Il massacro degli armeni, lo sterminio dei nativi americani, la guerra civile in Ruanda, l’eccidio del popolo cambogiano, le pulizie etniche negli Stati della ex Jugoslavia e naturalmente l’Olocausto sono solo alcuni tra i più noti genocidi della storia perpetrati in modo vile e disumano ai danni, per lo più, di gruppi di persone più deboli, non risparmiando senza scrupolo alcuno anche donne e bambini, i più indifesi.
La definizione di genocidio adottata dall’ONU è quanto mai emblematica: “si intendono gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. I casi sopra citati sono tristemente passati alla storia per l’estrema tragicità e crudeltà, ma esistono altre carneficine altrettanto spaventose, assai meno note o addirittura sconosciute ai più, e proprio per questo motivo è giusto raccontarne le vicende.
Uno di questi genocidi “dimenticati” è avvenuto all’inizio del XX secolo nel continente africano e – sebbene sostanzialmente ignorato per anni nonché mai ammesso dai responsabili che hanno fatto di tutto per negare le proprie colpe – ha rappresentato uno degli eventi più drammatici nella storia dei gruppi autoctoni del continente nero: parliamo del massacro degli herero, un fiero popolo di allevatori d’origine bantu stanziato nei territori dell’attuale Namibia, per mano dei coloni tedeschi della Germania del Secondo Reich. 1) Una storia molto poco “reclamizzata” che vale la pena approfondire.

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Namibia a inizio XX secolo.

Chi sono gli herero?

Attualmente insediati per la maggior parte in Namibia, con gruppi minoritari nei vicini Botswana e Angola, gli herero o ovaherero sono principalmente conosciuti come abili allevatori impiegati nelle grandi fattorie dell’Africa sud-occidentale. Attestandosi attorno alle 120.000 unità, non sono in questo momento a rischio estinzione in senso stretto, ma sono stati sfortunati protagonisti tra il 1904 e il 1909 di uno dei più barbari tentativi di sterminio della storia. Gli invasori tedeschi, che avevano occupato il territorio in cui da secoli risiedeva la popolazione facendone la prestigiosa colonia dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest, hanno vigliaccamente ucciso addirittura l’80% dei membri del gruppo etnico. Per anni la Germania ha fatto di tutto per tenere la polvere nascosta sotto il tappeto, lasciando che venisse steso un velo di silenzio su questo agghiacciante episodio e sfuggendo alle proprie responsabilità: solamente con l’inizio del XXI secolo è cominciata una parziale ammissione di colpa teutonica con scuse formali, senza tuttavia che le richieste di risarcimento dei discendenti delle vittime del massacro venissero giustamente ripagate per le crudeltà patite dai loro avi. Negli ultimi anni alcuni rappresentanti herero hanno trascinato la Germania in tribunale a New York: il contenzioso è tuttora aperto e appare di non semplice soluzione.
Ma chi sono veramente gli herero? E da dove arrivano? Si tratta di un gruppo etnico dell’ampia famiglia bantu originaria di una vasta zona a cavallo tra gli attuali Camerun e Nigeria: parlano infatti una lingua bantu, l’herero o otjiherero, e si crede che anticamente fossero insediati nell’Africa centrale o centro-orientale, in aree quindi ben distanti dalla Namibia. In Namibia vivevano altri popoli, tra cui il più importante era quello dei san o boscimani, il primo ad abitare il deserto namibiano, al quale solo successivamente si erano aggiunti i gruppi ottentotti dei nama o namaque e dei damara. È accertato che a partire dal XIV secolo alcuni gruppi bantu, tra cui gli ovambo, 2) iniziarono a giungere nella regione: la presenza herero viene fatta risalire più avanti, intorno al XVII secolo circa quando sicuramente furono protagonisti di un’ingente e lunga migrazione probabilmente dalla regione dei Grandi Laghi. 3) In un primo momento si stabilirono nella parte settentrionale dell’odierno Stato nel territorio del Kaokoland, 4) in seguito nel XVIII secolo diversi gruppi si spostarono verso sud occupando la valle del fiume Swakop e l’altipiano centrale della Namibia.
Il territorio andava così dal massiccio del Kaokoveldt, che si affaccia sulla costa dell’Oceano Atlantico fino all’altezza di Capo Frio, alla regione dell’altipiano centrale, il Damaraland, dove sorge l’attuale capitale namibiana Windhoek. Nella parte settentrionale il loro territorio confinava –
grosso modo alla frontiera con l’Angola – con un’area occupata dagli affini ovambo. Il popolo herero è composto da diversi sottogruppi in base al luogo di insediamento, i quali però parlano tutti la stessa lingua, presentano la medesima struttura sociale e praticano e adottano riti e usanze culturali identiche. Nel Kaokoland vi sono tjimba e ndamuranda, nella zona di Okahandja i maherero, nell’area di Omaruru i zearaua, nell’Hereroland i mbanderu e i kwandu.

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L’altipiano di Waterberg.

Allevatori di bestiame con un’eredità “complementare”

A differenza della maggior parte dei popoli bantu che sono tradizionalmente agricoltori di sussistenza, gli herero si distinguono come organizzati allevatori del bestiame grazie al quale si guadagnano da vivere e che rappresenta, concretamente e simbolicamente, il centro motore del loro universo socio-culturale. Ancora oggi la realtà herero è incentrata sul possesso del bestiame che viene ritenuto una grandissima ricchezza: il prestigio sociale viene valutato in base al numero di capi posseduti. Gli herero decisero infatti di stabilirsi proprio nei territori della Namibia settentrionale e centrale in quanto più ricche di pianure rispetto ad altre aree africane, accanto ad altre zone steppiche ma altrettanto adatte ai pascoli.
L’intera economia tribale ha da sempre ruotato intorno alla pastorizia: essi sono soliti allevare ovini ma soprattutto bovini dai quali ricavano numerosi prodotti quali carni, latte, pelli e corna, utilissimi non solo per il sostentamento ma anche per essere venduti o barattati con altre merci. Carni, pelli e corna ottenuti dall’allevamento così come dalla caccia (poco praticata) vengono scambiati con zucchero, tè e tabacco. Il bestiame viene normalmente mangiato anche durante feste come i matrimoni, mentre nelle cerimonie religiose vengono offerti in sacrificio diversi animali come le mucche.

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Tribù herero.

In età contemporanea è chiaramente aumentato il numero di herero che sono costantemente impiegati in attività prettamente commerciali in città, anche se fortunatamente la pastorizia non è per nulla scomparsa. Tuttavia molti membri della comunità, in seguito ai tragici eventi di sangue che li ha riguardati in prima persona, non hanno più avuto l’assoluta libertà di praticare la propria attività e sono stati costretti a lavorare, sempre come allevatori o talvolta agricoltori, nelle grandi fattorie di proprietà dei bianchi.
Fino all’avvento dei coloni tedeschi la divisione di ruoli e attività all’interno della società indigena era piuttosto chiara e marcata: gli uomini si occupavano del commercio e soprattutto portavano al pascolo i bovini i quali, durante la lunga stagione secca, venivano spostati di continuo per accaparrarsi i pascoli più favorevoli. Era tradizionalmente nota la spiccata abilità dei pastori herero nel trovare sorgenti d’acqua nascoste, anche in zone steppiche o semidesertiche. Le donne erano invece impegnate nell’irrigazione e coltivazione di piccoli campi, allevavano pecore e capre e si dedicavano alla mungitura delle mucche, svolgevano le principali faccende domestiche e crescevano i loro figli.
Proprio dalle mucche è possibile ricavare lo squisito latte acido chiamato omaere. Da capre e pecore, oltre a carne e latte, gli herero ottengono pelli che utilizzano per realizzare particolari marsupi per bambini e per ornamenti domestici, mentre lo sterco di questi animali funge da medicinale, adoperato in particolare come cura contro la varicella. Ancor oggi gli indigeni sono profondi conoscitori delle proprietà delle piante e degli arbusti autoctoni; in talune situazioni, piuttosto che ricorrere alla medicina occidentale, preferiscono affidarsi alle loro ricette tradizionali basate sull’uso di foglie, fiori, frutti, radici e cortecce per realizzare medicamenti e infusi.
Ma l’aspetto più interessante della società herero risiede nella complessa gerarchia sociale propria del gruppo etnico: si tratta di un sistema di natura bilaterale ma complementare tra l’eredità matrilineare chiamata eendag e quella patrilineare definita oruzo. Concretamente, si traduce in un duplice processo di lasciti ed educazione in cui la madre lascia ai figli il bestiame e tutti i beni materiali mentre il padre deve provvedere alla loro educazione civile e religiosa, trasmettendo loro i beni spirituali come le reliquie sacre, ma soprattutto garantendo che riescano a comprendere e incorporare pienamente i valori immateriali della cultura degli antenati.
Un altro elemento fortemente caratteristico della cultura herero è l’abbigliamento: le donne indossano abiti particolari adottati durante il periodo coloniale e ispirati alla moda occidentale dell’epoca, caratterizzati da una grande crinolina con diverse sottogonne e il tipico copricapo a forma di corno, tutt’oggi marchio inconfondibile. Questo particolare vestiario fu imposto dai tedeschi, i quali ritenevano inaccettabili gli abiti succinti che le donne herero erano solite indossare prima della venuta degli europei, e per tale motivo le obbligarono a mettersi esclusivamente questi lunghi e corposi vestiti, ancora oggi realizzati con stoffe colorate arricchite di disegni geometrici. Chiaro come il nuovo abbigliamento, profondamente diverso da quello originario locale, sia stato una ferrea imposizione dei dominatori stranieri, ma è anche vero che le stesse donne con il passare degli anni non solo l’hanno pienamente accettato ma, con alcune modifiche come l’utilizzo di stampe e colori più vivaci, ne hanno fatto una nuova usanza, motivo di orgoglio e di identificazione di genere e di gruppo.

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Ohorokova indossato da donne herero.

L’obbligo aveva riguardato esclusivamente le donne: le polemiche erano indirizzate alla nudità di parti del corpo femminile come il seno, e gli scandalizzati missionari tedeschi avevano esercitato forti pressioni per imporre un codice di abbigliamento che intimasse loro di coprirsi. Il vestiario maschile non subì quindi sostanziali modifiche: nella maggior parte dei casi, per tutti i gruppi herero, si trattava di un gonnellino di pelli. Al giorno d’oggi hanno anch’essi adattato gli abiti a modelli più europei, in particolare gli herero di città. Le uniche distinzioni all’interno dell’abbigliamento femminile riguardano le sposate e anziane, che ancora indossano tutti i giorni gli ohorokova (gli abiti tradizionali a collo alto con gonne voluminose che incorporano più sottovesti fino a 10 metri di tessuto), mentre le giovani ragazze nubili lo fanno esclusivamente in circostanze speciali.
Il copricapo cornuto orizzontale chiamato otjikaiva simboleggia il rispetto, e si indossa per rendere omaggio alle mucche che da sempre garantiscono la sopravvivenza al popolo herero. Qui si manifesta l’importanza del bestiame per l’intera società in quanto, oltre all’aspetto pratico, esso costituisce un valore sacrale e simbolico fondamentale: l’otjikaiva viene prodotto con rotoli di stoffa colorata e la sua forma con due visibili protuberanze laterali vuole richiamare le corna della mucca. Questo curioso stile di abbigliamento tribale è in continua evoluzione, tanto che nella città di Windhoek vi sono designer che provano ad aggiornare i vestiti herero per adattarli alle nuove tendenze modaiole… non senza critiche. Oggi, infine, i maschi herero indossano durante occasioni cerimoniali abiti in stile militare con cappelli a visiera, berretti, spalline e ghette per onorare i compagni caduti durante il genocidio, mantenendone costantemente vivo il ricordo. Una leggenda narra che questa usanza sia nata proprio tra il 1904 e il 1907, quando alcuni guerrieri herero sarebbero riusciti a rubare le uniformi dei tedeschi uccisi convinti, così facendo, di assorbire il potere dei soldati morti.

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Otjikaiva, copricapo tradizionale.

Dal punto di vista religioso gli herero praticavano culti di natura animista; tuttavia l’avvento dei tedeschi ha comportato la parziale perdita di queste tradizioni, tanto che oggi molti di loro sono cristiani, principalmente cattolici o luterani. Le notizie disponibili sul complesso di credenze ancestrali suggeriscono che gli herero avessero fede nell’esistenza di okuruo (il fuoco santo) che permetteva ai vivi di mettersi in contatto con gli avi defunti e parlare con loro. Una superstizione ancora attuale nella moderna cultura herero è la presenza degli omuroi, demoni legati alla stregoneria che fanno visita alle persone durante la notte: i malcapitati, non riuscendo a dormire, sono costretti a tenere candele accese perché questi demoni non sopportano la luce. Alcune persone fanno ricorso a medici spirituali che celebrano vere e proprie cerimonie per scacciare gli omuroi.
La lingua parlata dal popolo herero è l’otjiherero, idioma del gruppo nigero-congo della famiglia bantu: attualmente conta circa 237.000 locutori localizzati principalmente nel cosiddetto Hereroland, nelle regioni di Omaheke, Otjozondjupa e Kunene, con significative minoranze nell’area della capitale namibiana Windhoek, nelle altre città principali, nella zona di Ghanzi in Botswana e in alcune aree del sud-ovest dell’Angola. L’otjiherero è una lingua unitaria, ma esistono diversi dialetti locali come l’oluthimba o otjizemba, l’otjihimba e l’otjikuvale, alcuni dei quali sono spesso classificati come lingue separate. Alla fine del XIX secolo il missionario Gottlieb Viehe tradusse la Bibbia in herero utilizzando un alfabeto con caratteri latini. L’idioma herero viene oggi comunemente usato dai media namibiani, e all’interno dello Stato viene insegnato nelle scuole sia come lingua madre sia come seconda lingua, in base alle diverse zone. È anche incluso come materia principale nei programmi ufficiali dell’Università della Namibia.

Il rapporto con i popoli africani

Fin dal loro arrivo nei territori namibiani gli herero entrarono spesso in conflitto per il controllo dei pascoli con altre popolazioni africane, di etnia boscimane, ottentotta e anche bantu. Si verificarono conflitti tribali con gli stessi ovambo che, situati a ovest dell’area nella quale si erano insediati gli herero, li ricacciarono verso sud. Ma i contrasti più significativi per durata e intensità si ebbero con i nama, popolo ottentotto specializzato nella lavorazione del ferro e della ceramica: inizialmente cacciatori, si erano in seguito reinventati come allevatori di ovini e bovini. Questa circostanza segnò la nascita dei conflitti tra i due gruppi: l’allevamento era il perno dell’intero sistema socio-economico regionale e accaparrarsi le terre migliori adibite a pascolo diventava di conseguenza la principale missione di tutte le comunità etniche, disposte per questo a farsi la guerra.
Fino al XIX secolo i conflitti furono comunque sporadici e mai si tramutarono in vere e proprie guerre tribali: la situazione degenerò nel corso dell’Ottocento. La necessità di garantirsi il controllo totale dell’altipiano del Damaraland nella Namibia centrale scatenò la guerra aperta tra nama ed herero con i primi che, guidati dal loro capo Jonker Afrikaaner, riuscirono ad avere la meglio sottomettendo i rivali, grazie soprattutto all’utilizzo delle armi da fuoco che i nama avevano acquistato dagli europei. Le conseguenze per gli herero furono terribili: sostanzialmente decimati (è stato stimato che già in questa fase bellica la popolazione si fosse ridotta del 75%), i sopravvissuti in fuga si dispersero ancor più all’interno e all’esterno della Namibia, in direzione degli attuali Angola e Botswana.
È in queste circostanze che gli himba, 5) popolazione che inizialmente era un sottogruppo della famiglia herero, per sfuggire alle ripetute aggressioni nama si staccò dal nucleo centrale compiendo una migrazione e, una volta oltrepassato il fiume Kunene, raggiungendo l’Angola. Si tratta di un fatto importante poiché questo esodo coatto segnò la definitiva separazione degli himba dai “progenitori” herero e provocò una significativa differenziazione culturale negli anni a venire: con il tempo gli herero si specializzarono sempre più nell’allevamento intensivo e sedentario e, in misura minore, nell’agricoltura, mentre gli himba hanno continuato a mantenere fino a oggi il loro status di pastori nomadi. La progressiva mancanza di contatti tra i due gruppi è stata determinante per la scissione, tanto che ora gli himba, pur strettamente affini agli herero con i quali condividono il medesimo idioma, sono considerati un popolo a sé stante. Gli herero andarono così a costituire il ramo più occidentale delle popolazioni meridionali appartenenti all’etnia bantu.
Dopo la prima fase di schiaccianti vittorie dei nama (1835-1860) che avevano occupato i pascoli dell’altipiano centrale, gli herero, pur falcidiati, si dimostrarono in grado di riorganizzarsi e ribaltare le sorti del conflitto. A complicare la situazione per i nama contribuì una migrazione di altre popolazioni ottentotte da sud, in particolare dalla Colonia del Capo (grosso modo l’odierno Sud Africa), le quali per sfuggire alle persecuzioni europee raggiunsero la Namibia alla ricerca di pascoli. Esse riuscirono a sconfiggere i nama impadronendosi di una parte dell’area centrale.
Contemporaneamente nel 1861 moriva Jonker Afrikaaner, leader carismatico che non solo si era distinto come grande generale in battaglia, ma aveva rappresentato per i nama una figura di primo piano, vera e propria guida per l’intera popolazione. Di questa situazione d’incertezza approfittarono gli herero, che si ribellarono agli antichi rivali: il nuovo capo nama Hendrik Witbooi non si dimostrò all’altezza del suo illustre predecessore e non fu capace di arginare l’insurrezione herero.
Ne seguì un periodo di guerra fino al 1870 ripreso poi tra il 1880 e il 1882: la nuova fase di quelle che sono state definite “guerre nama-herero” si contraddistinse per un incremento – se possibile – della violenza in quanto entrambi i gruppi disponevano ora armi da fuoco, vendute da commercianti bianchi. In questi anni furono gli herero a trovare una guida trascinante in Tjamuha Maharero e successivamente in suo figlio Samuel Maharero, i quali contribuirono a creare una prima forma di organizzazione politica centralizzata, unendo tutte le tribù herero che in precedenza vivevano sostanzialmente distinte e abbastanza isolate le une dalle altre. Gli herero riuscirono così a riconquistare parte dei territori in precedenza persi e, quantomeno, a riequilibrare il livello tra i contendenti limitando notevolmente la supremazia nama. Le guerre non terminarono di colpo, ma a breve sarebbe entrato in gioco un nuovo contendente, una potenza europea che avrebbe cambiato per sempre non solo le sorti delle guerre tribali in Namibia ma l’intera storia del popolo herero.

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Samuel Maharero.

L’arrivo dei tedeschi: la colonia dell’Africa del Sud-Ovest

Negli ultimi decenni del XIX secolo, il colonialismo era diventato il principale obiettivo politico delle grandi potenze europee per primeggiare le une sulle altre: si era così innescato un frenetico meccanismo di ricerca di nuovi territori, un espansionismo incontrollato che aveva portato all’occupazione di quasi tutto il continente africano, ora nuovo terreno di scontro per le rivalità europee. La Germania si era inserita tardivamente nella gara: fino al 1880 il cancelliere Bismarck si era dichiarato contrario all’incorporamento di nuovi territori oltreoceano, ritenendola una politica fortemente dispendiosa nonché dannosa per il mantenimento di buoni rapporti con la Gran Bretagna. Tuttavia, in seguito a forti pressioni esercitate dalla Lega pangermanista, sostenuta da alta finanza e marina che miravano alla costituzione di un vero impero d’oltremare, decise di lanciarsi nell’avventura coloniale.
Il Secondo Reich dovette accontentarsi dei luoghi non ancora occupati dagli altri Stati, ma riuscì nonostante tutto a dare vita a un esteso e organizzato impero. Proprio la Conferenza di Berlino (15 novembre 1884 – 23 febbraio 1885) segnò le sorti dell’Africa con le grandi potenze europee che si spartirono il continente nero. La Germania ottenne ufficialmente il protettorato sull’Africa sud-occidentale, Camerun, Togo, Africa orientale e successivamente su altri arcipelaghi nel Pacifico. In realtà i tedeschi avevano già cominciato a popolare in parte la zona dell’attuale Namibia a partire dalla primavera del 1883, allorché il commerciante di Brema, Franz Adolf Eduard Luderitz, aveva posto il primo insediamento teutonico nella baia di Angra Pequena, avendo acquistato l’intera area da un capo indigeno. In seguito, il 24 aprile 1884, il governo tedesco aveva preso in carico la proprietà di Luderitz e dichiarato colonia tedesca l’intero territorio corrispondente a una buona parte della Namibia moderna, regione compresa tra i fiumi Orange e Kunene che marcavano rispettivamente il confine a sud con la Colonia del Capo governata dagli inglesi e a nord quella portoghese dell’Angola. Il tutto venne per l’appunto ratificato e reso ufficiale a livello internazionale con la Conferenza di Berlino qualche mese più tardi: era così sorto il Protettorato tedesco dell’Africa Sud-Occidentale.
Prima del riconoscimento internazionale della nuova colonia, la Germania non aveva ancora iniziato a occupare seriamente il nuovo territorio: lo spostamento cominciò quindi nel 1885, quando vennero inviati 2000 coloni in quello che veniva considerato l’unico luogo d’oltremare realmente favorevole allo stanziamento dei bianchi tra i luoghi acquisiti dalla madrepatria con la Conferenza di Berlino. L’altipiano centrale della Namibia presentava infatti caratteristiche geomorfologiche e climatiche assimilabili ad alcune aree della Germania meridionale grazie alle quali i tedeschi si sarebbero potuti adattare più facilmente rispetto ad altre colonie africane: la natura arida e relativamente fredda dell’area centrale – ma nel contempo adatta alla coltivazione della terra e all’allevamento – favorì il popolamento europeo, in particolare tra i 1600 e i 1700 metri d’altitudine, tanto che la capitale Windhoek venne costruita a 1680. Inoltre si trattava di una zona scarsamente popolata rispetto ad altre sezioni del continente africano. I tedeschi erano attirati pure dai ricchi giacimenti di materie prime: tungsteno e uranio, e più a sud rame, stagno, oro e diamanti.
Essi approfittarono anche delle accese rivalità tra le popolazioni locali, in particolare le guerre in corso tra nama ed herero. Proprio a causa della difficile situazione bellica che li vedeva coinvolti da decenni, questi ultimi non opposero resistenza e stipularono accordi con i coloni riconoscendo formalmente il loro protettorato nel 1885. Gli herero speravano di ricevere in cambio un aiuto nella cruenta guerra contro i nama, ma non ne avrebbero ricavato nulla di buono. Dal canto loro i tedeschi erano giunti in quelle terre esotiche con la convinzione di avere il pieno diritto – al pari di tutti gli altri europei – di occuparle, sfruttarle e dominarle: non solo si ritenevano giustificati all’annessione territoriale di luoghi dove per secoli avevano abitato altri gruppi etnici, ma anche ad appropriarsi delle loro attività, espressione sociale e culturale delle civiltà autoctone.
Queste folli certezze derivavano da una più complessa ideologia di superiorità razziale che, propagata dagli ambienti pangermanici, si era ben radicata in patria già nel XIX secolo e vedeva la sua perfetta realizzazione nel nazionalismo e nel colonialismo. Era bensì la traduzione pratica della teoria del Lebensraum 6) del famoso geografo Friederich Ratzel, 7) che forniva la giustificazione a un’aggressiva politica espansionistica a discapito degli altri Stati, ma soprattutto delle popolazioni che abitavano i territori d’oltremare, ritenuti appunto inferiori biologicamente e culturalmente. Queste becere ideologie apertamente razziste mossero le spedizioni di conquista del nascente impero tedesco in tutto il mondo verso la fine dell’Ottocento. Nello specifico caso namibiano, partendo dalla considerazione che gli autoctoni fossero dei sotto-uomini, i tedeschi ritennero non solo lecito ma addirittura doveroso violare qualsiasi tipo di diritto nei loro confronti.
Essi instaurarono un regime di discriminazione razziale basato su confische di beni e bestiame, soprusi e umiliazioni continue ai nativi e alle loro tradizioni, violenze ripetute perpetrate anche nei confronti delle donne. Inizialmente le terre e il bestiame erano quasi tutti nelle mani di herero e nama ma, proprio per il diffuso sentimento di assoluta superiorità, i tedeschi non si fecero scrupoli a prenderseli con la forza. Con l’appoggio del governo coloniale, nonostante l’opposizione di diversi missionari, i coloni furono incoraggiati a rubare la terra agli indigeni, espropriando le aree coltivabili, quelle adibite a pascolo e le mandrie stesse. Il potere venne consolidato grazie a ulteriori “trattati di protezione”, i quali in realtà avevano tutt’altro scopo che quello di proteggere i nativi: attraverso questi decreti, che gli indigeni furono obbligati a sottoscrivere, i tedeschi riuscirono ad appropriarsi ufficialmente di tutti i loro averi.
I nativi non avevano alcuna protezione legale e pertanto, non potendo opporsi all’usurpazione, una volta perse le loro terre divennero schiavi dei padroni europei e impiegati a lavorare nelle loro fattorie o nelle miniere di diamanti sfruttate dai tedeschi. Molti herero, facendosi prestare soldi a interessi elevatissimi, arrivarono a indebitarsi a tal punto con gli europei che quasi sempre non furono in grado di ripagarli e, di conseguenza, persero ogni bene; e queste confische si aggiunsero a quelle arbitrarie dei militari. Con tali provvedimenti i coloni distrussero le basi economiche delle società herero e nama. Allorché gli indigeni provavano a opporsi alle confische – non rispettando i trattati che erano stati obbligati a firmare o, indebitati, tentando di ribellarsi all’autorità coloniale – i soldati tedeschi requisivano terre coltivabili e bestiame con la forza, compiendo violenze, torture e stupri.
I gruppi autoctoni vivevano da segregati e perseguitati, ed erano per la maggior parte schiavi degli europei: questa terribile situazione suscitò un malcontento generale che si tradusse in diverse rivolte indigene. A complicare ulteriormente le cose contribuì nel 1887 lo scoppio di un’epidemia di peste bovina che decimò il bestiame; i pochi membri delle comunità locali ai quali non erano ancora stati sottratti gli armenti entrarono in crisi definitiva in quanto, rispetto al passato, non potevano ripiegare su un’altra attività lavorativa come l’agricoltura essendo tutte le terre fertili e coltivabili divenute possesso dei tedeschi. L’unica alternativa era la ribellione. I primi a insorgere nel 1893 furono i nama guidati da Hendrik Witbooi; rapidamente sconfitti l’anno seguente, il loro leader fu costretto a collaborare con i coloni. Nel 1896 fu il turno degli herero che, organizzatisi abbastanza in fretta, tentarono di sovvertire lo status quo, ma anche in questa circostanza i tedeschi ebbero facilmente la meglio e in poco tempo ripristinarono la situazione, riaffermando la loro egemonia e inasprendo ancor più, se possibile, la dominazione sui nativi.
Nel 1900 si registrò il primo tentativo congiunto delle popolazioni herero e nama di attaccare l’usurpatore: seppur con qualche difficoltà in più rispetto agli anni precedenti, i tedeschi riuscirono velocemente a soffocare nel sangue la nuova insurrezione con l’aiuto di truppe speciali appositamente giunte dall’Europa. Nel 1903-1904 toccò invece alla tribù dei bondei, insediata nell’area meridionale della Colonia dell’Africa Sud-Occidentale nei pressi del fiume Orange che determinava il confine con la Colonia inglese del Capo: anche la loro rivolta venne duramente repressa.
Era ormai chiaro a tutti che anche la Germania poneva in atto un truce comportamento nei confronti dei popoli nativi come le altre grandi potenze europee. I governanti tedeschi, forti della loro netta supremazia militare, non si curarono minimamente di queste ribellioni tribali di fine Ottocento, continuando a portare avanti la sistematica espropriazione di terre e mandrie appartenenti alle genti del luogo. Per questi motivi le nuove sommosse che sarebbero scoppiate da lì a poco non giunsero inaspettate: il rifiuto del governo coloniale di fare fronte alla difficile situazione socio-economica dei nativi che vivevano come schiavi è da considerarsi indubbiamente l’origine dell’innesco dei futuri tumulti che, questa volta più di tutte, avranno esiti tragici.

L’insurrezione herero

I tedeschi erano talmente sicuri della propria forza bellica da essere convinti di poter domare agevolmente qualsiasi accenno d’insubordinazione. Sottovalutarono così le motivazioni intrinseche delle precedenti rivolte locali irrigidendo il giogo del loro dominio, opprimendo sempre più le genti sottomesse e, dopo aver ripetutamente attuato intimidazioni e commesso violenze e angherie contro le persone, le sottoposero a ulteriori umiliazioni iniziando a dissacrarne cultura e tradizioni, profanando usi, costumi e luoghi religiosi. Nel 1903 gli invasori abbatterono gli alberi sacri del cimitero herero di Okahandja per erigere al loro posto una fattoria coloniale, mentre il comandante della guarnigione locale, il tenente Ralph Zurn, fu visto saccheggiare le tombe degli antenati locali alla ricerca di crani da prelevare e mettere in commercio: traffico macabro ma parecchio redditizio.
Questi episodi rappresentarono le gocce che fecero traboccare il vaso stracolmo di soprusi nei confronti degli africani, i quali insorsero in quella che viene definita la terza rivolta degli herero e dei nama. Era l’inevitabile conseguenza di anni di ingiustizie, vessazioni, crudeltà e sevizie: i coloni avevano calpestato ogni possibile diritto indigeno. La rivolta della tribù bondei nel 1903 aveva costretto il governatore Theodor Leutwein, ufficiale dell’esercito imperiale, a trasferire buona parte delle truppe nella zona centro-meridionale del protettorato nei pressi del fiume Orange, sguarnendo contemporaneamente l’area dell’altipiano centrale. Inoltre i pochi soldati rimasti nella Namibia centro-settentrionale avevano approfittato dell’assenza del comandante in carica per infierire sulla popolazione locale, incrementando saccheggi e stupri e ricorrendo addirittura a delitti sommari nei confronti sia di esponenti herero sia di civili che non erano attivi nella battaglia contro gli stranieri.
Ai primi di gennaio la presenza militare europea a nord di Windhoek appariva risicata e non particolarmente pronta a combattere. Per tali motivi i capi locali lo ritennero il momento opportuno per sferrare la prima offensiva di una rappresaglia meglio organizzata rispetto alle precedenti: il 14 gennaio insorsero cogliendo di sorpresa i tedeschi e riuscirono a uccidere 123 coloni, soldati e civili, risparmiando donne, bambini e missionari. Il piccolo presidio di Waterberg fu interamente annientato, i militari massacrati, vittime della rabbia accumulata in anni di torture e persecuzioni. Gli insorti guidati da Samuel Maharero distrussero in parecchi punti la linea ferroviaria tra Windhoek e Swakopmund, città che costituiva il principale porto dell’area costiera centrale, poco a nord della Baia della Balena: si trattava di una mossa abilmente calcolata in quanto il tratto ferroviario era un punto strategico, nodo nevralgico della comunicazione tra il cuore della colonia e l’esterno. Con le comunicazioni interrotte, gli herero si assicurarono il controllo di tutta l’area centro-settentrionale del possedimento e per alcuni mesi Maharero assunse il ruolo di governatore de facto della regione. In queste prime azioni violente gli indigeni non uccisero neanche i pochi coloni di origine britannica e boera, il loro bersaglio erano solamente i tedeschi.
Nella prima fase del conflitto gli herero sconfissero i coloni più volte in battaglie in campo aperto fino ad accerchiarli a Oviumbo, da dove i tedeschi riuscirono a battere in ritirata tra mille difficoltà. Leutwein fu costretto a posizionare l’esercito sulla difensiva nei pressi di Windhoek, non potendo far altro che aspettare i rinforzi provenienti dall’Europa. Non furono momenti facili in quanto l’intera Namibia centro-settentrionale era caduta nella mani dei “rivoltosi” e toccava adesso ai coloni vivere nella paura. Fu a questo punto che gli herero commisero un errore rivelatosi fatale ai fini della contesa: pensando di aver vinto la guerra e di essersi liberati una volta per tutte dell’opprimente giogo teutonico, scelsero di ritirarsi sull’altipiano di Waterberg smettendo di minacciare direttamente la capitale assediata. Contemporaneamente i nama, che erano d’accordo con gli herero nel combattere i tedeschi, temporeggiarono e non iniziarono le operazioni belliche. Probabilmente se l’avessero fatto avrebbero inferto un colpo decisivo alle sorti della Germania. I nama insorgeranno invece solamente in seguito, quando l’eccidio degli herero da parte dei coloni era quasi terminato.
Nel frattempo queste due circostanze permisero ai tedeschi di riorganizzarsi, Leutwein fu costretto a richiedere ufficialmente al governo centrale rinforzi, e l’11 giugno e il 20 luglio sbarcarono numerose truppe provenienti dalla madrepatria. Si trattava di oltre 20.000 uomini, ben armati con artiglieria pesante, capeggiati dall’esperto generale di fanteria Lothar Von Trotha, 8) famoso per i suoi metodi crudeli e repressivi: egli si era distinto per avere represso nel sangue (1.200.000 morti e testa del capo Mkwawa inviata come trofeo in Germania) la rivolta degli hehe nella zona centrale della Colonia Tedesca dell’Africa Orientale tra il 1891 e il 1898, e la ribellione dei boxer 9) in Cina nel 1900. Il veterano Von Trotha aveva in testa un piano preciso: accerchiare gli herero con la cavalleria per chiuderli e catturarli tutti. Questa strategia era favorita dalla natura aperta e semidesertica della regione, assolutamente inadatta ad azioni di guerriglia da parte degli indigeni. Essi erano inoltre gravati dalla presenza di donne, bambini e mandrie di bovini, indispensabili per la loro sussistenza: i tedeschi ne approfittarono per attaccarli l’11-12 agosto 1904 nell’altipiano di Waterberg.
Una cruenta battaglia vide affrontarsi un contingente di quasi 20.000 soldati contro 5000 herero i quali, nonostante l’evidente svantaggio numerico e di mezzi, tennero valorosamente testa ai più esperti e meglio equipaggiati militari europei, subendo ingenti perdite ma riuscendo incredibilmente ad aprirsi una via di fuga a est e vanificando l’accerchiamento nemico. I tedeschi si lanciarono immediatamente all’inseguimento ricacciando e spingendo gli herero nel deserto dell’Omaheke (il Kalahari) a est delle paludi dell’Etosha. Braccati dalla cavalleria tedesca, costretti ad affrontare le durissime condizioni di una delle aree più impervie del èianeta, stremati da sole, fame, sete ed esaurite le munizioni, molti perirono durante la traversata. Solamente un ristretto contingente di circa mille persone, ancora una volta capeggiato da Samuel Maharero, fu in grado di raggiungere il territorio del Bechuanaland – l’odierno Botswana, allora protettorato britannico – dove trovarono asilo politico e rimasero per sempre.
Il complesso degli scontri tra la popolazione locale e i coloni a partire dal 1904 è conosciuto come “guerre herero”. A questa insurrezione parteciparono anche i nama: essi si ribellarono ai tedeschi quando, come detto, probabilmente era già troppo tardi. Nell’ottobre 1904, con gli herero in ritirata disperata tra le dune del Kalahari, i nama si sollevarono guidati da Witbooi, stavolta affiancato da Jakob Morenga (soprannominato il “Napoleone Nero”): protagonisti di una tenace guerriglia, non seppero vincere gli europei che, avendo avuto il vantaggio di affrontare le due popolazioni separatamente, non ebbero troppe difficoltà a sconfiggerli e reprimerli duramente. Entrambi i gruppi etnici saranno infatti tristemente vittime di un orribile sterminio.

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Lothar Von Trotha.

L’inizio dello sterminio nel deserto

Le perdite umane per gli herero durante la guerra furono significative, ma la vera tragedia si consumò all’indomani della battaglia di Waterberg quando i tedeschi si misero a inseguire i superstiti nel Kalahari. Lo spietato Von Trotha perseguì un vero e proprio piano di sterminio dell’intero gruppo etnico, appoggiato e approvato dal governo centrale di Berlino nonostante le forti polemiche che questa richiesta aveva suscitato. Non tutti i tedeschi erano infatti favorevoli al massacro indiscriminato dei popoli nativi, una volta vinti sul campo di battaglia. Lo stesso governatore Leutwein aveva da sempre preferito scendere a patti con i nemici, favorendo la strada diplomatica della mediazione e delle trattative. Questo suo atteggiamento non era però condiviso dalla maggior parte dei coloni in Namibia e soprattutto da Berlino, e perciò al governatore era stato sostanzialmente tolto il potere, affidato al più risoluto Von Trotha.
Già prima della decisiva battaglia di Waterberg, Leutwein aveva suggerito di avviare una trattativa con Samuel Maharero per siglare un accordo di pace e porre così fine alle ostilità. La linea considerata “morbida” di Leutwein era stata osteggiata e poi definitivamente affossata a causa delle continue e forti pressioni degli ambienti nazionalisti in patria, indefessi sostenitori del colonialismo. Anche in seguito a manifestazioni messe in atto dai coloni in Africa, era purtroppo prevalsa la volontà di proseguire e portare a termine la guerra, insieme a quella ancora peggiore di sterminare tutti gli indigeni.
Il reale problema stava nel fatto che la rivolta herero aveva gravato enormemente sulla Germania in termini finanziari e umani; cosa ancora più inaccettabile, aveva costituito un’onta alla reputazione nazionale che andava lavata al più presto con il sangue. Gli herero infatti erano rimasti sostanzialmente padroni di un’ampia area del protettorato per sette mesi, riuscendo a tenere testa, anche nella battaglia di Waterberg, a un esercito più forte e numeroso. In tal modo avevano attirato le simpatie della rivale Inghilterra e minato alcune certezze belliche tedesche, non facendo fare allo Stato teutonico una bellissima figura sul piano internazionale. Da qui si affermò l’idea di quello che possiamo classificare come il primo genocidio sistematico del Novecento, concepito e portato avanti fino alla quasi totale realizzazione dell’obiettivo: la distruzione ultima dell’intero gruppo etnico.
A queste motivazioni se ne sommarono altre di carattere prettamente razzista: i tedeschi, fermamente convinti di appartenere a una razza superiore e pura, consideravano gli autoctoni africani come selvaggi primitivi e non potevano sopportare che un popolo così palesemente inferiore avesse creato tanti problemi. La volontà di genocidio sgorgava dal già citato substrato pangermanico che da anni proliferava in patria e che negli anni successivi sarebbe sfociato in una manifesta intolleranza razziale degenerando nel nazismo. Inoltre, molti tedeschi come Von Trotha credevano fortemente nel sogno di una colonia interamente popolata da genti germaniche, individuata proprio nella Namibia a causa delle peculiari caratteristiche ambientali del suo altipiano centrale. Per compiere la missione bisognava eliminare del tutto ogni altra etnia, e ciò non veniva considerato assolutamente un problema. Si assistette quindi a un piano mirato di sterminio, reso ancora più crudele dal fatto che le istruzioni di annientamento vennero ufficializzate quando la guerra era già stata praticamente vinta. Le persecuzioni si sarebbero poi accanite su un gruppo di fuggiaschi, comprese donne e bambini, che non solo non potevano più rappresentare minaccia alcuna per la colonia, ma i cui capi avevano più volte fatto richiesta di arrendersi. Molti rappresentanti politici herero erano stati fucilati ancora prima della decisiva battaglia di Waterberg.
Il 2 ottobre il generale Von Trotha emise personalmente l’ordine di sterminio (vernichtungsbefehl) con il fine di cancellare completamente la presenza indigena sul suolo dell’Africa Tedesca Sud-Occidentale, esprimendosi con queste atroci parole:

Il popolo herero deve lasciare il Paese. Ogni herero che sarà trovato all’interno dei confini tedeschi, con o senza un’arma, con o senza bestiame, verrà ucciso. Se non lo fa, lo costringerò a farlo usando il grande fucile. Qualunque herero maschio, armato o inerme, con o senza bestiame, trovato entro la frontiera tedesca sarà fucilato. Non accoglierò più né donne né bambini, li ricaccerò alla loro gente o farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo herero.

Questo decreto, in apparenza, sembrava lasciare un’ultima speranza agli herero, quella di abbandonare immediatamente il Paese: in realtà era una vera condanna a morte, in quanto la fuga poteva compiersi esclusivamente attraverso l’arido e impervio Kalahari. Di fatto molti herero, uomini, donne, bambini e anziani, perirono nel deserto nel vano tentativo di oltrepassare la frontiera. Inoltre Von Trotha completò il suo terribile piano di annientamento mettendo in atto ulteriori misure per uccidere gli herero: si assicurò di far chiudere, recintare o addirittura avvelenare la maggior parte dei pozzi e delle loro riserve idriche, costringendoli a morire di fame, sete e stenti. I soldati tedeschi successivamente trovarono diversi scheletri nei pressi di buche profonde fino a 13 metri, scavate nell’inutile tentativo di trovare acqua. Con l’ordine di sparare a vista, si verificarono molteplici esecuzioni nei confronti degli herero.
L’iniziativa di Von Trotha e gli orrori commessi dai suoi soldati, descritti nei dettagli dai missionari, suscitarono però accese polemiche in patria, a opera soprattutto di esponenti politici appartenenti a partiti del centro cattolico, socialdemocratici e liberali di sinistra. A questi si unirono anche alcuni coloni in Namibia che, per meri calcoli d’interesse economico, avevano paura di perdere l’intera manodopera servile. La pioggia di critiche e la situazione bollente in Germania obbligarono l’imperatore a porre fine al piano di Von Trotha richiamandolo in patria, inviando un nuovo governatore che revocò l’ordine di sterminio e fu costretto a offrire un’amnistia agli herero che si arrendevano senza armi e che non avevano commesso crimini.
Nel frattempo gli herero scampati si unirono alla tardiva insurrezione nama. Soltanto verso la fine del 1904 i nama si attivarono concretamente contro il dominatore straniero dando vita a una guerriglia, meno impetuosa e organizzata ma più lunga rispetto a quella herero, che sarebbe durata fino al 1907 quando furono sconfitti definitivamente. Al termine di queste guerre, dei circa 80.000 herero presenti nel 1885 erano rimasti solamente 15.000, di cui l’80% decimato in soli tre mesi, dall’agosto all’ottobre 1904, mentre i tedeschi uccisi risultarono 2348. L’atroce ricordo della guerra e del successivo eccidio è ancora profondamente vivo nella memoria di questa etnia: i fatti funesti di quegli anni sono stati tramandati di generazione in generazione contribuendo a forgiare un sentimento di identità di gruppo fortissimo e un senso di orgoglio per la propria cultura e il proprio passato storico. Tuttavia il tragico destino di herero e nama non si era ancora compiuto del tutto: prima di farlo rientrare in patria, il governo aveva incaricato Von Trotha di costruire dei konzentrationslager, ovvero campi di concentramento dove rinchiudere i superstiti indigeni.

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Herero deportati.

I campi di sterminio

Nel 1907 venne emanato il nuovo “Codice del Lavoro” che obbligava herero e nama al lavoro coatto; inoltre essi non avevano più la possibilità di scegliere né tanto meno cambiare mansione, e neppure alcun diritto di organizzarsi in qualsiasi forma. Gli indigeni non poterono quindi più svolgere le attività tradizionali come allevamento e agricoltura, per secoli perno del loro sistema socio-culturale. Le loro terre vennero definitivamente redistribuite tra i coloni tedeschi, in particolare tra coloro che avevano partecipato alle guerre contro i nativi come volontari. I pochi sopravvissuti si erano già trovati costretti da qualche anno a lavorare come manodopera a basso costo nelle fattorie dei tedeschi e nelle miniere che venivano aperte in continuazione per sfruttare le innumerevoli risorse del sottosuolo namibiano. Si stava così compiendo il genocidio culturale dei popoli autoctoni, con il loro universo di tradizioni bruscamente cancellato.
Ma la situazione peggiorò ulteriormente: il genocidio non solo culturale ma demografico, quasi completato dopo le guerre herero, proseguì nella maniera più vile possibile con i campi di concentramento e di sterminio. Le strutture che il governo tedesco aveva fatto costruire a Von Trotha vennero presto riempite di cittadini herero e nama, i quali furono destinati a lavori forzati vivendo in condizioni disumane o addirittura impiegati come cavie in brutali esperimenti medici. Gli indigeni furono deportati in campi di concentramento nei quali erano costretti a lavorare come schiavi per i coloni tedeschi: molti di loro erano donne, bambini e anziani. Appena giunti in queste spaventose strutture venivano immediatamente ispezionati e schedati in categorie, chi era ritenuto adatto al lavoro era separato da quelli non idonei. Migliaia di herero perirono nei campi di concentramento per malnutrizione, freddo, malattie, per i disumani lavori forzati ai quali erano sottoposti e addirittura per esecuzioni sommarie. La crudeltà dei tedeschi non si era placata e inoltre non cessarono gli stupri nei confronti delle donne e una generale quanto spietata violenza fisica.
L’alta mortalità era la diretta conseguenza anche della scarsa dimestichezza dei militari tedeschi con la logistica, attività “ausiliaria” che gli ufficiali più ambiziosi non curavano minimamente o snobbavano per concentrarsi principalmente sulle operazioni belliche in cerca di promozioni. Tuttavia nonostante il disinteresse la logistica era fondamentale in una realtà coloniale come quella dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest, ancora povera di infrastrutture e con enormi problematiche riguardanti l’approvvigionamento di cibo e acqua, che rappresentava una questione seria per l’esercito tedesco e, di riflesso, ancor più per gli indigeni imprigionati nei campi. Quando queste carceri fagocitatrici di uomini erano state concepite e realizzate, le guerre con gli indigeni non erano ancora terminate completamente: l’obiettivo iniziale era dunque annullare la guerriglia locale allontanando la popolazione civile in modo da sgombrare il campo di battaglia, agevolando i coloni nella lotta contro i guerrieri superstiti, tattica proficua in un ambiente scarsamente popolato come quello namibiano. Con il passare dei mesi e le vittorie teutoniche, il fine di tali strutture divenne principalmente quello di porsi come un ulteriore mezzo per cancellare interamente i nativi. Le razioni alimentari giornaliere fornite ai prigionieri erano oltremodo punitive e non raggiungevano assolutamente la soglia minima del fabbisogno contribuendo all’incremento della mortalità. A differenza dei campi di prigionia coloniali britannici, quelli tedeschi si caratterizzavano per una gestione e amministrazione ferrea, volutamente militaresca piuttosto che politica.
I primi herero incarcerati furono collocati intorno al presidio di Windhoek, dove sorse il primo campo di concentramento in cui morirono le prime persone, maltrattate e costrette a fame e stenti. All’inizio del 1905 altri gruppi herero vennero condotti in altre zone del Paese con mezzi di trasporto normalmente utilizzati per il bestiame. Un gran numero venne trasferito a Swakopmund, seconda città più importante e principale centro portuale della colonia: qui furono edificati due campi di concentramento, in quanto il distretto costituiva un polo imprescindibile per l’industria tedesca e di conseguenza la necessità di manodopera servile era elevata. Le attività svolte in questi macabri teatri fu interamente registrata, codificata e fotografata: circa 3000 herero, tra cui moltissime donne e bambini, vennero impiegati come braccianti per caricare e scaricare le navi appena attraccate in porto. Ancora una volta le condizioni di vita e lavoro erano talmente riprovevoli che tantissimi morirono di stenti. Questa drammatica situazione degenerò tanto da assumere contorni paradossali: con il lavoro degli schiavi indigeni l’economia tedesca nella regione decollò velocemente e l’esercitò iniziò a concedere in affitto gli herero a privati per una cifra vicina a dieci marchi al mese: era “ripresa” la tratta negriera.
Il fatto inquietante è che diverse compagnie private europee si presentavano già notevolmente organizzate e strutturalmente articolate, sicché il governo coloniale concesse loro di istituire propri campi di concentramento: così a Swakopmund, come in altre città della Namibia, di fianco ai campi militari sorgevano anche quelli privati, in un contesto di massacro continuo per gli indigeni. Il campo tristemente più noto fu quello costruito nel 1905, isolato, inespugnabile e lontano dalla vista dei più, a Shark Island, al largo della città di Luderitz: la sua barbara peculiarità era che si trattava a tutti gli effetti di un autentico campo di sterminio. Lo scopo ultimo, neanche troppo velato, non era nemmeno più far finta di rinchiudere i prigionieri dando loro una “sistemazione temporanea” e costringerli ai lavori forzati, ma esplicitamente di eliminarli definitivamente. L’isola, situata nei pressi della baia di Luderitz, fu scelta principalmente per tre motivi: fuggire era praticamente impossibile, le zone limitrofe erano ben pattugliate da militari tedeschi e infine, prima del loro conclusivo eccidio, gli internati avrebbero potuto lavorare garantendo un rapido sviluppo all’economia regionale. Nella prima fase di vita del campo venne trasferito un gran numero di herero da Keetmanshoop: numerosi i decessi verificatisi nel primo anno (59 uomini, 59 donne e 73 bambini). I tedeschi continuarono il loro diabolico progetto proseguendo gli spostamenti dall’entroterra, giustificati come il frutto di una carestia nella sezione continentale della Namibia: in realtà volevano utilizzare sempre più indigeni per realizzare una ferrovia che avrebbe dovuto collegare Luderitz con Aus. Inoltre le condizioni di vita sull’isola, dovute anche al clima freddo, risultarono davvero inospitali per popoli abituati a un clima secco e arido come gli herero. In più era decisamente chiaro agli indigeni l’obiettivo finale per cui era stato eretto quel luogo e si conoscevano le condizioni inumane cui erano sottoposti i suoi sfortunati ospiti: alcuni prigionieri in altre zone della colonia, una volta saputo che sarebbero stati deportati a Shark Island, preferirono suicidarsi piuttosto che affrontare l’esperienza. Anche sull’isola non mancarono i casi di stupro delle donne indigene. Le testimonianze delle poche persone che riuscirono a vedere quello che veramente succedeva nel campo erano scioccanti: raccontavano di donne obbligate a svolgere mansioni pesanti a ritmi insostenibili, ridotte praticamente pelle e ossa dal momento che non veniva dato loro quasi nulla da mangiare, continuamente frustate, picchiate o appunto seviziate e abusate.

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La strategia dei coloni fin da principio era stata di imprigionare le genti autoctone lontano dalle loro terre d’origine. Così i primi cittadini catturati tra i nama, insediati nella Namibia meridionale, erano stati confinati a nord della città di Windhoek, all’altro capo del Paese. Tuttavia nell’agosto del 1906 diversi cittadini della capitale manifestarono al governo grande preoccupazione per la folta presenza di detenuti nei pressi del primo centro dello Stato, e alcuni di essi furono trasferiti a Shark Island. In seguito quando l’esercito coloniale sconfisse definitivamente gli insorti, il numero dei prigionieri aumentò ulteriormente e le carceri della zona settentrionale non bastarono più: anch’essi, condotti su carri bestiame a Swakopmund, vennero poi trasferiti via mare fino a Luderitz e da lì sull’isola infernale. Il loro nuovo leader, Samuel Isaak, protestò contro questa decisione facendo notare come la detenzione a Shark Island non facesse minimamente parte dell’accordo con il quale i nama avevano accettato la resa, ma i tedeschi lo ignorarono e vi condussero 2000 nama: solamente nel primo anno ne perirono 1032.
I prigionieri, ora herero e nama insieme, venivano sottoposti ai lavori forzati durante tutta la loro presenza nel campo come manodopera per le compagnie private che avevano affari nei pressi di Luderitz, sfruttati per la costruzione della ferrovia, del porto e nel livellamento della stessa Shark Island che successivamente verrà unita alla costa. Queste mansioni logoranti e il più delle volte pericolose causarono un elevatissimo numero di malattie e di morti tra gli autoctoni, con picchi in alcuni momenti di 7-8 decessi giornalieri. Il campo di sterminio di Shark Island fece registrare tassi di mortalità del 70% e venne pertanto definito dagli stessi coloni come “isola della morte”. La parola fine alla carneficina venne messa, solamente in parte, nel 1907 quando il colonnello Ludwig Von Estorff, dopo aver visitato diversi campi di sterminio, scosso dal puro orrore che i suoi occhi avevano provato nel vedere quanto accadeva, inviò un telegramma sollecitandone la chiusura. I superstiti vennero spostati in un’area aperta a Redford Bay: in questo nuovo spazio in un primo momento i tassi di mortalità rimasero ancora elevati, calando solo con il passare dei mesi. I lavori forzati cessarono ufficialmente l’1 aprile 1908 quando agli herero e ai nama venne revocato lo status di prigionieri di guerra, ma nei fatti i tedeschi continuarono a servirsene per lo sviluppo delle loro opere coloniali anche oltre questa data.
L’aspetto più inquietante di questa reclusione riguarda l’intervento dei medici nei campi di concentramento e sterminio: i tedeschi infatti condussero esperimenti medico-scientifici sui prigionieri herero rinchiusi a Shark Island e anche in altri campi, dimostrando ancora una volta disprezzo per la vita umana. Herero e nama vennero usati come cavie umane per esperimenti di eugenetica sulla razza che coinvolsero bambini e adulti. I primi a subire questo trattamento furono i mulatti, figli di madri herero (brutalmente stuprate dai coloni) e di padri tedeschi; in seguito a herero adulti vennero somministrati germi di vaiolo, tifo e tubercolosi per verificare come il loro fisico reagisse alle malattie: molti perirono tra atroci dolori. Altri soggetti furono sterilizzati e sottoposti ad altre folli quanto sadiche torture dallo scienziato e antropologo Eugene Fischer, che successivamente diventò rettore dell’Università di Berlino e tra i suoi allievi ebbe il celeberrimo Josef Mengele, l’angelo della morte, principale responsabile di perverse sevizie su numerosi bambini ad Auschwitz. Fischer, insieme a Theodore Mollison, in nome della tesi della purezza e superiorità della razza bianca, esaminò 310 mulatti sottoponendoli a misurazioni della testa e del corpo ed esami su occhi e capelli: a conclusione dello loro indagini caldeggiarono lo sterminio delle presunte razze inferiori. Altre sevizie furono perpetrate dal dottor Bofinger che iniettò a herero malati di scorbuto diverse sostanze come oppio e arsenico per poi indagarne gli effetti attraverso autopsie sui cadaveri. Un gran numero di teschi e di corpi venne inviato in Germania per proseguire gli studi di eugenetica nelle università.

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Shark Island oggi.

Analogie con la Shoa

Molti storici hanno visto negli esperimenti scientifici eseguiti dai tedeschi in Namibia un banco di prova per le future attività messe in atto durante l’olocausto nazista. Non è infatti difficile cogliere le numerose somiglianze tra le due vicende, non limitate al solo aspetto dell’eugenetica. In entrambe le situazioni abbiamo a che fare con una dichiarata volontà di sterminio, la reclusione in strutture di lavoro forzato e tortura e, appunto, test medici sui detenuti impiegati come cavie umane. Il comune denominatore arriva da lontano, e risiede nell’assoluta convinzione da parte dei tedeschi di appartenere a una razza superiore; e, di conseguenza, che i gruppi etnici ritenuti non all’altezza non solo siano da considerarsi subumani, ma vadano addirittura cancellati dalla faccia della terra.

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Il campo di Shark Island rappresenta l’ultimo anello della catena iniziata da Von Trotha incentrata sull’idea della vernichtungs-politik (politica di annientamento) perpetrata nei confronti di herero e nama, e sotto molto aspetti ricorda alcuni dei più terribili lager del Terzo Reich. I popoli indigeni della Namibia, così come gli ebrei oltre 30 anni più tardi, vennero tutti radunati da luoghi lontani e spediti su vagoni ferroviari (chiamati transport), normalmente usati per gli spostamenti di bestiame, verso mete isolate dove venivano condotti alla soluzione finale. Non siamo ancora ai livelli delle uccisioni di massa patite dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale, ma di sicuro si può cogliere il preciso desiderio di segregare un popolo ritenuto inferiore e più debole e sterminarlo nel più breve tempo possibile. Infine un altro tratto comune è la pretesa giustificazione biologico-scientifica a questa follia razzista nell’usare come prove concrete i resti delle vittime. È incredibile sottolineare come nella colonia dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest sia sorto un commercio di teschi delle vittime herero e nama che i soldati vendevano al miglior offerente tra università e musei in patria così come a scienziati privati. Non è possibile sostenere con certezza che i campi di sterminio in Namibia siano stati la prova finale e consapevole di quanto sarebbe poi accaduto con la shoah; ma, viste le numerose similitudini, è lecito supporlo. Evidenti invece sono le motivazioni che hanno spinto da lontano entrambi i massacri: un impunito senso di supposta superiorità biologica e culturale che legittimava l’eccidio del diverso incarnando a pieno diritto la politica del lebensraum.

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L’eccidio namibiano si dimostrò incredibilmente costoso in termini di vite umane. Non esistono cifre precise e ufficiali sulla conta totale delle vittime. Per quanto riguarda i campi di concentramento è stato calcolato che tra il 1905 e il 1909 a Swakopmund morirono circa 2000 herero, a Shark Island 7682 herero e 2000 nama, con circa 245 sopravvissuti. Considerando anche le guerre herero e nama, il numero complessivo degli africani morti tra il 1903 e il 1911 risulta notevolmente superiore: è stato quantificato che gli herero deceduti ammonterebbero a 65.000 (dagli 80.000 all’inizio del XX secolo ai soli 15.000 del 1911), oltre l’80% della popolazione; i nama morti sarebbero invece circa 10.000 sui 20.000 che erano prima dello scoppio della guerra, la metà del gruppo. Ci troviamo di fronte a numeri spaventosi: per le cifre ma anche per le modalità brutali e sadiche, si tratta di uno sterminio abominevole e vergognoso.

Il riconoscimento del genocidio: un processo lungo e complicato

Nonostante le numerose evidenze della carneficina compiuta nei confronti di herero e nama a inizio XX secolo, i tedeschi hanno fatto di tutto affinché il massacro passasse sotto traccia. Scappando dalle loro responsabilità e sminuendo la gravità degli eventi, essi sono riusciti nell’intento di far cadere per anni nel dimenticatoio lo scempio namibiano, in alcuni casi addirittura negandolo per non pagare interamente le loro colpe. Fortunatamente le pressioni esercitate da organizzazioni locali istituite dai parenti delle vittime, finalmente supportate anche dalla comunità internazionale, hanno permesso una svolta a riguardo: la Germania si è vista costretta a riconoscere le proprie responsabilità, senza tuttavia accogliere del tutto le richieste degli indigeni che giustamente pretendono risarcimenti per i torti patiti.
La triste vicenda degli herero è poco nota in Europa, anche perché i tedeschi hanno ammesso le loro colpe soltanto verso la fine del XX secolo quando la storia è ritornata a galla. Il genocidio degli herero è il primo del Novecento, il primo atto violento eseguito con il preciso scopo di eliminare tutti gli appartenenti a un determinato gruppo etnico. Tuttavia, come nel caso dell’Olocausto, vi sono diversi autori negazionisti che rifiutano fermamente di applicare la definizione di genocidio a questo fatto, relegandolo, non si capisce bene con quale coraggio, a una semplice guerra tra autoctoni e invasori europei come ne sono purtroppo avvenute tante durante il colonialismo. Questa retorica negazionista ha sicuramente contribuito a smorzare l’attenzione sull’evento facendo sì che per molto, troppo tempo sia stato considerato una “semplice” guerra extraeuropea e non l’eccidio che è in realtà avvenuto. Inoltre i tedeschi dovevano fare in modo che se ne parlasse sempre meno: già profondamente marchiati a livello internazionale per i fatti vergognosi della shoah, non potevano permettersi l’attribuzione di un altro massacro altrettanto indegno.
Ad aiutarli in questo percorso verso l’oblio ha provveduto anche la stessa politica e società namibiana. Dopo la dominazione tedesca, il territorio divenne dapprima parte dell’impero britannico e in seguito dell’Unione Sudafricana che, per mantenere buoni rapporti con inglesi e tedeschi ricevendo da quest’ultimi importanti sovvenzioni, non contribuì minimamente alla narrazione storica dei fatti del genocidio. A partire dal 1966 l’organizzazione indipendentista di ispirazione marxista SWAPO (South-West Africa People’s Organisation) aveva iniziato a intraprendere azioni di guerriglia contro l’esercito sudafricano il cui governo applicava anche in Namibia l’ignobile politica dell’apartheid: grazie alla mediazione dell’ONU nel 1990, la Namibia riuscì a ottenere finalmente l’indipendenza, la SWAPO ottenne la maggioranza vincendo le prime elezioni libere e Sam Nujoma, suo rappresentante, ne divenne il primo presidente. La componente principale del nuovo partito che governò la Namibia portandola a una transizione democratica era costituito da membri dell’etnia ovambo che per nulla si prodigarono per promuovere il riconoscimento delle sterminio degli herero e dei nama: la paura di perdere i finanziamenti che la Germania, anche dopo l’indipendenza, continuava a versare memore del brutale passato coloniale (pur non riconoscendo i genocidi) era troppo elevata.
Inoltre c’erano anche problemi pratici: ancora oggi i discendenti dei coloni teutonici possiedono le terre, originariamente appartenenti agli herero, ingiustamente confiscate durante la dominazione, e rappresentano una parte importante della nuova società namibiana, un settore produttivo a cui si potrebbe difficilmente rinunciare. A ostacolare la diffusione dei fatti su quanto accaduto nella colonia dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest a inizio XX secolo ha quindi contribuito, in parte, anche l’amministrazione centrale della Namibia per tutelare i propri interessi politici ed economici, avendo il timore di perdere potere e consenso a livello nazionale, dal momento che herero e nama costituiscono ora minoranze etniche all’interno del territorio dello Stato. Molti herero vivono in strutture sovraffollate simili a riserve, mentre le terre coltivabili sono ancora in mano ai discendenti di chi ha sterminato i loro avi. La presenza tedesca in Namibia risulta tuttora marcata a livello artistico-architettonico e culturale, oltre che socio-demografico: molti edifici, abitazioni e chiese ricalcano perfettamente quelli tedeschi così come le strade e i toponimi germanici sono tuttora in vigore. Il sentimento di generale disinteresse, se non cancellazione della memoria dello sterminio, si può riscontrare anche nel cimitero militare di Waterberg, città teatro della battaglia decisiva: qui si trova una tomba per ogni singolo soldato tedesco morto nella battaglia, mentre un’unica targa metallica ricorda i guerrieri herero.

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In alto, le lapidi dei soldati tedeschi; sotto, la semplice targa commemorativa dei caduti herero.

Tuttavia, sebbene l’anima e i tentacoli tedeschi sembrino non aver abbandonato il territorio namibiano, concorrendo ad ammutolire la dialettica del genocidio, i figli delle vittime non si sono mai arresi ottenendo parziali successi. Dopo svariati decenni è arrivato il riconoscimento internazionale della tragedia: nel 1985 l’ONU ha ufficializzato lo sterminio degli herero e dei nama come genocidio, definendolo il primo del XX secolo. Nel 1998 quando il presidente tedesco Roman Herzog si recò in Namibia per una visita istituzionale, il capo herero Munjuku Nguvauva richiese ufficialmente scuse pubbliche. Herzog espresse sentito rammarico e dispiacere per la vicenda ma non scuse formali, né tanto meno accettò la proposta di concedere un indennizzo agli indigeni. La Germania, a partire dal 1990, con la vittoria della SWAPO aveva iniziato a versare nelle casse del governo namibiano circa 30 milioni di euro l’anno per contribuire allo sviluppo di un Paese che aveva pesantemente subìto la dominazione tedesca: ora non voleva assolutamente sborsare altro denaro per gli herero. Ma i nativi non si fermarono nella loro sacrosanta richiesta di risarcimenti e nel 2001 formalizzarono agli Stati Uniti una nuova istanza di indennizzo di 2,2 miliardi di dollari a carico della Deutsche Bank, rea di aver finanziato l’impresa coloniale e di aver speculato sulla servitù degli herero. Sfortunatamente nel periodo dell’eccidio non esisteva alcuna legge che tutelasse la vita dei civili e il reato di genocidio non era ancora previsto, così la Germania non poté essere condannata né si poté intentare una causa civile di fronte a un tribunale tedesco.
Verso la fine degli anni Novanta si era diffusa un’embrionale idea di riconoscere le barbarie commesse in Namibia con governi di centro-sinistra formati da SPD e Verdi. Le prime scuse ufficiali sono arrivate solamente nel 2004 quando, in occasione del centesimo anniversario della battaglia di Waterberg, il ministro Heidemarie Wieczorek-Zeul ha formalmente recato le scuse al popolo herero dichiarando che i tedeschi accettavano le proprie responsabilità storiche e morali, riconoscendo in pieno le proprie colpe e le atrocità commesse nei confronti loro e dei nama, ammettendo che quanto accaduto corrispondeva in tutto e per tutto alla definizione ufficiale di genocidio. Tuttavia anche Wieczorek-Zeul rifiutò categoricamente di concedere un risarcimento pecuniario, asserendo che i torti subiti dagli autoctoni erano stati ampiamente ripagati con gli aiuti economici che i tedeschi avevano concesso alla Namibia dal 1990… In realtà gli herero non avevano mai visto un centesimo di quei soldi, direttamente immessi nelle casse statali di un’amministrazione composta da cittadini di etnia ovambo. Era l’ennesima beffa subita da un popolo che era stato martoriato in tutti i modi: esproprio delle terre, violenze e sevizie, persecuzione e tentativo di sterminio.
Sempre nel 2004 il nuovo capo della comunità herero Kuaima Riruako ha richiesto pubblicamente al governo tedesco di finanziare un piccolo Piano Marshall per risarcire la propria gente e avere quindi il denaro necessario per riacquistare le terre ancestrali e poterle ridistribuire ai discendenti delle vittime. I due governi hanno intrapreso difficili e complicati negoziati che nel corso degli anni hanno visto varie fasi di stallo. Gli interessi in gioco sono molti e, come detto in precedenza, la classe dirigente namibiana non ha mai particolarmente spinto per il riconoscimento ufficiale del genocidio, né è troppo favorevole ad aiuti economici a herero e nama, volendo detenere saldamente potere e risorse. La volontà locale di soffocare in parte i dibattiti sul massacro è quindi da attribuire a motivazioni di carattere politico unite a paura di un ribaltamento degli equilibri di potere nazionali. Un ragionamento simile vale anche per i discendenti dei coloni che, spesso ancora in possesso dei territori precedentemente rubati, si sentono minacciati da questa situazione: molte fattorie e aziende agricole sorte sopra questi ettari appartenevano agli indigeni e un’eventuale riforma agraria con annessa ridistribuzione delle terre potrebbe far perdere loro proprietà, privilegi e soldi.
Tuttavia, il 26 ottobre 2007 gli sforzi degli herero sono stati in piccola misura ripagati: il parlamento namibiano ha approvato all’unanimità la mozione di Riruako che permetteva di richiedere ufficialmente alla Germania un risarcimento per lo sterminio, ma quest’ultima si è nuovamente opposta. Infatti, nonostante abbia ammesso di nuovo i propri delitti contro herero e nama, non intende riaprire il discorso degli indennizzi. Il governo tedesco ha solamente garantito disponibilità a incrementare gli aiuti finanziari che invia regolarmente in Namibia per lo sviluppo dello Stato. I discendenti herero ancora una volta non si sono dati per vinti e nel 2015 tramite ricorso si sono rivolti alla Southern District Court di New York richiamandosi all’Alien Tort Statute, organo che permette a cittadini stranieri di sottoporre al giudizio americano torti compiuti, violando i diritti umani, al di fuori del territorio federale statunitense.
La Germania – che ha quasi sempre cercato di evitare l’entrata in auge del termine genocidio in favore di un più “morbido” crimini di guerra – tramite le parole del suo portavoce Ruprecht Polenz, ha ribadito la non volontà a offrire risarcimenti ai parenti delle vittime aggiungendo che l’eccidio di herero e nama non è minimamente paragonabile all’Olocausto. I tedeschi al posto di risarcimenti diretti hanno proposto la creazione di una fondazione per favorire, mediante finanziamenti, scambi culturali con giovani namibiani e un ampio processo di rinnovamento infrastrutturale locale. L’idea prevedrebbe la realizzazione di progetti mirati per herero e nama in quattro differenti settori: formazione professionale, rifornimento elettrico, alloggi a prezzo accessibile e riforma della terra. Gli indigeni hanno valutato la proposta tedesca come insufficiente a ripagare le torture subite e la giudicano una forma di non assunzione di colpa. Inoltre hanno lamentato la mancanza del necessario coinvolgimento nel dibattito, accusando la Germania di aver risposto direttamente al governo namibiano e non alle loro comunità: gli herero infatti non si fidano di come il governo potrebbe redistribuire le eventuali compensazioni tedesche. Tuttavia il tentativo si è arenato e pareva rischiare di fallire dal momento che nel 2013 la Corte Suprema ha stabilito che l’Alien Tort Statute è applicabile esclusivamente nel caso in cui ci sia il coinvolgimento di organizzazioni o istituzioni statunitensi che abbiano violato i diritti umani al di fuori del territorio nazionale.
Una questione a parte potrebbe però riguardare i casi di “genocidio” che scioglierebbero anche un altro vincolo, quello dell’immunità di Stato che sancisce che una nazione non possa essere sottoposta a decisioni giuridiche dal tribunale di un altro Stato, cavillo sul quale ha incessantemente fatto leva il rappresentante di Berlino. Questa circostanza spiegherebbe anche la ripetuta e insistente forza con cui la Germania vuole assolutamente evitare che si parli di genocidio, intimando l’utilizzo delle parole crimini o, al massimo, atrocità di guerra. Ken McCallion, l’avvocato difensore della causa indigena, è fermamente convinto che la legge possa essere e sarà applicata in caso di genocidio avvenuto anche all’estero senza il coinvolgimento di enti statunitensi: la situazione è in perenne e concitato divenire. La speranza è che quantomeno l’attenzione dedicata dai media a questa battaglia politico-legale metta pressione ai due governi affinché coinvolgano direttamente gli herero nel dialogo e si possa presto giungere a una soluzione a loro favorevole.
Un segmento della società tedesca, oltre ai partiti liberal-progressisti, che ha sentitamente chiesto scusa alle popolazioni herero e nama è stata la Chiesa evangelica luterana. Nell’agosto 2018 la Germania ha restituito i resti di indigeni che erano stati portati in patria durante il periodo dei campi di concentramento: in tale circostanza la stessa Chiesa evangelica, con l’aiuto del Consiglio delle Chiese in Namibia, ha celebrato un culto commemorativo. Al termine della cerimonia le spoglie sono state riconsegnate ai membri della rappresentanza namibiana tramite atto ufficiale del ministro degli Esteri e, una volta riportati a casa, è stata celebrata un’analoga manifestazione religiosa a Windhoek. Il messaggio della Chiesa è stato di assoluta apertura nei confronti delle vittime dello sterminio assicurando l’intenzione di mantenere vivo il ricordo di quanto tristemente accaduto, riconoscendo pubblicamente il genocidio e impegnandosi a rendere note le angherie commesse dai coloni all’inizio del secolo scorso.
La vicenda degli herero solleva ulteriori nubi sul comportamento adottato dagli europei tra XIX e inizio XX secolo nei confronti delle popolazioni autoctone dei territori d’oltremare facendo emergere, una volta di più, i danni irreparabili che il colonialismo ha causato a queste popolazioni.

 

N O T E

1) Il Secondo Reich (letteralmente “secondo impero”) è il periodo storico – che va dall’unità nazionale tedesca (1871) fino all’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (1918) – in cui il cancelliere Otto von Bismarck riuscì a creare un vasto e potente impero con colonie oltreoceano. Viene definito “secondo” per differenziarlo dal Sacro Romano Impero (Primo Reich) e dalla dittatura nazista di Adolf Hitler (Terzo Reich).
2) Gli ovambo sono un’etnia di origine bantu imparentata con gli herero che, come questi, si trasferì nell’area della Namibia intorno al XIV secolo: si stanziarono nella sezione centrale dell’odierno Stato al confine con l’Angola in un territorio in seguito denominato Ovamboland. Agricoltori, allevatori e pescatori si sono convertiti al cristianesimo luterano a causa del massiccio intervento di missionari finlandesi. Rappresentano una delle etnie ora maggioritarie in Namibia e diversi suoi membri rivestono importanti incarichi di potere al governo.
3) La Regione dei Grandi Laghi africana è una vasta area situata nella parte centro-orientale del continente nero, caratterizzata dalla presenza di numerosi laghi importanti come Tanganica, Vittoria e Malawi, e comprende diversi Stati tra cui Repubblica Democratica del Congo, Kenya e Tanzania. Le terre eccezionalmente fertili hanno favorito le attività agricole e pastorali e in seguito l’insediamento umano: con circa 107 milioni di persone è una delle zone più densamente popolate del mondo.
4) Il Kaokoland è un’area montagnosa e desertica della Namibia settentrionale nella regione del Kunene. Il suo territorio risulta delimitato a sud dal fiume Hoanib e a nord dal fiume Kunene che costituisce il confine naturale con l’Angola. Attualmente è abitata da molte persone di etnia himba.
5) Gli himba o ovahimba sono un gruppo etnico stanziato nel Kaokoland e in Angola: circa 12.000 erano strettamente connessi per legami di parentela e affinità culturali agli herero fino a quando decisero di emigrare nella seconda metà del XIX secolo alla volta dell’Angola per sfuggire alle ingerenze dei nama. In Angola ottennero ospitalità dalla tribù ngambwe dei san dai quali vennero denominati ovahimba, “il popolo che mendica”. Gli himba, non avendo più rapporti con gli herero né con i tedeschi, sono rimasti un popolo di pastori nomadi senza adottare la pratica dell’agricoltura sedentaria e mantengono ancora oggi il loro stile di vita tradizionale.
6) Il Lebensraum è una nota teoria geopolitica elaborata per la prima volta dal geografo tedesco Friedrich Ratzel nell’opera Politische Geographie (1897): rifacendosi all’idee sull’evoluzionismo di Darwin secondo le quali l’ambiente influenza direttamente il processo evolutivo, Ratzel sostiene che lo Stato sia paragonabile a un organismo vivente in continua lotta per crescere e svilupparsi. Per completare questo procedimento deve riuscire a godere del proprio lebensraum (“spazio vitale”) anche a scapito degli altri. Gli Stati più forti hanno dunque un diritto naturale a espandersi nei territori di quelli più deboli, le cui popolazioni non sfruttano in modo efficace le risorse presenti e di conseguenza sono destinati inevitabilmente a soccombere.
7) Friedrich Ratzel (1844-1904) è stato un celebre geografo tedesco considerato il principale esponente della corrente determinista. Le sue teorie, in particolare quella del Lebensraum, hanno rappresentato la giustificazione “scientifica” all’imperialismo tedesco, dominato da sentimenti razzisti di presunta superiorità sulle popolazioni autoctone di altri continenti, ritenuti appartenenti a razze inferiori.
8) Lothar Von Trotha (1848-1920) è stato uno spietato generale tedesco che ha operato nell’Africa Orientale Tedesca sedando la rivolta degli hehe; in Cina dove prese parte alla repressione dei boxer; nell’Africa Tedesca del Sud-Ovest dove ha massacrato la popolazione herero. Viene ricordato per i suoi metodi bellici crudeli e irrispettosi della vita umana dei nemici, senza eccezioni per donne e bambini.
9) La ribellione dei boxer è una rivolta scoppiata in Cina nel 1899 contro la crescente influenza delle potenze straniere nella società cinese: il nome deriva dai primi organizzatori che appartenevano a scuole di pugilato e vennero pertanto definiti “boxer”. Gli insorti massacrarono stranieri e cristiani cinesi nelle province settentrionali poi, con l’appoggio di membri dell’esercito imperiale, attaccarono le legazioni straniere a Pechino. Una delegazione internazionale intervenne riuscendo a reprimere l’azione degli insorti e nel 1901 i boxer furono costretti alla resa.