali Meloni pone sostanzialmente il problema della distinzione tra il Friuli e Trieste; per rimediare, dice, ad un errore che, se non è stato storico, è stato certamente politico. “L’interesse del Friuli e di Trieste, della regione, è che si trovi un modo, una via per arrivare là dove, in fondo, ci indicavano i costituenti, per accordare due specialità nel reciproco interesse e nel riguardo nazionale. Non consideriamo esaurita – avverte Meloni – la nostra parte. Abbiamo fatto quello che ci sembra giusto e, se ci accorgeremo che occorrerà un altro intervento, riprenderemo. Certo, non ci fermeremo qui.” Vittorino Meloni è stato di parola e, due anni dopo, sul Messaggero Veneto, riprende il tema della distinzione tra Friuli e Trieste. Il 14 dicembre 1986 cade di domenica, e di domenica, generalmente, il direttore in questione pubblica i suoi fondi in prima pagina, accanto alle foto a colori degli avvenimenti più importanti della giornata precedente. Ma il fondo di domenica 14 dicembre è un poco particolare, anche nel titolo: “Il Friuli da fare” ne è il titolo e Vittorino Meloni, con chiarezza, chiede agli esponenti politici, a tutti gli esponenti politici della regione, di farlo, una buona volta, il Friuli. Prendendo lo spunto dal fatto che la situazione politica è tale da non potersi escludere le elezioni anticipate. Meloni fa un discorso particolare per il Friuli. Ed avverte: “Se ci saranno consultazioni, è bene avvertire i competitori che l’argomento base da noi sarà la definizione della regione Friuli”, non di una regione qualsiasi, ma di una regione senza trattino. Non si vuole, dice ancora il direttore, né una divisione né una separazione: si chiede unicamente di dare al Friuli quello che gli è proprio, ed a Trieste un riconoscimento anche più ampio, in un concorso che non sia né di contrasto né di concorrenza, ma di distinzione tra le parti”. La distinzione, insomma, è il “leitmotiv” del ragionamento di Meloni, che chiede di dare al Friuli il ruolo di regione a sé, l’attestazione di quello che è stato concretamente nei secoli. “Naturalmente, la strada la sceglieranno i politici ed i costituzionalisti – continua -; referendum o revisione costituzionale non importa, ciò che conta è andare fino in fondo perché “ci batteremo perché questa idea non sia messa nel cassetto dei sogni. È l’ora della realtà”. È l’ora della realtà, per Meloni, ma è anche l’ora di un brusco risveglio per coloro che − e son tanti − speravano che il problema rimanesse nel cassetto dei sogni di quanti, come il Movimento Friuli, da tempo lavoravano per la istituzione della regione Friuli ma che, solamente due anni prima, si erano visti bocciare dal Consiglio regionale una proposta di legge per la istituzione di tale regione. Dopo lo “choc”, naturalmente, sono in molti a gettarsi nella dietrologia, vale a dire alla ricerca di una risposta alla domanda: “Chi sta dietro a Meloni e al Messaggero Veneto?” Il problema, comunque, era scoppiato nuovamente, e continuava a montare anche perché, con largo spazio, quotidianamente il giornale riportava numerose interviste alla gente di diversi paesi della regione, Trieste compresa. Neppure il Consiglio regionale – convocato di lì a pochi giorni per esaminare i bilanci regionali ed i programmi di sviluppo – poteva sottrarsi al problema, tant’è che, praticamente, ogni consigliere che interveniva sul bilancio era costretto a dire la sua sul problema. A Natale, assieme agli auguri, Meloni precisava alcuni punti fermi del suo pensiero: la distinzione tra Friuli e Trieste con il riconoscimento del Friuli come entità storica a sé stante; no ad una ricopiatura della situazione del Trentino-Sudtirolo, e puntualizzazione rispetto al problema della capitale regionale, senza soggiacere a “totem antichi e falsi”. Ai primi di gennaio, Meloni scrive un fondo per togliere le speranze agli improvvisati – e spesso interessati – dietrologi: dietro di me non c’è nessuno, afferma, se non il giornalista che vive a contatto diretto con la realtà, e che a questa realtà dà voce. Frattanto, qualcosa si muove, assieme alle polemiche bordate che arrivano, soprattutto da Trieste, contro Vittorino Meloni, il quotidiano ed i Friulani che sono in sintonia con l’idea della distinzione; in una riunione dei capigruppo regionali, il presidente della Giunta regionale, il DC Biasutti, propone l’istituzione di una commissione speciale per l’approfondimento e la rilettura dello Statuto. In perfetta sintonia, il Messaggero Veneto conclude la sua inchiesta, che ha riguardato un campione significativo della realtà regionale: ben 1030 sono state le interviste fatte in diversi paesi della regione Friuli. A questo punto, Meloni conclude i suoi interventi diretti sul giornale con un intervento nel quale parla di “sfida e di fiducia nel futuro”. “Il dado è tratto, dice, noi abbiamo fatto la nostra parte, quella di testimoni della pubblica opinione. Adesso, conclude, la parola passa alla commissione speciale della regione ed ai suoi saggi”- I saggi, però, – che sono tutti consiglieri regionali – cominceranno piuttosto male la loro attività, mettendosi subito a litigare sui contenuti e sulla composizione della commissione, talché il capogruppo consiliare del MF, De Agostini, che si era battuto per dare altri contenuti, affermerà che la commissione  “una volta esaurito il rituale delle nomine, cui parteciperanno solo alcune delle forze politiche presenti in Consiglio, rimarrà prigioniera delle contrapposizioni territoriali e dei rapporti di forza interni”. Comunque, il problema è stato posto all’attenzione della comunità friulana e delle forze politiche presenti in regione, come mai era successo in passato. “Adesso, scriveva nella presentazione al libro bianco il direttore del ‘Messaggero Veneto’, non si potrà né tornare indietro né ignorare che si deve andare avanti, fino alla definizione del diverso ruolo che hanno il Friuli e Trieste”. Molto probabilmente, però, un tanto non potrà avvenire in occasione del 40ennale della pubblicazione del primo progetto di Statuto regionale particolare (elaborato nel novembre del 1947 da don Giuseppe Marchetti, Elteredo Pascolo e dal prof. Gian Franco D’Aronco), ma comunque sarà necessario far presto. “I tempi lunghi non sono più corrispondenti ad un mondo che si modifica con velocità progressiva. Vogliamo sperare che non sarà lontano il giorno in cui questo libro bianco avrà un epilogo”, ha scritto ancora Vittorino Meloni, interpretando la speranza ed il sogno di tanti Friulani.