Saranno volgari, i conti della serva, ma sono sempre l’antidoto migliore ai raggiri dell’ideologia. Del resto, cari compagni, è una metodologia che dovrebbe piacervi, visto che Lenin sosteneva come a socialismo instaurato anche una cuoca potesse amministrare il bilancio dello Stato. Ecco, cosa noterebbe la cuoca di Lenin di questi tempi, col Coronavirus che ammazza tanti, troppi italiani (nonostante il premier con la pochette a febbraio assicurasse che “è tutto sotto controllo”, siamo purtroppo il Paese col maggior numero di morti)? Anzitutto, un’evidenza numerica alla voce entrate/uscite, che oggi assume i connotati dell’oscenità morale. Riassumiamola, nella sua innegabile brutalità. Risorse sottratte al Sistema Sanitario Nazionale negli ultimi 10 anni: 37 miliardi di euro. Il dato è contenuto in un rapporto pubblicato a fine 2019 dall’Osservatorio Gimbe, una fondazione indipendente che promuove la formazione e la ricerca in ambito sanitario.
In particolare, si tratta tra il 2010 e il 2015 di 25 miliardi di tagli previsti dalle varie manovre finanziarie (quasi sempre varate da governi non eletti dal popolo, e quindi forse non così preoccupati dalle sorti del medesimo, ci avete fatto caso?), e tra il 2015 e il 2019 di 12 miliardi di “definanziamento” alle Asl rispetto ai livelli programmati, in nome di obiettivi di finanza pubblica quasi sempre stilati col righello da quattro burocrati in qualche stanza di Bruxelles. Fuori, nell’Italia devastata dal Coronavirus, si scopre tutta la (mancata) consistenza di quei 37 miliardi nelle drammatiche carenze di posti letto, respiratori, personale medico e infermieristico, in quei non-luoghi che si spalancano perfino nelle regioni virtuose e all’avanguardia sanitaria (figuratevi cosa succederebbe se, Dio non voglia, la pandemia aggredisse massicciamente il Meridione). Morale: uno Stato malato di spesa pubblica clientelare e improduttiva, tagliava in uno dei pochi settori in cui uno Stato civile non dovrebbe tagliare (o comunque non col machete indifferenziato ed eterodiretto dall’EuroSoviet), predisponendo la prateria per la macabra cavalcata del virus.

Slogan sfortunato

Secondo dato che balzerebbe all’occhio della suddetta cuoca: i quattrini sborsati dall’Italia per la “gestione dei flussi migratori” (eufemismo per indicare il foraggiamento dell’invasione incontrollata dal Nordafrica, che piaccia o meno solo Salvini ha provato a frenare nel suo anno al Viminale).
La fonte è il Documento Programmatico di Bilancio del 2017, che conteneva una stima della spesa sostenuta per la crisi immigrati: dagli 827,8 milioni di euro spesi (al netto dei contributi UE) nel 2011, si è passati ai 4,2 miliardi del 2017. Il totale di quegli anni ammonta a oltre 15 miliardi di euro. A questi vanno aggiunti tra i 4,5 e i 4,9 miliardi contabilizzati per il 2018. Sul 2019 i dati non sono disponibili, visto che la parola “migranti” è molto opportunamente scomparsa dal Def del 2020, caso mai a qualcuno venga in mente che il governo utilizzi il ricavato delle nostre tasse per incrementare il traffico di esseri umani, più che le terapie intensive degli ospedali italiani. In ogni caso, già solo le cifre riscontrabili (poi ci sarebbe tutto il ginepraio dei sussidi camuffati qua e là nelle varie leggi di bilancio alle cooperative dell’accoglienza, ma sorvoliamo per residua carità di patria) parlano di 20 miliardi. Destinati alla gestione e al mantenimento dei migranti, nello stesso periodo storico in cui si martoriava il Sistema Sanitario Nazionale. Ce n’è abbastanza per riprendere uno sfortunato slogan di Sardine, pidioti, pentecatti e compagni assortiti, “il vero virus è il razzismo”, ma cambiandolo di segno. Il vero virus della classe dirigente repubblicana degli ultimi dieci anni è stato il razzismo verso gli italiani.
Visti sempre come materiale di scarto, vuoto a perdere, ultimi nella gerarchia chic della solidarietà. È il virus che ha preparato la strada al Corona, e che in città come Bergamo o Piacenza potete rintracciare nelle bare che tracimano ovunque. Qualcuno, prima o poi, dovrà pur essere chiamato a risponderne.

Giovanni Sallusti, “Libero”.