Dopo qualche giorno di riposo riprende la Heiva I Tahiti, il principale concorso di canto e danza della Polinesia francese. Si esibiranno sul palco di Toatā tre corali, Erai Te Toa No Avera in categoria Tārava Tuhaa Pae; Te Pape Ora No Pāpōfai e Tamarii Mahina in categoria Tārava Raromatai. Per la danza Pupu, Tamarii Papara Oire in categoria Hura Ava Tau, amatori, e Ahutoru Nui in categoria Hura Tau, professionisti.
Il coro Erai Te Toa No Avera canta la leggenda dell’isola di Rurutu, di come i suoi due villaggi, dopo guerre, intrighi e tradimenti, si siano riconciliati.
Dopo aver sterminato il popolo dei Tanetee, l’ari’’i, il capo, fa portare i superstiti a Avera, loro villaggio di provenienza, per ripopolarlo. Il luogo dove viene presa la decisione è chiamato Tumuhau, fondazione della pace.

Il gruppo di canto Te Pape Ora No Pāpōfai diretto da mama Iopa, insegnante al Conservatorio, cantante dall’incredibile voce forte e chiara, raggruppa i fedeli del tempio principale di Papeete e ne racconta la fondazione. Il coro trasmette un’emozione incredibile con le voci forti che interpretano le melodie; la direttrice fa il suo ‘‘ōrero cantato, approfittando della sua voce possente, gli abiti sono particolarmente curati, un successo!
Il pastore William Crook, inviato dalla London Missionary Society si era stabilito a est di Pare, oggi Pirae, allora centro principale di Tahiti, per creare una nuova missione. Gli altri religiosi avevano scelto di occupare le loro antiche parrocchie a Tiarei, Matavai, Papaoa, Punaauia e Papara, non gli restava altro che quella pianura paludosa e quasi disabitata. La vegetazione si limitava ad arbusti di tāhinu (Tournefortia argentea), con qualche palma da cocco e pochi alberi del pane. La scelta del luogo fu dettata dalla limitazione e non dalla chiaroveggenza. Per sfuggire all’umidità e ai nugoli di zanzare portatrici di filariosi, Crook fece costruire una grande casa sulla collina Faiere che battezzò Mount Hope, Montagna della Speranza. Contemporaneamente un gruppo di volontari costruiva vicino al mare, nel luogo chiamato Pāōfai, due grandi fare potee, case ovali, tettoie che proteggono dalla pioggia sotto le quali ci si riunisce, che dovevano servire l’uno come tempio, l’altro come scuola.
La borgata che si estende sotto il monte Faiere prese il nome di Hope Town, città della speranza, mentre i polinesiani preferivano chiamarla con il nome del fiume che attraversava le terre dei Pōmare, Vaiete, cesto d’acqua o acqua nel paniere, per l’abitudine di venire a prendere questa acqua particolarmente pura trasportandola in borracce contenute in grossi panieri. La regina Aimata costruirà un palazzo in questo nuovo insediamento e vi si trasferirà con tutta la sua corte, sistemando in fondo al giardino, nel punto in cui riaffiora il rivo Vaiete, il bacino nel quale amava immergersi.
Per il tapu del pi’i , che impediva di usare le parole diventate sacre, Vaiete diventa Papeete, l’attuale nome della capitale della Polinesia francese.
Il testo seguente conferma la mia sensazione che i polinesiani non si siano mai veramente convertiti al nuovo dio, ma abbiano continuato a pregare il loro atua.

Pāpōfa’i, Pāpōfa’i, Pāpōfa’i
Mai te hō’ē tia’i, e mata ara i te mau va’a ia tipae mai.
I tē hō’ē ra mahana, ua iri mai te mau va’a huru ‘ē.
Ua fa’ari’i maita’i hia rātou ma te ‘ore e huna i tā’u mau peu… o ta rātou i tūmā roa i muri a’e… O vau te mātāmua.
Oia mau, i riro na vau ei ‘ara meharo, ei matapū no te orara’a hui tupuna, ei ha’aputura’a na te nūna’a, ei haia ta’ata, e ‘aore e mahana tu’ua e ‘ī ai tō’u fata i te hotu o te fenua. I ‘ite na vau i te mau ‘ōro’a ha’amo’a atoa. I nīnā hia ai au, i pari hia ei ‘orure i to rātou ti’aturira’a, i ‘iriti tumu hia ai i tō’u mau ōfa’i.
I teie mahana, ‘aore roa tō’u e parau fa’ahou, “te marae nō Pāpōfa’i”.
Mo’e noa ā vau, tē hau nei tō’u manava, tē ora nei tō’u verua o tei mana noa ā.
‘Inaha ho’i, o te Atua tumu tahi tē ha’amori hia nei.
Ua patu hia te fare pure mātāmua nō Pā’ōfa’i i ni’a iho ia’u.
O vau, Pāpōfa’i te marae,
O vau, Pā’ōfa’i te fare pure,
He’e noa atu ā te tau, tē vai noa nei au.

Pāpōfa’i, Pāpōfa’i, Pāpōfa’i
Il mio territorio, enorme, si stendeva di fronte al mare. Attraevo moltitudini e moltitudini.
Come una sentinella, ho visto l’arrivo delle canoe.
Un giorno, però, ho scorto delle imbarcazioni sconosciute, diverse, strane.
Li abbiamo accolti come “amici”.
Abbiamo condiviso le nostre tradizioni… In cambio, essi hanno vietato, messo al bando molte delle nostre abitudini… A cominciare da me, distruggere me stesso.
Sì ero un emblema della nostra cultura ancestrale. Ho fatto parte dell’antica vita polinesiana. Qui il popolo venne a pregare. Le mie preghiere sacre sono state innaffiate del suo sangue sacrificale. Non passava giorno senza che un’offerta fosse deposta sul mio altare. Ho conosciuto tutte le cerimonie.
Considerandomi sacrilego, questi stranieri hanno rimosso tutte le mie pietre.
Oggi, non si trova alcuna menzione di me, il “marae Pāpōfa’i”.
Ma anche se sono scomparso del tutto, non porto nessun rancore perché la mia mente è sopravvissuta. Dal momento che mi rimane ancora un luogo di culto e di preghiera dedicato al dio unico.
Su miei resti è stata costruita la prima chiesa protestante in Pāōfai.
Sono io Pāpōfai il marae,
Sono io il tempio Pāōfa’i,
Il tempo passa, ma io resto.

Il gruppo Tamari’i Mahina canta la storia di Roanu’u, ragazzo dalla testa allungata, che si innamora della bella Tehoho, ma lei non lo degna di uno sguardo a causa della sua deformità. La madre del giovane confeziona una bella corona per lui, Tehoho quando lo incontra senza riconoscerlo ne resta colpita. Si divertono insieme, si baciano, si abbracciano… Ma il giovane vuole dare una lezione alla ragazza, le fa tirare l’estremità della corona per rivelare la sua testa, Tehoho capisce chi ha davanti e proclama il suo amore per lui. Roanu’u la abbandona: “Hai preferito la bellezza del corpo a quella dell’anima”. E la lascia disperata e sola sulla spiaggia.
Il direttore del gruppo è un māhū, uomo effeminato; anticamente queste persone appartenevano a una casta ed era loro riservata la decorazione dei marae, luoghi di culto, per la propensione all’estetica e al buon gusto. Igor Paparai è un noto attore televisivo, fino a pochi anni fa conduceva uno spettacolo umoristico con altri māhū; quest’anno è stato insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine di Tahiti Nui in occasione del 29 giugno, anniversario dell’Autonomia.

Tema storico mitologico per Pupu Tamarii Papara Oire scritto da Tuarii Traqui, giovane ricco di talento. Il sovrano di Papara organizza un enorme banchetto per onorare le nozze di sua figlia, la bella Mirivai, con Megakiro, ma la giovane dubita che questa unione possa mettere fine alle dispute fra Pāea e Papara. La sera del banchetto Mirivai è splendente, avvolta nel tessuto di tapa (materiale che si ottiene battendo la corteccia di alcuni alberi), con in capo un diadema di scaglie di tartaruga e conchiglie e al collo un filo di perle e denti di delfino.
Ma è afflitta. Si accorge di Paniolo, un essere particolare – servitore la notte, scolopendra durante il giorno – e ne rimane affascinata, ma i due non possono frequentarsi per la differenza sociale che esiste tra di loro.
Riescono a incontrarsi con discrezione, ma sono seguiti da Hiopoa, spia di Megakiro, che corre immediatamente ad avvertire il suo padrone, nonostante sia notte fonda. Megakiro stenta a credere alle parole di Hiopoa: com’è possibile che una ragazza così bella possa avere una scolopendra come amante? Corre a svegliare il padre di Mirivai, anch’egli non può credere alle parole del promesso sposo ferito.
La settimana seguente il sovrano di Papara, dopo aver incontrato gli arii, capi, di rango inferiore presso il marae Matairea, si ritrova nella valle di Orofero con Megakiro. La decisone è presa: Paniolo sarà decapitato.
La bella Mirivai si dispera, ma Paniolo la rassicura: non teme la morte e le promette che ogni notte le loro mani si ricongiungeranno all’eco dell’ū e del perepere (melodie che sovrastano il coro durante il Tārava).
È notte fonda, il banchetto che festeggia l’avvenuta decapitazione di Paniolo è in corso. Viene intonato un Tārava, la principessa corre nel giardino segreto dove si incontrava con il suo amante e lo trova pronto ad aspettarla. Le loro mani s’intrecciano, l’amore trionfa.
In questa leggenda viene trattato il tema dell’amore tapu, proibito, fra due persone di rango diverso. In Polinesia, nonostante l’immagine di estrema libertà che se ne ha in occidente, le classi sociali erano rigidamente stabilite e passare dall’una all’altra era impossibile. Amore, tristezza, speranza e magia accompagnano questo spettacolo, riempiendolo di fascino.

Il gruppo Ahutoru Nui mette l’accento sui precetti del primo legislatore polinesiano, Tetunae, primo arii della dinastia dei Teva ad aver cinto la maro ‘ura e la maro tea, le cinture di piume rosse e di piume gialle, simboli di potenza e regalità nell’antica società di queste isole. Questo sovrano ha regnato intorno al 1450-1500, le sue opere sono state trasmesse dalla tradizione orale delle antiche famiglie, poi conservate per iscritto nelle puta tupuna, i libri degli avi. Le 57 ture, precetti, di Tetunae erano destinate agli ari’i e si sono mescolate, nei tempi, ai precetti di ispirazione cristiana:

“Ia tura i te taata te aia, te metua i fanau ia outou. Ia hio te taatoa I to na moua o te tura te reira o te aia”.
Dovete onorare la vostra madre patria, la madre che vi ha generato. Che ognuno vegli sulla sua montagna, sacro simbolo della patria.
Tetuna’e, con le sue leggi sull’ospitalità, ha messo le basi della famosa accoglienza polinesiana.

“Haere mai tama’a”, vieni a mangiare.
“Tu non vedrai passare lo straniero davanti alla tua porta senza invitarlo”.
Ancora oggi, passando davanti alle abitazioni polinesiane all’ora di pranzo o cena, è facile sentirsi chiamare con un “tamaa maitai”, benvenuto a tavola.
La soglia della porta rappresenta l’ingresso della nostra coscienza e della nostra interiorità e altro non è che l’entrata del marae di Tetunae chiamato Fare Pua.
L’altare del marae Fare Pua è il luogo dove l’uomo prende le sue decisioni.
L’invito dovrà essere accettato dal profondo del nostro spirito e in seguito dal cuore umano, le parole e la lingua finalizzeranno l’invito.
Lo straniero stesso non è straniero nella terra che lo ha fatto nascere.
Proveniamo tutti da questa terra e dobbiamo onorarla.

“Tu dovrai nutrirlo e alloggiarlo”.
Il nutrire una persona nella società polinesiana è basato sull’affezione. Nutrire e fare nutrire. Nutrire un bambino per tutta la sua vita. Proteggerlo interiormente nel suo spirito significa nutrirlo sopratutto d’amore.

“I suoi figli saranno i tuoi”.
Se abbiamo potuto accettare lo straniero nel nostro spirito e nel nostro cuore, i figli devono avere un posto nobile nel seno del nostro cuore.
Allevia i fardelli della madre di famiglia, le prove che deve attraversare nel corso della vita familiare, lasciare i genitori per vivere con il suo compagno, credere che questa persona possa assicurare il suo avvenire, avere un figlio da lui e fondare una famiglia; quando il bambino crescerà la metterà da parte. L’ultimo fardello è il ritorno del figlio verso suo padre e sua madre.

“Dovrai uccidere il maiale grasso”.
Rivolto ai padri di famiglia, il tuo piatto verrà pulito. Quando si riceve un invitato, tutte le negatività che riguardano la famiglia non devono essere diffuse in pubblico.
Tema astratto, difficile da ballare, che il gruppo ha affrontato con leggerezza, dando una prestazione non troppo professionale.